L.
Benvenuto. Cominciamo questa chiacchierata con qualche
nota biografica. Sei famoso, soprattutto nell’ambiente dei
planetologi, per i tuoi studi sui Corpi minori del Sistema Solare,
ma ti sei laureato in Matematica. Come sei finito all’Osservatorio
Astronomico di Torino?
Z. La mia storia per arrivare alla laurea e poi
all’Astronomia è piuttosto lunga. Finito il Liceo Scientifico a
Savona ero davanti ad una difficile domanda, che condividevo con
molti altri compagni di scuola: che università fare? La mia vera
passione sarebbe stata architettura. Mi era sempre piaciuto il
disegno ed ero piuttosto bravo (almeno così dicevano i miei
insegnanti). Inoltre fin da piccolo ero attratto dalla storia
dell’arte, soprattutto quella medioevale e rinascimentale. Spesso i
regali di Natale e di Compleanno erano libri di architettura antica
o di pittori rinascimentali (il mio preferito è sempre stato
Masaccio). Insomma sembrava ovvio che scegliessi Architettura.
Tuttavia avevo 17 anni e nel 1962 le occasioni per uscire di casa
erano ben più limitate di oggi. Non vedevamo l’ora di essere più
liberi e di fare “baldoria” tra amici (e possibilmente amiche). Io
vivevo a Savona e la facoltà di Architettura era a Genova, ad un’ora
di treno. Per cui non c’era problema a fare il pendolare. D’altra
parte, in quel periodo, il Politecnico di Torino era famoso nel
mondo e chi usciva da quell’istituto trovava immediatamente lavoro.
Era un’ottima “scusa” per chiedere di frequentarlo. Ma la vera
motivazione era un’altra: da Savona a Torino non si poteva fare il
pendolare giornaliero. Bisognava “vivere” a Torino, lontano da casa. Non fu difficile allora rinunciare al sogno e puntare verso una
vita libera e spericolata. Immaginate quanto spericolata poteva
essere a quei tempi, ma comunque era una novità entusiasmante. E poi
tanti compagni di scuola avevano fatto la stessa scelta. Mi iscrissi
al politecnico e trovai alloggio presso una famiglia di origine
toscana che abitava nei pressi. Il biennio fu veramente interessante
e arduo. Erano obbligatori i due esami di Analisi, Geometria, Fisica
e quello di Meccanica Razionale, Chimica e Disegno. E che
professori! Il Buzzano di Analisi ed il Perucca di Fisica. Allora
prendere un 24 era già una conquista che ti lasciava veramente
soddisfatto. Riuscii a finire gli esami nel tempo giusto ed iniziai
il triennio. A quel punto le cose cambiarono molto. Mi ricordo
soprattutto l’esame di Scienze delle Costruzioni. Lo scritto era
sulla teoria dei tensori e presi un bel 30. Ma l’orale era invece
molto più pratico. Coefficienti di resistenza, composizione del
calcestruzzo e cose del genere, tutte essenzialmente mnemoniche. No,
non era per me. Rifiutai il 20 che mi era stato proposto e decisi di
cambiare Università, ben contento però di avere nel carniere gli
esami fatti fino ad allora. Mi iscrissi a matematica, perché la
sentivo più teorica e vicina al mio modo di ragionare: che begli
esami Algebra, Geometria superiore, Calcoli numerici. Poi scelsi
come esame complementare Astronomia: il professore (Fracastoro) era
un simpaticissimo toscanaccio e presi anche un bel 29. Mi mancavano
pochi esami e chiesi la tesi in Astronomia, sulle caratteristiche
ottiche dei telescopi a specchio. Il giorno dopo la laurea, Fracastoro mi telefonò a casa e mi disse: “so che devi fare il
militare tra pochi mesi e quindi nessuno ti darebbe un lavoro prima
del servizio militare. Perché non vieni all’osservatorio (lui era
anche il Direttore) ed elabori un po’ la tesi per farne una
pubblicazione? Avresti anche un po’ di soldini.” Accettai
immediatamente e poi partii per la guerra. Quando tornai, ebbi la
fortuna che il mese dopo c’era il concorso per Tecnico Laureato
all’Osservatorio di Torino. Lo feci e lo vinsi. Da allora non mi
sono più mosso. E cominciai subito a fare Fisica dei corpi minori.
Ma senza rincrescimenti, perché penso che la matematica sia il
linguaggio della Fisica e quindi era molto importante che l’avessi
digerita bene. E poi via via arrivai fino all’ordinariato.
L. Hai all’attivo centinaia di pubblicazioni
scientifiche, ma la tua fama deriva principalmente dagli studi sulle
famiglie dinamiche. Ci vuoi spiegare cos’è una famiglia dinamica?
Z. Il modo migliore per individuare una famiglia
dinamica nella fascia asteroidale è quella di “plottare” in un
grafico l’eccentricità oppure l’inclinazione verso il semiasse
maggiore dell’orbita. Si vedranno subito che esistono gruppi di
oggetti estremamente densi, che non possono certo essere dovuti al
caso. Scoperte fino dall’inizio del 900 dal giapponese Hirayama,
quando di asteroidi se ne conoscevano poche centinaia, queste
“nuvole” di oggetti furono studiate con particolare attenzione. I
singoli asteroidi che le compongono devono per forza avere qualcosa
in comune e questo qualcosa è la loro origine.
Essi
non sono altro che frammenti di un antico asteroide venuto in
collisione con un fratello più piccolo e ridottosi in tanti
pezzetti. Ogni singolo frammento ha poi iniziato a vivere la sua
vita da “single”, mantenendo però caratteristiche orbitali molto
simili a quelle dell’asteroide originale. A questa interpretazione
si è arrivati lentamente, in quanto all’inizio non vi erano prove
fisiche della comune origine. Vi sono state molte classificazioni,
basate su vari approcci statistici, che però avevano un carattere
molto soggettivo. Si doveva trovare un metodo oggettivo al massimo
per evidenziarle rispetto allo sfondo. Nel 1990 applicai il metodo
della minima distanza tra oggetti, in cui sostituii la distanza con
una metrica basata sulle celebri equazioni di Gauss che danno le
velocità relative in funzione delle differenze orbitali. La distanza
diventava quindi la velocità relativa tra oggetti, prendendo un
valor medio per gli angoli che comparivano nelle equazioni. Ottenni
dei diagrammi a “stalattite”, ossia diagrammi che a seconda della
velocità scelta mi dicevano quanti oggetti avevano distanze minori
di quel valore. A quel punto potevo descrivere le famiglie come quei
gruppi che possedevano un certo numero di oggetti più vicini di
quanto ci si aspettasse in una distribuzione casuale. Volendo potevo
essere più restrittivo (abbassando il livello di velocità) o più
ottimista (alzandolo). Il sistema era veramente oggettivo. Le
osservazioni spettroscopiche eseguite in seguito confermarono la
validità dell’approccio statistico: le famiglie dinamiche erano
anche delle vere famiglie fisiche. La composizione era identica o al
limite era compatibile con un oggetto differenziato. La più bella
conferma fu quella della famiglia di Vesta (feci anche una scommessa
con un collega americano che aveva accesso ad un grande telescopio,
Richard Binzel). Vesta aveva un tipo tassonomico unico nella fascia
asteroidale, il tipo V, simile a quello delle meteoriti dette “eucriti”.
Io avevo trovato una numerosa famiglia collegata a Vesta, composta
da oggetti molto piccoli, inferiori ai 10 km, e scommisi con Binzel
che sarebbero tutti stati di tipo V anche loro, in quanto frammenti
originatisi da una collisione semi-catastrofica su Vesta. E questo
fu verificato in pieno dalle osservazioni spettroscopiche: erano
tutti V ed erano i soli conosciuti oltre al loro grosso compagno di
viaggio. Inoltre furono anche scoperti poco dopo alcuni NEA (Near
Earth Asteroids) di tipo V. Conclusi con il primo legame
asteroide-Terra provato dalle osservazioni. Vesta era stato urtato e
dal cratere erano scappati frammenti (la famiglia), alcuni erano
stati immessi nelle risonanze vicine ed avevano raggiunto il Sistema
Solare Interno (i NEA di tipo V). Qualche pezzo era caduto sulla
Terra e lo potevamo prendere in mano (le eucriti). Insomma avevamo
pezzi di asteroide e sapevamo perfettamente da dove venivano! In
seguito il telescopio Hubble identificò anche l’antico cratere su
Vesta. Una bella soddisfazione, non c’è che dire …
L. A tuo parere perché gli italiani sono così
allergici alla matematica, tanto da farne addirittura un vanto del
non capirci niente?
Z. Il primo motivo è forse legato allo stereotipo
del “matematico”, soprattutto se giovane: magro, con gli occhiali e
sempre chino sui libri. E facile allora, in gioventù, cercare di
prendere le distanze da questo classico “secchione”, poco ben visto
dalle ragazze. Poi è stato facile allargare la descrizione a tutte
le età. Sicuramente la logica matematica necessita di grande
concentrazione e lucidità. E’ quindi facile vedere matematici
immersi nei propri pensieri, proprio mentre stanno magari mettendo
qualche idea sotto un ben preciso profilo logico. In quei momenti
non ci si può distrarre, se no salta tutto per aria. Io mi ricordo
quando studiavo Geometria Superiore. Era tutta basata su
chilometriche dimostrazioni astratte, del tipo:“se un filtro
compatto è anche connesso, allora esiste sempre un sottoinsieme che
etc., etc.” Non era facile raffigurare nella propria mente i
Filtri, i Gruppi, gli Ideali e concetti del genere. Io ad esempio li
rappresentavo graficamente, anche se non avevano nessuna
corrispondenza con la realtà astratta della loro definizione. Ma a
me serviva molto per procedere nella dimostrazione senza perdere di
vista il filo logico. All’esame utilizzai lo stesso metodo ed il
professore (Conte, oggi Preside di facoltà e parente stretto del
grande cantautore Paolo) ne fu anche sorpreso, ma lo considerò una
tecnica efficace e mi diede un gran bel voto. Penso che ogni
matematico debba avere una sua filosofia di ragionamento, per
mantenere la calma e la tranquillità necessaria per descrivere la
logica profonda e per non tralasciare nemmeno il più piccolo dei
particolari.
Il secondo motivo è forse legato alla mentalità italiana, più
abituata agli studi classici e umanistici piuttosto che scientifici
(matematici in particolare). Siamo un popolo di poeti, ma non di
matematici, si dice. Anche se poi in realtà i matematici italiani
sono sempre stati tra i più validi al mondo.
Vorrei aggiungere qualcosa in merito alle capacità dei grandi
matematici. Mi ricordo le prime lezioni di Analisi 1 al Politecnico
di Torino date dal grandissimo prof. Buzzano. Seguii le prime 5 o 6
senza capire dove voleva andare a parare. Io pensavo allo studio di
funzioni fatte in quinta liceo, ma qui invece si parlava di
costruzione della frase, di posizione delle congiunzioni e cose del
genere. Avevo forse sbagliato facoltà? Poi finalmente capii.
Bisognava prima preparare la struttura del linguaggio per potere
affrontare anche le più semplici dimostrazioni. Niente doveva essere
ovvio e tutto andava detto nel modo e nel tempo giusto. Capii anche
perché un solo minuscolo errore di posizione durante l’esame avrebbe
abbassato immediatamente il voto di 4 o 5 punti. Non era una ricerca
maniacale di perfezione, ma l’essenza pura della matematica: o entri
in quella logica oppure cambia mestiere! Del Buzzano mi ricordo
anche le stupende lezioni con più di 500 allievi in silenzio
assoluto. Le sue non erano dimostrazioni, ma risoluzioni di un
giallo di Agatha Christie. Una volta suonò la fine dell’ora prima
che potesse dire: “come dovevasi dimostrare”. Ci fu una vera
ribellione. Non lo lasciammo uscire senza che ci avesse svelato il
finale. Fu un momento esaltante per tutti noi e penso anche per lui.
Questa è la vera matematica: una forma di arte intrisa di genio e
perfezione stilistica. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti,
dovendo descrivere con il migliore linguaggio la meravigliosa Fisica
della Natura che ci circonda.
L. Annoveri tra i tuoi amici alcuni tra i più
grandi planetologi del Novecento, Oort, Whipple e i compianti
Farinella e Shoemaker. Che ricordi hai in particolare degli ultimi
due?
Z. Il loro ricordo mi da grandi emozioni e forse
rappresenta la mia più grande soddisfazione di scienziato. Oort l’ho
conosciuto durante un mio soggiorno di studio presso l’osservatorio
di Leiden. Era molto modesto e discreto. Insieme a comuni colleghi
ci aveva invitato nella sua casa di campagna sulle dune del mare del
Nord.
In
quel caso preparai per tutti una “magnifica” spaghettata al sugo di
tonno. Gli spaghetti erano di grano tenero, i pomodori dei pelati
terrificanti e mancava del tutto il vino. Ma il risultato ebbe un
grande successo, forse perché in Olanda, almeno allora, non erano
dei grandi buongustai. Whipple l’ho conosciuto in Giappone, durante
un piccolo congresso a Kyoto. Durante una pausa, mi ero recato in
uno studiolo per fumare una sigaretta (quel viziaccio mi è purtroppo
rimasto). Ad un certo punto mi vedo comparire Fred, che con fare
guardingo mi chiede gentilmente una sigaretta. Ma di nascosto,
perché non voleva farsi vedere dalla moglie. E’ nata una simpatica
complicità che continuò nei giorni seguenti. Poi siamo rimasti amici
ed oggi ho ancora nel mio studio un quadro dove ho esposto le
lettere che mi ha inviato ed anche la busta con un francobollo che
riportava la sua effige, firmato a lato. Grande personaggio e grande
uomo di estrema semplicità e correttezza (non certo simile a certi
baroni universitari locali). Farinella è stato un amico ed un
collaboratore strettissimo. Giovane di straordinarie capacità
intellettuali e di grande fantasia creativa, era anche un simpatico
compagno di merenda. Lui sapeva perfettamente di avere una
gravissima malattia cardiaca e che avrebbe dovuto fare una vita
tranquilla per sperare di vivere il più a lungo possibile. Ma invece
non si tirava mai indietro, perché mi diceva:“meglio vivere
brevemente, ma vivere e non sopravvivere”. e così siamo andati
insieme fino alla riserva indiana dei Supai, 25 chilometri di
cammino sotto il sole del deserto dell’Arizona. E siamo saliti in
cima a tutte le piramidi Maya in Messico. Non voleva rinunziare a
niente e forse non gli si può dar torto. L’astrofisica ha perso con
lui una delle più brillanti menti degli ultimi decenni. Shoemaker
era infine una persona simpatica e deliziosa, malgrado avesse una
fama enorme negli Stati Uniti. Di una modestia e di una sincerità
intellettuale senza pari. Proprio lui, un caro amico, mi ha dato
alcune delle più grandi soddisfazioni della mia modesta vita di
scienziato. La prima si riferisce ad un mio seminario tenuto al
Lowell Observatory di Flagstaff. Avevo appena cominciata la mia
relazione, quando si aprì la porta ed entrò Shoemaker. Era trafelato
e si scusò pubblicamente. Era allora il Direttore del centro
geologico dell’Arizona, a circa 60 miglia da Flagstaff, ed era
arrivato più in fretta che poteva, superando anche il limite di
velocità. A me disse apertamente:”non potevo mancare ad un tuo
seminario!!”. Poche parole, che valgono molto più di tanti titoli o
riconoscimenti.
E
poi erano proprio sentite e venivano dal cuore. La seconda fu
nuovamente a Flagstaff, durante le celebrazioni del centenario
dell’Osservatorio. Io ero stato invitato a parlare (unico non
americano ed anche questa è stata una bella soddisfazione) prima di
Shoemaker. Come al solito condii la mia relazione con qualche
vignetta allegra e qualche battuta di spirito (sono convinto che sia
un metodo magnifico per farsi seguire, soprattutto dai colleghi
americani) ottenendo molti applausi e molte risate divertite. Dopo
toccava a lui. Le prime parole che disse furono: ”e come faccio a
parlare dopo Enzo? Farò una ben misera figura” Quanti avrebbero
detto questo tra i nostri scienziati di ben minore spessore
scientifico e di ben minore fama? Io ne fui commosso e lo abbracciai
con vera amicizia. Quando seppi che era deceduto in quel tragico
modo in Australia capii che sarebbe mancato un vero grande uomo e
non solo uno scienziato celeberrimo.
L. Sei noto per essere una persona molto schietta,
che non le manda a dire come suol dirsi. Ti ha creato qualche
problema questo tuo modo di essere?
Z. Sicuramente si. Ma mi ha anche dato la
possibilità di guardarmi ogni mattina allo specchio senza avere
vergogna di me stesso. Non sono mai stato favorevole ai compromessi,
soprattutto se nascondono la possibilità di ottenere favori. Ho
fatto la mia carriera senza dover dire grazie a nessuno, anzi a
volte mi sono scontrato proprio con chi mi doveva giudicare. Ma non
mi sarei mai perdonato atteggiamenti servili diretti ad un certo
scopo. Questa è una delle poche cose che nessuno mi potrà mai
confutare. Ho avuto parecchi nemici, certamente, soprattutto quelli
che avrebbero voluto dire e fare, ma non ne avevano il coraggio o la
sicurezza interiore. Ma ho anche ottenuto stima da quei pochi che
hanno capito il mio carattere schietto e sanguigno. Faccio un solo
esempio. Durante l’assemblea generale dell’IAU di Patrasso (1982 se
ben ricordo) mi sono scontrato apertamente e senza mezzi termini con
l’editore in capo di Icarus (Burns) e con un collega (Alan Harris),
accusando il primo di scegliere referee soltanto americani ed il
secondo di non aver citato correttamente un paio di lavori fatti con
i colleghi pisani. Fui il solo a parlare (gli altri aspettavano il
risultato in silenzio). Fui anche molto pesante e deciso, malgrado
il mio inglese non fosse proprio oxfordiano. La conclusione fu che
da quel giorno i referee europei divennero un obbligo e che Harris
divenne molto attento alle citazioni. I contatti rimasero comunque
più che buoni e con Harris ci siamo visti molte volte per
scorribande eno-gastronomiche. Anzi, proprio pochi anni fa, dopo una
splendida cena a casa di amici italiani (e forse con qualche
bicchiere di troppo) mi si avvicinò e mi disse senza preamboli: “ti
ricordi di Patrasso? Ebbene, devo ammetterlo: avevi proprio ragione
e mi scuso del mio precedente comportamento”. Grande gesto di umiltà
culturale e di amicizia. Purtroppo non sempre sono stato compreso e
forse spesso sono andato oltre le righe. Ma continuo a pensare che è
meglio sbagliare ed osare in buona fede, che nascondersi per non
rischiare. E questo è anche il motivo per cui sono uscito dalla
Planetologia ufficiale senza alcun riconoscimento da parte di molti
colleghi, a cui sicuramente davo molto fastidio, ma che hanno sempre
approfittato dei risultati da me ottenuti, mettendomi apertamente in
gioco. Ma sono in pensione senza rimpianti e in totale serenità. I
ricordi belli superano e nascondono nettamente quelli più squallidi
ed a volte miserevoli. Ognuno ha la propria coscienza e la stima non
si compra.
L. So che ti era stata offerta la direzione del
mitico Lowell Observatory, in Arizona, ma preferisti rimanere in
Italia. Pentito?
Z. Certamente no. Non mi sono mai pentito di
niente. Da buon matematico ho sempre preso le decisioni dopo
un’attenta lettura logica dei pro e dei contro. Sono stato onorato
dell’offerta e forse questo mi è bastato. Ma avevo un gruppo da
mandare avanti all’Osservatorio e ho preferito restare al mio posto.
Anche se oggi posso dire di aver completamente sbagliato, vedendo i
risultati complessivi e la freddezza ottenuta in cambio, penso che
rifarei la stessa cosa. Bisognava tentare e non accettare un facile
successo. E poi in Italia si mangia e si beve sicuramente molto
meglio!!
L. Hai qualche rimpianto nella sua lunga carriera?
Z. Direi di no anche in questo caso.
In fondo ho
fatto l’astronomo quasi per caso ed ho ottenuto sicuramente molto.
Ho molti altri interessi che premono e vorrei fare ancora molto
negli anni (spero tanti) che mi rimangono. Forse l’unico rimpianto è
stato quello di non aver visto volare la missione PIAZZI, proposta
all’ASI negli anni ’80 da me con alcuni colleghi pisani. Anche per
l’azione di disturbo di alcuni colleghi che temevano di veder
ridotti i propri fondi, la missione fu finanziata solo per un
succinto studio preliminare e poi abbandonata. La missione doveva
dirigersi verso Eros e mettersi in orbita attorno all’asteroide. La
spesa sarebbe stata relativamente modesta e l’impresa tutta
italiana. Ho bisogno di dire che cosa è stato fatto molti anni dopo
dalla missione NEAR della NASA?
L. Ai tuoi tempi, senza computer e camere CCD,
ottenere misure fotometriche accurate di asteroidi era un processo
lungo e delicato. Oggi è sufficiente un telescopietto di 20 cm di
apertura ed una camera CCD per ottenere risultati validi. Ne è
passata di acqua sotto i ponti
Z. Eh sì parole sante! Mi ricordo ancora con molta
nostalgia le notti passate al telescopio Marcon da 45 cm
dell’Osservatorio di Torino. Prima con la cellula Lallemand e poi
con il “nuovo” fotometro digitale. Nel primo caso il pennino
descriveva una linea continua che dovevamo poi mediare a mano e
calcolarne il valore medio. E questo per l’asteroide, il fondo cielo
e la stella di confronto. Anche con il nuovo fotometro però si
dovevano comunque scrivere a mano i conteggi di fotoni e poi
inserirli sul vecchio computer. Molte volte dormivo un paio d’ore e
poi andavo in ufficio a ridurre i dati per vedere subito che
variazione di luce avevamo trovato. E che freddo in cupola! Una
volta siamo arrivati a -12 e abbiamo ceduto con grande tristezza, ma
non si riusciva nemmeno a scrivere per il gelo. Parlo al plurale
perché in questa pionieristica fase della mia vita scientifica
collaboravo strettamente con Franco Scaltriti, grande esperto delle
tecniche fotometriche. Ottenevamo curve di luce veramente belle per
quei tempi e per il telescopio usato. Poi tutto è cambiato in
meglio. Ma i ricordi di quelle notti non si cancellano. Per ottenere
il periodo di rotazione di Nemesis, il più lungo a quei tempi,
abbiamo osservato dieci ore per notte e per cinque notti
consecutive. Che faticaccia, ma che piacere vedere alla fine la
curva di luce completa!
L. Cosa pensi del lavoro svolto dagli astrofili più
evoluti in giro per il mondo in particolare in ambito astrometrico e
fotometrico?
Z. Ho sempre stimato molto i veri astrofili. Ho
anche pubblicato lavori con loro. Oggi possiamo dire che sono più
che essenziali per mandare avanti certi programmi, ormai “snobbati”
ingiustamente dai professionisti. Ma sapete perché sono stati
snobbati? Non perché non erano più necessari, ma solo perché le
maggiori riviste internazionali avevano deciso di non pubblicare più
posizione di asteroidi prima e curve di luce dopo. Molti avevano
abbandonato non vedendo un ritorno di immagine e di carriera.
Peccato, perché la fotometria è ancora estremamente necessaria, e le
posizioni accurate fondamentali soprattutto per i NEA. Meno male che
gli astrofili lo fanno solo per passione e continuano comunque!
L. Sei anche un abilissimo divulgatore.
Contrariamente a quanto avviene altrove, penso per esempio agli USA,
ancora oggi qualche tuo collega italiano ritiene che la divulgazione
sia roba per ricercatori falliti. Mi pare che, quantomeno nel tuo
caso, questa teoria fallisca clamorosamente
Z. Io tengo moltissimo alla “vera” divulgazione.
Anzi la trovo essenziale. Ma quella vera. Spesso si fa divulgazione
cercando di dimostrare quanto si è bravi e preparati. La conclusione
è che gli uditori finiscono col dire: ”che grande scienziato! Non ho
capito niente, ma deve essere molto bravo”. E poi si guardano bene dal
tornare ad assistere ad un’altra conferenza astronomica. La
divulgazione deve invece stimolare chi ascolta a sentirsi
all’altezza e di conseguenza a cercare di approfondire da solo gli
argomenti sentiti. Il miglior complimento per un buon divulgatore
dovrebbe essere:”accidenti, ho capito tutto. Ma allora non sono così
ignorante“. Eppure pochi conferenzieri lo fanno, temendo di
sentirsi sminuiti. L’importante è anche presentare soltanto pochi
concetti, con tante figure e ripetere le spiegazioni anche due o tre
volte. E’ inutile mettere troppa carne al fuoco. Poi bisogna tenere
conto che l’interesse scema lentamente in funzione del tempo. Nel
primo quarto d’ora bisogna presentare i concetti più generali e
semplici, in modo da preparare le menti degli ascoltatori e di
aprirle. Poi ci saranno i venti minuti più impegnativi, con i
concetti più ostici (ma sempre molto semplificati) ed infine si
dovrà scendere lentamente verso le conclusioni, inserendo battute
spiritose, barzellette, disegni. In tale modo si riesce facilmente a
parlare per un’ora senza avere cali di tensione troppo drastici. Un
altro punto essenziale è relativo agli errori “veniali”. Per rendere
più semplice il concetto, io sono convinto che non è negativo
semplificare le cose, anche inserendo qualche lieve inesattezza.
L’importante è che alla fine il concetto base sia compreso. Ci sarà
sempre tempo in seguito a correggere i particolari. E poi io lo dico
subito, fin dall’inizio della conferenza. Non voglio ingannare
nessuno. Faccio un esempio. Se volessi spiegare la formazione del
Sistema Solare, parlerei dell’accrescimento dei planetesimi e di
come si scontrano a bassa velocità e di come lentamente arriveranno
a corpi più grandi fino ai pianeti. E’ ovviamente troppo
semplificato e non tiene conto di altri meccanismi più difficili
legati alla fluido-idro-dinamica ed ai campi magnetici. Ma farei un
gran pasticcio e la gente non seguirebbe. Meglio una visione
semplice (e non certamente sbagliata) che una confusione senza alcun
legame logico. Compresa la versione semplice, si potrà sempre in
seguito cominciare a condirla con qualcosa di più articolato. E poi
ovviamente tutto dipende dall’uditorio. Io ho fatto esempi relativi
a persone completamente digiune in materia. Se dovessi parlare ad
astrofili, alzerei il tiro ovviamente.
L. Tra i tuoi interessi c’è anche l’archeoAstronomia.
Cosa ti affascina di questa disciplina?
Z. E’ stato un interesse recente e non so nemmeno
se durerà. Più che altro è nato su richiesta di un’amica che risiede
alle falde del Monte Amiata e che era interessata a saperne di più
sull’Astronomia etrusca. Ho fatto un po’ di ricerche e, come sempre
mi capita, mi sono fatto coinvolgere da cose che non conoscevo e ho
allargato il campo d’azione. Forse mi è servita per capire una cosa
precisa su di me: penso di essere nato “ricercatore”, ossia
qualunque sia l’argomento sento il bisogno di approfondirlo fino a
capire ed avere un quadro sufficientemente logico dell’intera
situazione. Poi a seconda dell’interesse continuo o cambio, ma
l’importante è inserirlo in un contesto che mi permetta di
comprendere le linee essenziali. In questo sono sempre un po’
bambino, con la voglia di sapere di tutto e di più.
L. Cosa pensi dell’attuale sistema formativo italiano? Ritieni sia
adeguato alle esigenze della moderna società tecnologica?
Z. Una volta lo era sicuramente. Negli anni ’60
penso che i nostri licei e le nostre Università fossero le migliori
del mondo. Formavano persone con una vasta cultura generale
(fondamentale per capire sempre dove e come inserire la propria
specializzazione) e davano lo stimolo a tirare fuori il meglio da
noi stessi. Purtroppo non si muoveva parallelamente la ricerca
istituzionale. Sembrava un lusso che il paese non poteva
permettersi. Molti scappavano all’estero (non è cosa solo di oggi ���)
o vivacchiavano con misere risorse. Ma comunque era ancora vivo lo
spirito italiano più vero, quello che ci ha dato Leonardo, Galileo,
Fermi. Bastava una matita o un gesso sulla lavagna. Mi ricordo
quando le prime foto del Voyager 2 sono arrivate in Europa. I
colleghi americani temevano di darci i dati, perché sapevano che gli
italiani avrebbero fornito spiegazioni immediate basate su una
visione di ampio respiro, mentre loro avevano bisogno di fare girare
i programmi, di riflettere solo dopo che i dati erano stati
completamente ridotti e cose del genere. Ero a Pisa con Farinella,
Anna Nobili e mi sembra Paolicchi. Abbiamo proiettato sul muro della
vecchia Università una gigantografia della prima immagine di Mimas.
Poi abbiamo misurato brutalmente la larghezza e l’altezza e ci siamo
accorti che il satellite era schiacciato ai poli. E’ stato facile
con semplici formulette, sapendo il diametro e la distanza da
Saturno, fare qualche conto sulle forze mareali ed intuire la
composizione interna del satellite e la sua densità. Prima che gli
americani cominciassero ad analizzare al computer quei dati, noi
avevamo già pronto un lavoro da pubblicare. Ed era anche corretto.
Questa è sempre stata la forza degli italiani. Poi, purtroppo,
l’università si è portata verso i modelli americani, guardando
soprattutto al ritorno economico. La cultura di base è scemata e
l’uso della matita e del gesso è scomparsa. Siamo diventati tutti
“amanti” del computer, della pagina scritta perfettamente, delle
figure leccate e perfette. Troppo tempo sprecato. Chi vede oggi un
giovane ricercatore con una matita ed un foglio? Nessuno. Io mi
ricordo che quando andavo a Pisa per collaborare con i colleghi
dell’Università, a volte, passavamo due o tre giorni a parlare e
fare ipotesi anche assurde. Si chiacchierava a ruota libera davanti
ad una lavagna. Ma alla fine qualche idea buona veniva e si poteva
allora cominciare ad usare il computer. Oggi si fa il contrario. E
poi c’è stato il “boom” del ritorno tecnologico. La ricerca pura non
serve più a niente. Bisogna produrre e subito. Ma è assurdo! Senza
ricerca di base non si costruisce niente. Ma chi decide
l’assegnazione dei fondi non riesce a capirlo sia per incapacità
culturale che per interessi economici. E stiamo perdendo il nostro
punto di forza che ci faceva un po’ speciali. Ci siamo adeguati ai
programmi dei paesi più ricchi di fondi per la ricerca e non siamo
in grado di competere sulle applicazioni tecnologiche. Ci illudiamo
di esserlo ed invece cadiamo nell’anonimato. La nostra grande forza,
da tutti invidiata, era la cultura generale e la logica. Oggi
purtroppo le stiamo completamente perdendo. E questi ricercatori
saranno i professori di domani e temo che si sia entrati in un
cerchio senza uscita. Peccato!! Purtroppo però questo è un problema
mondiale e non solo italiano. La scienza con la S maiuscola è
chiaramente in calo, almeno per quanto riguarda la Fisica e
l’Astronomia.
L. Si dice sempre che nel
selezionare i ricercatori bisogna utilizzare criteri meritocratici
basati sul numero e la qualità delle pubblicazioni scientifiche. Poi
nei concorsi succede, a volte, che un ottimo ricercatore con decine
di lavori su riviste internazionali sia superato da un altro che
pubblica sul giornale di paese
Z. Anche queste sono parole sante. A volte però si perde il meglio
già prima di avere concorsi truccati. Ho avuto con me giovani
laureati dalle grandi capacità che non sono riuscito a trattenere
perché i concorsi erano bloccati oppure avevano una cadenza da
Matusalemme. E non c’era più posto per incarichi seri. Non tutti
possono vivere nel precariato per anni. Stiamo arrivando ad una
elite scientifica basata non sui meriti ma sulla possibilità delle
famiglie di mantenere il figlio o la figlia a studiare per pochi
euro al mese. Facciamo una selezione sulle possibilità economiche e
non sulle capacità intellettuali. Quando poi finalmente arriva un
concorso, c’è una caccia terrificante al posto. E questa fame di
posti aiuta le azioni truffaldine. Pur di ottenere qualcosa si usano
tutti i mezzi. E l’Istituto più potente o con maggiori agganci
politici riesce ad avere la meglio. Prima di prendermela con i
concorsi “truccati”, me la prenderei con la mancanza di concorsi. La
fame istiga l’ingegno anche verso le azioni meno limpide. Il
problema di fondo rimane sempre lo stesso: in Italia non interessa
la ricerca scientifica pura, che è sempre stata il nostro vanto e la
nostra forza.
L. All’osservatorio di Torino
ti è capitato di
ospitare per periodi di studio molti giovani promettenti di altre
nazioni. Attualmente stiamo assistendo, al contrario, alla fuga
all’estero dei nostri ragazzi migliori. Siamo un Paese in vena di
suicidarsi o fa comodo tener lontani quelli che pensano troppo?
Z. Come dicevo prima, secondo me la fuga dei
cervelli c’è sempre stata, perché c’è sempre stata la mancanza
cronica di fondi sufficienti. Oggi se ne parla di più, anche perché
fa comodo a certe parti politiche. Ma non sono del tutto convinto
che ci sia stato un peggioramento. Non che questa considerazione sia
positiva. Anzi. L’Italia si sta suicidando senz’altro, almeno da un
punta di vista scientifico. Vogliamo competere solo sulle
applicazioni tecnologiche ed io temo che questo sia molto difficile.
Il nostro compito dovrebbe essere un altro, come dicevo prima, ma
nessuno vuole o riesce a capirlo. Da un punto di vista utopistico
avrei la ricetta: allarghiamo le assunzioni “sicure”, diamo più
fondi per la ricerca ed un po’ alla volta migliorerà anche il
livello degli insegnamenti universitari e la nostra competitività in
campo internazionale. In altre parole, torniamo indietro elargendo
più fondi. Ma non ci crederei nemmeno se lo vedessi con i miei
occhi. L’Italia preferisce rincretinire i giovani con la televisione
e la stampa di parte. Sono molto sconsolato quando sento ricercatori
che potrebbero essere anche validi parlare del Grande Fratello e
delle soap-opera. Sono scomparsi gli attori, il teatro, per far
posto alle vallette e agli imbonitori. Con queste premesse, come si
fa a sperare di avere nuovamente dei grandi scienziati? Voglio dire
apertamente che queste sono mie personali convinzioni. Potrei essere
completamente in errore.
L. Hai una grande passione per i viaggi, ami l’arte
e la montagna e sei anche uno specialista di vini. Allora gli
scienziati non sono tutti topi da laboratorio o da osservatorio
Z. Ho paura di essere una mosca bianca. Spesso lo
scienziato o almeno quello che si crede tale, si sente obbligato a
parlare sempre di lavoro. Io lo trovo avvilente e culturalmente
mediocre. Non ho mai fatto fatica ad essere me stesso dovunque e
comunque. Non ho mai voluto apparire diverso da quello che sono.
Molti colleghi (forse troppi) passano la vita a cercare di
dimostrare chi sono, senza nemmeno saperlo loro. Vogliano
dimostrarsi grandi scienziati senza alcuna umiltà culturale. Molti
sono rimasti infantili e sono pieni di rancori mai espressi. Io so
benissimo che da molti colleghi sono considerato un “ubriacone” solo
perché ho la passione culturale per il vino e per chi e come lo
produce. Si va avanti a frasi fatte, senza cercare di capire le vere
motivazioni. La mia passione per l’arte non ha mai ostacolato la mia
modesta ricerca scientifica, né penso l’abbia sminuita. Quante volte
una cultura più vasta mi è stata utile per risolvere problemi di
pura Fisica o matematica! Ed invece spesso ho visto scene per me
“raccapriccianti”. Colleghi che hanno chiamato l’Acropoli di Atene,
quella “rocca semidistrutta”, o che hanno continuato a parlare di
lavoro all’interno della Cappella degli Scrovegni di Giotto, senza
nemmeno alzare gli occhi alle pareti. Come si può pensare che questi
siano veri scienziati? Saranno preparatissimi nel loro limitato
campo d’azione, ma sono uomini falliti. Prima di scienziati bisogna
essere veri uomini. Io la penso fortemente così. E sono costretto a
dire che spesso e volentieri ho visto tanti bravi scienziati, ma
altrettanti mediocri personaggi che non sanno inserirsi nella realtà
quotidiana. Questo porta a vedersi membro di una ristretta elite e a
rifuggire chiunque voglia invece avere parte attiva nelle cose anche
più semplici. Ho conosciuto grandi persone sia tra i vignaioli, che
tra gli operai in tuta (ne ho visto uno al Carmine di Firenze, verso
le 18, che prima di andare a casa andava a godersi in silenzio gli
affreschi di Masaccio). Ho visto pluri-laureati incapaci di
afferrare le meraviglie della natura ed incapaci di capire i valori
profondi della gente più semplice. Chi è allora tra loro il vero
intellettuale? Ossia quello che sa usare meglio il proprio
intelletto? Devo dire la verità, temo che lo scienziato medio sia un
personaggio complessato e pieno di rancore e di smania di apparire a
tutti i costi. Persone “grandi” nella Scienza ne ho conosciute poche
e purtroppo pochissime in Italia. Forse le posso contare sulle dita
delle mani (o una sola?). Sicuramente Whipple e Shoemaker, ma anche
qualche ricercatore sconosciuto e che rimarrà sempre tale. Molti
ottimi e veri amici li ho trovati invece al di fuori del “mio”
ambiente. Potrei anche fare nomi di famosi studiosi italiani, che
dovrebbero avere ottenuto il massimo e che si sono poi dimostrati
squallidi personaggi umani. Ma taccio, per non essere accusato di
calunnia e dover poi pagare un mucchio di soldi a chi già li
possiede. Preferisco spendere in un viaggio, in una buona bottiglia
di Barolo, in una settimana di sci, in un libro di arte
L. Sei da poco andato in pensione ma a giudicare
dalla sua agenda di impegni si direbbe che è solo cambiato il tuo
datore di lavoro
Z. Si è vero!! Un mio caro amico americano mi ha
detto recentemente.”Si va in pensione quando si smette di fare
quello che non si vuole fare”. Magnifico concetto che approvo in
pieno. E lui è proprio Alan Harris, grande scienziato, ma anche
grande intenditore di vini e di alta cucina. Ogni anno ci troviamo e
passiamo un paio di giorni a parlare di tutto, ma quasi mai di
lavoro. Sarà un caso? In questo momento sto facendo in realtà molte
cose (forse troppe), ma bisogna cogliere “l’attimo fuggente”. Sto
entrando sempre più nella cultura del vino e sto anche scrivendo
articoli di valutazione e partecipo a degustazioni professionali. Ho
fondato un circolo cultural-godereccio (più esattamente
eno-g-astronomico) che è stato accolto con grandissimo entusiasmo da
produttori di vino, ristoratori, ma anche da giornalisti, astronomi,
avvocati, ingegneri, ecc. Mi sono messo a scrivere racconti di
fantascienza che spero anche di pubblicare e mi sto divertendo un
mondo e mi interessa poco che diventino un successo o rimangano tra
una ristretta cerchia di amici. Passerò sicuramente un paio di
settimane ogni anno in Toscana, che sento sempre come centro della
cultura italiana e che mi riporta ai bei tempi del Rinascimento.
Sono entrato in un circolo che studia lo sfruttamento dello Spazio e
sto dando una mano ad organizzare un congresso internazionale.
Continuo a fare divulgazione astronomica e mi tengo informato. Tutto
però viene preso con grande dose di umorismo e di “umiltà
culturale”: io offro quello che so e cerco di ricevere dagli altri
quello che non so. Questo mi permette di essere sempre un po’
bambino e di avere sempre qualcosa da imparare. E ho sempre con me
la mia cara moglie Gianna che mi sopporta e condivide da
quarant’anni le mie passioni e le mie manie. Ma ci stimiamo molto
reciprocamente e questa è la cosa più importante. Sono più in
generale in una fase in cui ho bisogno di condividere le idee, le
impressioni, le sensazioni, le emozioni. Ed ho capito che questo
bisogno lo hanno molte altre persone, anche se spesso lo tengono
nascosto. E sono contento quando vedo che si aprono e si lasciano
andare. La vita è bella e bisogna saperne godere tutte le varie
sfaccettature, che siano concetti di alta Fisica, un palazzo od una
chiesa del quattrocento, una bottiglia di Barbaresco del ’79, o
soltanto una cena tra veri amici. E consiglio a tutti questa
semplice ricetta: lasciate da parte la voglia di “dimostrare” a
tutti i costi e siate voi stessi con i vostri pregi ed i vostri
difetti. Non ve ne pentirete, parola di un giovane eno-g-astronomo
in pensione!!
L. A tuo parere per un giovane di belle speranze è
importante avere dei buoni maestri o è preferibile che si “faccia le
ossa” da solo?
Z. Sicuramente avere dei buoni maestri è
importante. Ma è difficile trovare un “buon” maestro. Spesso sono
molto bravi scientificamente, ma temono di essere un giorno superati
dall’allievo. E l’ho visto in tanti colleghi. Io però ho difficoltà
a rispondere. Quando ho cominciato all’osservatorio eravamo in 5-6
persone ed io ho iniziato la ricerca sui corpi minori completamente
da solo. La biblioteca era quello che era, internet non esisteva, si
poteva solo scrivere ai colleghi, aspettare quindici-venti giorni
che arrivasse la risposta e poi magari accorgersi di non avere
chiesto tutto. Nel primo anno di lavoro, per tornare alle mie
“care” famiglie, mi sono messo a ”plottare” su un foglio di carta i
parametri orbitali del migliaio di asteroidi allora conosciuti.
Tutto ovviamente fatto a mano. Giorni e giorni di squallido lavoro
da manovale. Alla fine però ho visto che vi erano concentrazioni di
oggetti che dovevano essere sicuramente “anormali”. Mi sentii un
conquistatore. Corsi subito dal mio Direttore, che però ben poco
conosceva dei corpi minori, e gli feci vedere i risultati.
“Magnifico!, mi disse, continua, devi aver fatto una grande
scoperta". Ero contentissimo ed euforico. Cominciai anche altre
analisi, immaginando il momento in cui avrei fatto il grande
annuncio. Poi però mi sentii più tranquillo andando a fare qualche
ricerca nelle vecchie riviste stipate in cantina. Avevamo ben poco
sulla planetologia (l’Osservatorio in quel campo aveva solo lastre
fotografiche per calcolare la posizione dei pianetini), ma alla fine
trovai una rivista giapponese del 1920 o giù di lì. Fortunatamente
aveva l’abstract in inglese e le figure erano nel solito linguaggio
internazionale comprensibile a tutti. Che brutto colpo vedere la mia
“scoperta” già pubblicata da più di quarant’anni!! Odiai Hirayama e
le sue “famiglie”. Ma imparai molto. Le famiglie mi rimasero nello
stomaco e alla fine riuscii a fare qualcosa di nuovo ed importante
su di loro. Lo dovevo fare e ci sono riuscito. Quel giorno non ho
più odiato Hirayama! Per tornare alla domanda, quindi, non so
proprio come rispondere. Ho da un lato invidiato i ragazzi che
arrivavano in Osservatorio e sapevano già cosa fare e cosa leggere,
seguiti dai colleghi più anziani. Ma dall’altro penso che gli sforzi
fatti da solo sono serviti molto per prendere sicurezza in me stesso
e non aver paura di affrontare gli uditori anche più prestigiosi. A
volte i problemi ti aiutano. Quando ero bambino, ero terribilmente
“balbuziente”. Avevo paura di entrare in un negozio e chiedere,
perché temevo di non essere in grado di iniziare la frase. A scuola
ero spesso preso in giro, come è ovvio, e mi creavo molti problemi,
ma anche tanta voglia di superare quello scoglio. Sono stato portato
da specialisti, ma nessun rimedio significativo. Andando a studiare
a Torino qualcosa si è sbloccato. Mi sono sentito uno fra tanti che
non conoscevano ancora il mio problema di linguaggio. Sono riuscito
prima a nasconderlo al meglio e poi a superarlo. Questo fatto mi ha
sicuramente molto aiutato nel non avere paura di parlare ai
congressi. Era sempre una specie di sfida che vincevo e che mi dava
profonda soddisfazione. Forse senza la balbuzie avrei subito come
moltissimi l’ansia da pubblico. Per me invece non è mai esistita:
più persone ci sono, più esperti ci sono e più mi sento stimolato a
parlare senza tentennamenti.
L. Cosa consiglieresti ad un ragazzo che volesse
diventare un planetologo?
Z. Di cambiare mestiere. Ovviamente sto scherzando,
ma non troppo. Prima di tutto gli consiglierei di diventare un uomo,
di vedere il mondo con la giusta umiltà e di non pretendere di
ottenere tutto e subito. Poi lo farei studiare e digerire i concetti
fondamentali. A volte molti non riescono perché vogliono subito
“produrre”, anche senza prima studiare a fondo i problemi. Poi tutto
verrebbe da solo. Comincerebbero le prime idee intelligenti, le
prime critiche basate su dati di fatto e i primi lavori. Nel
frattempo però sarebbe molto importante saper scrivere le cose con
grande logica (e qui torna in ballo la matematica, il latino, la
Divina Commedia, la cultura generale). Sempre però con i piedi per
terra. Non sminuire mai le proprie idee (“gli altri saranno
sicuramente già più avanti di me” questo è un grande errore da NON
fare mai), ma nemmeno sentirsi superiore. Insomma di nuovo la mia
fissazione: UMILTA’ CULTURALE, che vuol dire non considerarsi
inferiore, ma nemmeno cercare di fingere di essere superiore.
Bisogna avere una grande sicurezza in se stessi, sia in quello che
si sa, sia in quello che non si sa. E non avere paura a chiedere
anche le cose più banali. Magari a noi lo sembrano, ma poi ci si
accorge che sono difficili anche per gli altri. A tal riguardo mi
ricordo che su tutti gli articoli di fotometria venivano riportate
le trasformazioni canoniche per passare al sistema standard delle
magnitudini. Veniva spiegato chiaramente, ma io vedevo un’enorme
difficoltà nell’attuazione pratica. Eppure gli altri ci riuscivano
tranquillamente. Ero così idiota? All’inizio usai un sistema molto
brutale, considerando certi coefficienti trascurabili. Ma d’altra
parte non sarei riuscito a fare di meglio. Poi decisi di uscire allo
scoperto e durante un piccolo congresso in America, mi alzai e dissi
chiaramente: “scusate, ma come fate a risolvere questo problema che
sembra a tutti così ovvio?”. Roba da nascondersi sotto il tavolo. E
invece, si aprì una limpida e illuminante discussione e mi accorsi
che il mio problema era condiviso da tutti. E tutti usavano
metodologie approssimate. Quel giorno decidemmo di unificare le
nostre procedure e tutti, sono convinto, si sentirono molto meglio e
nessuno nascose più la polvere sotto al letto. Ma queste sono belle
parole e bei consigli solo se ci fosse la possibilità di avere
fondi, di girare il mondo, di avere un posto sicuro che non ti metta
addosso la smania di pubblicare subito qualcosa per fare meglio del
collega che ti può portare via il posto del prossimo, agognato,
concorso. E si ritorna da capo. E’ difficile spingere qualcuno a
fare lo scienziato, planetologo o geologo che sia. Sono sempre stato
chiaro con i neo-laureati. Ho sempre fatto presente le difficoltà ed
i rischi del mondo della ricerca. E non ho mai cercato di crearmi
degli “schiavetti” da utilizzare per qualche anno per poi buttarli
al macero. Oggi non saprei che dire, veramente. Forse solo questo:
se ci credete veramente andate avanti! Se avete dubbi lasciate
perdere. Comunque non sperate mai troppo negli altri, ma
soprattutto in voi stessi. E non seguite le mode (la planetologia è
sempre stata “snobbata” dagli altri astrofisici). Se ci credete,
andate avanti. Io ho proseguito malgrado i sorrisi di scherno di
molti colleghi o la sottostima di altri. Una volta un vecchio
professore di astroFisica mi disse:”cambia campo di ricerca. Con la
planetologia non si fa carriera. Si rimane in serie B o C”. Mi ha
invece dato maggiore stimolo e rabbia. Avrò magari impiegato qualche
anno di più, ma ho comunque vinto il concorso da Astronomo
Ordinario, e nessuno ci avrebbe scommesso una lira. Eppure non ho
mai avuto Santi in Paradiso, anzi. Prima o poi un po’ di onestà
viene fuori e nemmeno i più grandi manovratori sotterranei potranno
sempre nascondere i meriti altrui. Mai perdere la speranza, anche se
le difficoltà sembrano insuperabili. Ma bisogna saperlo bene e non
pentirsi o rinunciare al primo intoppo.
L. Siccome nonostante tutto siamo degli ottimisti,
ci consigli un buon vinello per festeggiare i nostri successi futuri
e quelli dei nostri lettori?
Z. Sicuramente. Ma non un “vinello”, bensì il re
dei vini: il Barolo. Solo lui ha quelle sfumature eleganti e rudi,
soffici e violente, languide e sanguigne che portano all’estasi
gustativa. Ma non un Barolo qualsiasi, mi raccomando! Non posso
farlo pubblicamente. Ma a chi chiederà un consiglio sarò lieto di
rispondere privatamente. E vi assicuro che vi farò bere il massimo
senza spendere cifre da capogiro. Un CIN CIN a tutti lettori!!
Per approfondimenti:
Bendjoya, Philippe; and Zappalà, Vincenzo; "Asteroid Family
Identification", in Asteroids III, pp. 613-618, University of
Arizona Press (2002), ISBN 0-8165-2281-2
V. Zappalà et al "Physical and Dynamical Properties of Asteroid
Families", in Asteroids III, pp. 619-631, University of Arizona
Press (2002), ISBN 0-8165-2281-2
A. Cellino et al "Spectroscopic Properties of Asteroid Families", in
Asteroids III, pp. 633-643, University of Arizona Press (2002), ISBN
0-8165-2281-2
V. Zappalà et al “Asteroid Families: Search of a 12,487-Asteroid
Sample Using Two Different Clustering Techniques”, Icarus, Vol. 116,
p. 291 (1995.)
Zappalà, Vincenzo; Cellino, Alberto; Farinella, Paolo; and Milani,
Andrea; "Asteroid families II - Extension to unnumbered
multiopposition asteroids", Astronomical Journal, Vol. 107, pp.
772-801 (February 1994)
Zappalà, Vincenzo; Cellino, Alberto; Farinella, Paolo; and Knežević,
Zoran; "Asteroid families I - Identification by hierarchical
clustering and reliability assessment", Astronomical Journal, Vol.
100, p. 2030 (December 1990).
Hirayama, Kiyotsugu; "Groups of asteroids probably of common origin",
Astronomical Journal, Vol. 31, No. 743, pp. 185-188 (October 1918).
Referenze fotografiche:
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ab/AsteroidIncAu.png
http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/1997/27/image/a/format/web_print/
http://www.nmspacemuseum.org/halloffame/images.php?image_id=87
http://astrogeology.usgs.gov/About/AstroHistory/shoemaker.html
Libri di divulgazione scientifica (e non solo) di Vincenzo Zappalà Per tutti i libri è disponibile sia la versione cartacea che quella “ebook”
L’Infinito Teatro del Cosmo
L’astrofisica senza formule. L’Universo è considerato un
immenso teatro in cui si muovono i vari attori, tutti ugualmente
importanti, anche se le loro dimensioni variano dall’infinitamente
piccolo all’infinitamente grande. All’inizio si spiega come è fatto
il palcoscenico, qual è la sua struttura e le leggi che lo regolano.
Si descrive lo spazio-tempo, il cono di luce e come si possano
inviare informazioni da un capo all’altro del Cosmo. Poi, un po’
alla volta, entrano in scena gli attori, legati uno all’altro da una
trama senza fine. Stelle, galassie, ammassi globulari, pulsar, buchi
neri, pianeti, asteroidi, protoni, neutroni, elettroni, fotoni,
ecc., intrecciano le loro storie e, spesso, spiegano in prima
persona il copione che recitano in un’avventura che non può avere
uguali. Una lettura per tutti che affronta gli argomenti più caldi e
attuali della scienza tra le scienze.
Versione cartacea (16 euro):
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=796706
Versione ebook (10 euro):
http://www.lulu.com/shop/vincenzo-zappal%C3%A0-and-francesca-diodati/linfinito-teatro-del-cosmo/ebook/product-20124292.html
Il gioco delle stelle
La materia primigenia formatasi con il Big Bang sembra avere
mirato a un unico scopo: quello di creare le stelle, la fabbrica
fondamentale per dare origine a tutto ciò che oggi esiste nel Cosmo.
Il racconto della loro vita è quindi una favola meravigliosa, che
forse solo i bambini riescono a comprendere fino in fondo. Come una
specie di gioco senza fine esse seguono regole sempre uguali e
sempre diverse. La mente umana è riuscita a sintetizzare la loro
complessa evoluzione in un unico diagramma di una semplicità e di
una generalità ineguagliate: il diagramma di Hertzsprung-Russell,
uno dei baluardi dell’astrofisica, forse il suo vero punto d’inizio.
Attraverso un linguaggio semplice e intuitivo, questo libro cerca di
svelarne i mille segreti e far comprendere come il diagramma mostri
con estrema chiarezza le connessioni delle quattro grandezze
fondamentali degli astri, massa, dimensioni, temperatura e
luminosità, legate in abbraccio di armonica perfezione.
Versione cartacea (13 euro):
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=881297
Versione ebook (9 euro):
http://www.lulu.com/shop/vincenzo-zappal%C3%A0/il-gioco-delle-stelle/ebook/product-20426861.html
La Fisica addormentata nel bosco
Fisica significa Natura e, di conseguenza, cercare di capire
le sue leggi vuol dire imparare a vivere. Senza le basi della fisica
più elementare diventa impossibile godere sia dei meravigliosi
segreti del Cosmo sia delle esperienze della vita di tutti i giorni.
Questo libro vuole aiutare a entrare in questo mondo, affrontando il
movimento dei corpi. Una specie di avventura o di fiaba, in cui i
due protagonisti sono un principe e un boscaiolo, improvvisamente
trovatisi in un bosco che ha riacquistato la possibilità di agire.
Reso immobile da una strega di nome “ignoranza”, un semplice “bacio”
della mente dischiude ai nostri due eroi una realtà fantastica.
Prima riescono a descriverne i moti (cinematica), poi a scoprirne le
cause (dinamica) e, infine, a ottenere un nuovo e consapevole
equilibrio (statica). Per spiegare la fisica è stato necessario
usare il suo linguaggio, l’unico capace di riassumere e di fare
chiarezza: la matematica. Quella elementare, però, alla portata di
un qualsiasi studente di scuola media o poco di più. L’autore ha
anche cercato di farla amare come un’amica insostituibile.
Versione cartacea (19 euro):
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=912975
Versione ebook (10 euro):
http://www.lulu.com/shop/vincenzo-zappal%C3%A0/la-fisica-addormentata-nel-bosco-alla-scoperta-del-regno-del-movimento/ebook/product-20569075.html
E se fosse vero?
Una raccolta di 48 racconti brevi in cui la realtà vive forme e
situazioni dall’apparenza assurda, mentre la fantasia più sfrenata
sembra seguire regole e leggi della più comune normalità. Scherzi,
illusioni, speranze, ma anche condanne e miserie della vita di tutti
i giorni trasfigurati e deformati. L’autore ha cercato di
esprimere, attraverso le varie storie, la propria visione etica e
sociale dell’umanità di oggi e delle sue conquiste e limitatezze. A
volte con ironia e sarcasmo, altre volte con commozione e trasporto.
Amarezza e speranza si confondono e si mischiano senza alcuna logica
apparente, se non quella del pensiero e della riflessione. In tutte
si sente, però, l’appassionato amore dell’autore per tutto ciò che è
Natura e il segno incancellabile di tanti anni di ricerca
scientifica.
Versione cartacea (12 euro):
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=798134
Versione ebook (8 euro):
http://www.lulu.com/shop/vincenzo-zappal%C3%A0/e-se-fosse-vero-48-racconti-di-scienza-fantastica-e-di-fantasia-scientifica/ebook/product-20127177.html
Vini dell’altro mondo
Un’avventura di fantascienza, anzi di fantenologia, nata dalla
passione dell’autore per il vino d’autore, quello capace di far
nascere sensazioni ed emozioni uniche. Un ricercatore terrestre
parte per la galassia d’Andromeda allo scopo di scoprire se anche in
quell’immenso insieme di mondi abitati si conosce l’uva e la sua
trasformazione in vino. Nel suo incredibile viaggio si trova di
fronte a realtà insospettate e impara come spesso ciò che sembra non
è sempre la verità. Un gioco di puro divertimento, insaporito da
un’astrofisica deformata, da effetti speciali e da conclusioni
inaspettate. Tra le righe, però, si legge sempre una parodia più o
meno velata della vita di tutti i giorni.
Versione cartacea (10 euro):
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Versione ebook (5 euro):
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