Prologo al progetto Astro-Percorsi, a cura di Domenico Licchelli (Osservatorio Astrofisico R.P.Feynman) e Prof. Francesco Strafella (Gruppo di Astrofisica, Dipartimento di Matematica e Fisica "Ennio De Giorgi", Università del Salento)
Astro-Percorsi è un'idea che nasce a partire da discussioni intercorse durante le “pause caffè” pomeridiane nel Laboratorio di Astrofisica dell'Università del Salento. Lo scopo di questa iniziativa è di offrire una possibilità di comprensione dei fenomeni celesti, e quindi familiarizzare con essi, ad un pubblico più vasto di quello tradizionalmente costituito dagli studenti dei corsi di Astrofisica che si tengono presso l'Università del Salento.
Nelle nostre intenzioni non si tratta di riprodurre uno dei tanti "tutorial" dedicati all'Astrofisica visto che questi si possono facilmente trovare sulla rete internet, sebbene il più delle volte in lingua inglese. Vogliamo invece far vedere come sia possibile conciliare un approccio intellettuale, tipico di un corso universitario, con un approccio molto più legato alla reale e concreta osservazione del Cielo, realizzando così nel nostro piccolo quella formidabile sinergia tra teoria ed osservazione che nella storia dell'uomo ha portato a capire ciò che appariva incomprensibile.
Naturalmente la nostra azione si svolge sulle spalle dei giganti, ovvero sul sapere accumulato dagli uomini di scienza che ci hanno preceduto e che possiamo per questo indicare come i nostri "Saggi". A questi Saggi quindi facciamo riferimento per appropriarci del metodo che ha guidato la loro attività conoscitiva e che vogliamo qui adottare nella convinzione che sia il miglior modo per farsi un'idea, la più possibile coerente e soddisfacente, del mondo fisico.
Impossessarsi di questo metodo in generale non richiede particolare sforzo di comprensione perché, in estrema sintesi, la faccenda si può ridurre alla accettazione o meno di una visione filosofica del mondo fisico, che è poi quella che dal Galilei in poi ha dato corpo al cosiddetto "metodo scientifico". Talvolta, però, seguire questa strada maestra può richiedere un certo impegno, in particolare quando ci imbattiamo in fenomeni nuovi, che emergono e si presentano alla nostra attenzione ogni volta che le capacità osservative migliorano.
Dal punto di vista del nostro potenziale lettore, questo si può tradurre nell'avvertimento che l'inquadramento di un dato fenomeno non sempre sarà subito chiaro alla nostra mente e che quindi potrebbe essere richiesto uno sforzo di approfondimento di quelle conoscenze teoriche che ci possono dare una chiave di lettura. Questo è del tutto normale ed anzi è un segnale che ci accingiamo a superare una soglia che finora ci ha impedito una comprensione più profonda del mondo fisico.
Nello spirito di questa premessa ci avviamo quindi alla preparazione di una serie di percorsi, di informazione e approfondimento, su temi che legano lo studio del mondo extraterrestre alla Fisica attraverso l'osservazione del Cielo.
Solo nella sua storia più recente l'uomo è riuscito a comprendere la natura del Sole. Per il fatto che dà energia ed è fonte di vita sulla Terra è sempre stato considerato una divinità nelle civiltà più antiche. Oggi però sappiamo che esso è più semplicemente la stella a noi più vicina, una conclusione a cui siamo arrivati essenzialmente studiando la sua luce. Essa infatti non è solo una fonte di energia, ma nasconde anche una grande quantità di informazioni sulla natura della nostra stella, ed è di questo che ora ci vogliamo rendere conto.
1.1 - Breve digressione sul colore dell'arcobaleno.
Molte informazioni sulla natura di una sorgente di luce sono codificate nel cosiddetto "spettro" della luce che, nel caso del Sole, possiamo vedere anche ad occhio nudo quando osserviamo il fenomeno dell'arcobaleno. Questo è il punto focale: l'arcobaleno mette in evidenza che la luce del Sole, che a noi appare di un unico colore bianco, in particolari condizioni si può scomporre nelle sue componenti che si mostrano come una sequenza di archi proiettati nel cielo con colori ed intensità diversi. Il fenomeno è associato alle piogge che lasciano in sospensione nell'atmosfera goccioline d'acqua che, in presenza della luce del Sole (proveniente dalla direzione opposta all'arcobaleno) si comportano come piccoli prismi. Un fenomeno simile lo possiamo infatti osservare anche se facciamo passare la luce di una lampada ad incandescenza attraverso un prisma: dopo l'attraversamento del prisma la luce bianca, che proviene da un'unica direzione, uscirà in direzioni diverse e con colori diversi. Un modo per capire cosa succede è di pensare che la nostra lampada in realtà emette una luce che è una mescolanza di radiazioni di vari colori. Nel suo passaggio attraverso il prisma le differenze tra vari colori si evidenziano perché la radiazione entrando nel prisma viene rifratta (come fosse "piegata") ad angoli diversi a seconda della lunghezza d'onda, ovvero a seconda del colore. All'uscita dal prisma si noterà che la radiazione blu viene "piegata" più della rossa in modo che i vari colori emergano ad angoli diversi formando così una specie di arcobaleno.
Notiamo ora che abbiamo introdotto il termine "lunghezza d'onda" in associazione al "colore della luce" e quindi abbiamo implicitamente adottato l'idea che la nostra percezione del colore sia legata alla lunghezza d'onda della radiazione o, meglio, alla combinazione di radiazioni di diversa lunghezza d'onda che mescolandosi compongono la luce emessa da una sorgente luminosa. Siamo più pronti ora ad usare l’espressione "spettro della luce" per indicare la sequenza di intensità e di lunghezze d'onda (e quindi di colori) emesse da una data sorgente luminosa, tenendo presente che le lunghezze d'onda delle radiazioni che producono un colore blu sono tipicamente più piccole di quelle che invece producono il rosso.
1.2 I colori delle stelle
Oltre che a scaldare e fornire energia, quale altra informazione porta con sè la luce del Sole? Per rispondere a questa domanda ci può guidare una analogia con un pezzo di ferro scaldato dal fabbro: osserviamo che all'aumentare della temperatura il colore del metallo ci appare prima nero, poi rosso, giallo ed infine, alla temperatura più alta diventa bianco. In casi come questo allora il fabbro può usare il colore come un termometro per valutare la temperatura del metallo, cosa che effettivamente fa.
Questa esperienza la possiamo ripetere in casa osservando come cambia il colore del filamento di una lampada a luminosità variabile. Ci rendiamo conto facilmente che la luce è minima quando il filamento è più freddo e rosso, mentre aumenta man mano che il filamento si riscalda e tende al colore bianco.
Date queste osservazioni possiamo fare due
considerazioni:
1) un corpo caldo emette più radiazione quando è caldo rispetto a
quando è freddo;
2) un corpo caldo appare più bianco di uno freddo, che invece tende
più al rosso.
Siccome le stelle sono corpi caldi che emettono luce con modalità analoghe a quelle del filamento della nostra lampada, useremo le considerazioni fatte poc'anzi per dire che il colore delle stelle può essere usato come indicatore della temperatura di superficie, cioè della regione da cui proviene la luce stellare.
Fig.2 Spettri di emissione del corpo nero a diverse temperature. Si nota come al crescere di T il massimo di emissione si sposta verso le lunghezze d'onda inferiori, ossia verso il blu, come previsto dalla Legge di Wien
1.3 - Come valutare la temperatura misurando il colore
Purtroppo i nostri occhi sono capaci di distinguere bene i colori solo di giorno, mentre di notte la loro sensibilità cromatica cala fortemente rendendo le nostre osservazioni di scarsa affidabilità per quanto riguarda la valutazione del colore delle stelle. Se proviamo ad osservare un cielo limpido e abituando l'occhio all'oscurità è possibile comunque accorgersi della diversa colorazione delle stelle: la maggior parte ci apparirà bianca (nell'oscurità il nostro occhio preferisce aumentare la sensibilità a scapito della percezione dei colori: per questo si dice che di notte vediamo essenzialmente in bianco/nero), ma se consideriamo le più brillanti in modo che l'occhio sia ben stimolato potremo notare che alcune appaiono più blu e altre più rossicce della media. Questa constatazione si può estendere anche alle stelle più deboli con l'aiuto di un piccolo telescopio che ci permette di raccogliere luce sufficiente per una valutazione "ad occhio" del colore.
Fig.3 Tracce stellari nella regione di cielo compresa tra la costellazione del Toro e quella del Perseo. Le tenui sfumature di colore sono impercettibili all'occhio umano ma sono facilmente catturate dai moderni sensori digitali. Gli archi di cerchio corrispondono al percorso apparente delle stelle nel cielo dovuto alla rotazione della terra. La direzione del polo nord è individuata dal centro (fuori campo) comune a tutti i cerchi.
Dalle precedenti osservazioni potremmo già dire che le stelle blu hanno superfici più calde delle stelle rosse, ma per passare all'effettiva valutazione della temperatura delle superfici bisogna fare ancora un passo in più. Per questo abbiamo bisogno di riprendere il concetto di "spettro della radiazione" che abbiamo introdotto a proposito della luce dell'arcobaleno e che misura l'andamento della intensità dell'emissione (la brillanza) al cambiare della lunghezza d'onda (il colore).
Nella fig.4 sono rappresentati gli spettri emessi da una sorgente a due temperature diverse e si nota che, se misuriamo le intensità a due diverse lunghezze d'onda troviamo che le cose cambiano al cambiare della temperatura dello spettro. In altre parole il rapporto delle intensità della luce a due diverse lunghezze d'onda cambia al cambiare della temperatura e quindi è una quantità che può essere usata per ricavare la temperatura quando non possiamo usare un termometro a contatto con la nostra sorgente luminosa ma ne possiamo solo osservare lo spettro. Il gioco è fatto: basandoci sull’esperienza acquisita studiando il comportamento della luce nei nostri laboratori abbiamo individuato un metodo applicabile alla luce in generale, e quindi anche alla luce proveniente dalle stelle. Possiamo quindi dire di poter valutare le temperature delle superfici stellari misurando la brillanza di una stella a due diverse lunghezze d'onda della luce, evitando in questo modo di fare un viaggio fino alla stella per mettere un termometro a contatto con la sua superficie! Le temperature valutate con il metodo appena descritto vengono indicate spesso con il nome di "temperature di colore".
Fig.4 Grafico esplicativo del concetto di Temperatura di colore. Per chiarire le differenze con la Fig.2 precedente si noti che, per evidenziare meglio il comportamento dello spettro al variare della temperatura, abbiamo usato scale logaritmiche. Inoltre le lunghezze d'onda sono state espresse come frequenze usando la relazione: lambda x frequenza = velocità della luce.
1.4 - Lo spettro delle stelle
Abbiamo fin qui visto come possono essere valutate
le temperature stellari usando l'analogia con le lampade a filamento
delle nostre case. Tuttavia potremmo anche domandarci quanto questa
analogia sia effettivamente applicabile al nostro caso e quali siano
gli eventuali limiti alla sua applicabilità. La risposta è
tecnicamente complicata, ma si può condensare in due affermazioni
apparentemente contrapposte, ma invece tutte e due valide:
a) per valutare la brillanza delle stelle nei vari colori abbiamo
disperso la luce e abbiamo osservato come questa mostri
caratteristiche globali molto simili a quelle della luce emessa da
lampade a filamento.
b) se però abbiamo uno strumento (spettrografo) che ci permette di
aumentare la dispersione della luce notiamo che, mentre la luce
della lampada apparirà sempre come uno spettro continuo, quella
stellare mostra invece uno spettro più complicato, solcato da
molteplici "linee" di assorbimento, (vedi fig.5), che inoltre
appaiono diverse per stelle diverse.
Rimane
comunque valido il nostro modo di valutare le temperature di colore,
perché usando il "colore" abbiamo scelto una caratteristica non
molto influenzata dalla presenza di linee di assorbimento. Una
misura di colore vede infatti coinvolte "bande di lunghezze d'onda"
in cui la presenza di qualche linea di assorbimento cambia poco il
risultato finale che è comunque dominato dalla parte continua dello
spettro. Comunque il problema effettivamente c'è, ma può essere
risolto applicando correzioni appropriate ai valori ottenuti
applicando "ciecamente" il metodo sopra descritto.
Fig.5 Ripresa della regione di cielo centrata su Gamma Cygni, il cui spettro è contrassegnato da un gran numero di righe di assorbimento dei metalli, alcuni dei quali identificati e contrassegnati, oltre che dalla banda molecolare del CH
Questa "scoperta" delle linee di assorbimento che si stagliano sullo sfondo di uno spettro continuo apre comunque la strada ad una ulteriore analisi della luce stellare. In quella luce sono evidentemente codificate altre informazioni, oltre a quelle sulla temperatura di colore, ed è questo di cui ora ci occuperemo.
Prima di procedere però è necessario rendersi conto di come funziona il mondo microscopico nel quale atomi e molecole sono importanti sorgenti di radiazione.
1.4.1 - Linee spettrali
La "meccanica quantistica" (anche "meccanica atomica"), sviluppatasi a partire dal 1900 quando Planck introduce l'idea che l'energia possa essere quantizzata, è oggi la migliore teoria che abbiamo per capire i fenomeni che si svolgono alla scala degli atomi. Questa teoria fornisce la chiave di lettura per tutti gli spettri: sia di origine stellare che terrestre; sia continui che solcati da linee. In particolare possiamo dire che uno spettro continuo viene emesso da una sorgente i cui costituenti possono variare la loro energia in modo continuo, mentre uno spettro a linee suggerisce che la sorgente contiene costituenti che possono variare la loro energia in modo discreto (quantizzato). Nel primo tipo di sorgenti annoveriamo il filamento della nostra lampada così come il più esotico "plasma" che è un gas completamente ionizzato costituito da elettroni e ioni liberi di muoversi e che possono emettere radiazione variando la loro velocità relativa in modo continuo. Nel secondo tipo di sorgente invece gli emettitori di radiazione sono sistemi atomici (o anche molecolari) in cui le cariche positive e negative non sono libere ma legate dalla forza elettrica (anche detta forza Coulombiana) e possono emettere luce solo variando la loro energia in salti prestabiliti dalla loro struttura interna. Se quindi per un atomo di idrogeno sono possibili salti di energia diversi da quelli consentiti ad un atomo di carbonio allora la radiazione dell'uno sarà emessa con energie diverse da quella dell'altro e quindi possiamo sfruttare questa caratteristica per indagare se una data radiazione, di cui possiamo conoscere lo spettro, sia stata prodotta dall'idrogeno, dal carbonio, o da qualunque altro elemento!
1.4.2 - Temperatura e linee di assorbimento
Usando i concetti della meccanica quantistica per interpretare gli spettri delle stelle e notando che questi spettri sono ricchi di linee di assorbimento, possiamo immaginare un preciso modello capace di giustificare la presenza di uno spettro continuo su cui si stagliano diverse linee di assorbimento. Non abbiamo bisogno di fantasticare troppo perché il suggerimento viene dall'osservazione (facilitata durante le eclissi) della struttura superficiale del Sole: vediamo una regione, detta fotosfera, al di sopra della quale si estende una atmosfera in cui il gas si rarefà e si raffredda con l'altezza. In queste condizioni la radiazione, originariamente emessa dalla fotosfera con un caratteristico spettro continuo (perché prodotto da gas completamente ionizzato, cioè un "plasma", vedi paragrafo 1.4.1), si propaga verso l'esterno attraversando l'atmosfera della stella. Siccome nell'atmosfera la temperatura diminuisce con l'altezza, è favorita la presenza di atomi che sono in grado di assorbire radiazione ma, come abbiamo visto, solo a particolari lunghezze d'onda tipiche dello specifico atomo. Il risultato finale è proprio uno spettro continuo solcato da linee di assorbimento, cosa che poi effettivamente si osserva in tutte le stelle normali!
Fig.6 Porzione di spettro solare centrato sul Tripletto del Magnesio affiancato da righe del Ferro, del Calcio, del Cromo, del Titanio, etc. Risoluzione di 0.39 A/pixel
È interessante notare come queste linee di assorbimento abbiano per noi una duplice valenza: oltre a segnalare la presenza di vari atomi e quindi informarci sulla composizione chimica dei gas stellari, permettono anche di verificare la bontà delle nostre precedenti valutazioni sulla temperatura superficiale delle stelle (vedi paragrafo 1.3). Per fare questo controllo è necessario misurare accuratamente l'intensità delle linee di assorbimento di uno stesso atomo, in modo da poter ricavare un rapporto tra intensità di linee corrispondenti a salti energetici diversi. Anche in questo caso la meccanica atomica è essenziale perché ci fornisce una relazione tra l'intensità relativa di due linee di assorbimento e la temperatura del gas che le produce.
È confortante a questo punto sapere che questo test conferma che la determinazione della "temperature di colore" per le superfici stellari è una ottima approssimazione alla temperatura del gas che produce le linee in assorbimento osservate negli spettri.
1.5 - La classificazione spettrale delle stelle
Dotarsi di un sistema di classificazione che permetta di considerare differenze e similitudini nei fenomeni osservati è il primo passo necessario per ogni scienza che ambisca ad indagare il mondo fisico. Classificare significa anche introdurre dei parametri di classificazione, la cui successiva interpretazione in senso fisico potrà poi svelarci la natura dei fenomeni osservati. Il primo ad accorgersi che gli spettri delle stelle sono solcati da zone di assorbimento fu A. Secchi il quale nel 1866 classificò circa 300 stelle in cinque diverse tipologie distinte in base all'importanza delle linee di assorbimento osservate nello spettro.
Ai nostri giorni le capacità osservative sono enormemente aumentate e quindi siamo in grado di distinguere gli spettri stellari in un numero molto maggiore di tipologie. Il criterio su cui si basa la moderna classificazione è comunque legato alla presenza ed intensità delle linee di assorbimento negli spettri che, per effetto della loro dipendenza dalla temperatura del gas, ai nostri occhi svolgono il ruolo di "termometro" della superficie stellare. In questo senso classificare uno spettro stellare è equivalente a determinare la temperatura superficiale della stella considerata. La classificazione è tale da associare le temperature maggiori alle stelle con meno linee di assorbimento e quelle minori a stelle con la massima presenza di assorbimenti. Intuitivamente questo si può inquadrare nell'idea che quando le temperature sono più alte il gas tende ad essere ionizzato (gli elettroni si "staccano" dagli atomi) e quindi a formare un "plasma" nel quale, come abbiamo visto prima (vedi paragrafo 1.4.1), i salti di energia non sono quantizzati. Questo sfavorisce la formazione di linee di assorbimento che infatti sono più presenti negli spettri delle stelle con minore temperatura superficiale.
Fig.7 Confronto tra gli spettri delle due stelle principali della costellazione dell'Auriga. Pur non avendo temperature enormemente diverse tra loro è evidente che Alpha Aurigae è molto più ricca di righe metalliche. Notare anche il diverso andamento del continuo, in accordo con la legge di Wien, e le spesse righe dell'idrogeno tipiche del gruppo spettrale A. Sull'asse x ed y sono riportate rispettivamente la lunghezza d'onda in Angstrom e l'intensità in unità arbitrarie.
Lo schema generale della classificazione odierna usa prima una lettera maiuscola per indicare grossolanamente l'intervallo di temperatura, all'interno del quale un numero tra 0 e 9 viene usato per precisarla meglio. In questo schema il Sole è classificato come "G2" il che lo fa corrispondere ad una temperatura di ~5800 gradi Kelvin (corrispondenti a ~5500 gradi centigradi). Sfruttando queste caratteristiche gli spettri sono suddivisi in sette classi spettrali che, per convenzione, sono indicate con le lettere O, B, A, F, G, K, M le cui caratteristiche sono riassunte nella tabella seguente.
Type |
Color |
Approximate Surface Temperature |
Main Characteristics |
Examples |
O |
Blue |
> 25,000 K |
Singly ionized helium lines either in
emission or absorption. Strong ultraviolet continuum. |
10 Lacertae |
B |
Blue |
11,000 - 25,000 |
Neutral helium lines in absorption. |
Rigel |
A |
Blue |
7,500 - 11,000 |
Hydrogen lines at maximum strength for
A0 stars, decreasing thereafter. |
Sirius |
F |
Blue to White |
6,000 - 7,500 |
Metallic lines become noticeable. |
Canopus |
G |
White to Yellow |
5,000 - 6,000 |
Solar-type spectra. Absorption lines
of neutral metallic atoms and ions (e.g. once-ionized
calcium) grow in strength. |
Sun |
K |
Orange to Red |
3,500 - 5,000 |
Metallic lines dominate. Weak blue
continuum. |
Arcturus |
M |
Red |
< 3,500 |
Molecular bands of titanium oxide
noticeable. |
Betelgeuse |
Fig.8 Spettri a bassa risoluzione di alcune stelle della costellazione del Leone appartenenti ai diversi tipi spettrali, con l'aggiunta di Vega e di Alpha Herculis. La sequenza è stata ottenuta in fase di testing (sono visibili leggeri sfasamenti nelle posizioni delle righe e una loro diversa definizione a causa di un campionamento differente, da 8 a 14 A/pixel). Per orientarsi, partendo dalla prima riga nel rosso e procedendo verso sinistra ci sono le righe di Balmer dell'idrogeno (le altre nel rosso sono O2 e H2O telluriche).Da epsilon Leo cominciano a comparire il doppietto del sodio (nel giallo) e il tripletto del Magnesio (nel verde). Lambda Leo è piena di righe dei metalli, mentre Alpha Her è dominata interamente dalle bande dell'Ossido di Titanio.
1.5.1 - Classe di Luminosità e conclusione
A completamento di questa discussione dobbiamo aggiungere che le linee spettrali portano un'ulteriore informazione sul gas che le produce. Le linee hanno infatti due caratteristiche: oltre all'intensità, che abbiamo appena utilizzato per dedurre la temperatura, mostrano anche una larghezza che cambia per diversi tipi di stelle (vedi fig. 8). Siccome la larghezza di una linea spettrale dipende anche dalla pressione del gas che la produce, si usa questa caratteristica per ricavare la dimensione della stella. Il criterio si basa sul fatto che una stella compatta, detta "nana" (ed il Sole è una di queste), avrà in superficie un gas più denso rispetto a quello che ci aspettiamo in stelle più dilatate, queste ultime dette "giganti". A questo proposito sappiamo dal laboratorio che un gas compresso produce linee spettrali più larghe di uno rarefatto, cosa che è anche prevista dalla meccanica atomica. Ci sentiamo quindi autorizzati a usare questa caratteristica delle linee per distinguere le stelle con gas compresso (e quindi "nane"), classificate col numero romano "V", da quelle con superfici più rarefatte (e quindi "giganti") che vengono classificate "III".
Questo tipo di ulteriore classificazione viene anche detto classificazione di luminosità in quanto una stella "nana", a causa della minore superficie, è tipicamente meno luminosa di una stella "gigante" o "supergigante", quest'ultima indicata dal numero romano "I".
Fig.9 Prima luce dello spettrografo didattico LISA (Long slit Intermediate resolution Spectrograph for Astronomy), uno strumento ottimizzato per l'osservazione spettrale di oggetti deboli. Pur essendo stati acquisiti in una serata particolarmente nebbiosa (magnitudine limite 2 allo zenit), gli spettri sono ricchi di dettagli, a testimonianza della buona qualità dello strumento se accoppiato con telescopi di elevato livello qualitativo. Oltre alla serie di righe dell'idrogeno sono ben visibili anche molte righe metalliche. Interessante anche l'effetto di luminosità che si traduce in un diverso spessore delle righe, sottili nelle rarefatte atmosfere delle supergiganti, più spesse nelle nane.
In conclusione abbiamo visto come, avendo imparato a leggere lo spettro della luce, abbiamo indagato quei punti luminosi nel cielo ottenendo molte informazioni sulla natura di quelle sorgenti di luce che oggi sappiamo essere del tutto simili al nostro Sole.
Osservando il cielo stellato in una notte limpida, quasi istintivamente siamo portati a collegare tra loro, con segmenti immaginari, le stelle più luminose. Probabilmente senza rendersene conto, stiamo emulando gli antichi astronomi che, così facendo, hanno creato le Costellazioni, figure altamente stilizzate, in cui la loro fantasia riconosceva animali, eroi e personaggi mitologici (a fianco la figura di Pegaso, il cavallo alato in una rappresentazione del planetario software The Sky).
Un esempio è la celebre costellazione di Orione, forse la più bella del cielo boreale, riprodotta nell'immagine in basso. Le sue stelle, con un po' di fantasia, tracciano le linee essenziali della figura del mitico cacciatore, compresa la cintura e la spada, che ospita la straordinaria nebulosa M42.
Secondo gli studiosi di Archeoastronomia, l’origine delle costellazioni è databile attorno al 2600 a.c. presso la civiltà minoica. Nei secoli queste conoscenze giunsero in Egitto e in Asia Minore ma già Eudosso nel 380 a.c. nel suo globo astronomico, andato perduto, aveva rappresentato le costellazioni e l’eclittica in maniera sostanzialmente analoga a quella attuale.
Ne abbiamo la prova nella descrizione del cielo fatta dal poeta Arato da Soli attorno al 280 a.c. nel suo “Fenomeni e Pronostici”. A questa opera si rifarà Ipparco di Nicea, per compilare il suo “Catalogo” in cui erano descritte 49 costellazioni e 1080 stelle.
L’Almagesto di Tolomeo, pietra miliare dell’Astronomia fino ai tempi di Galileo Galilei, era basato a sua volta sul testo di Ipparco. Il più antico planetario conosciuto è l'Atlante Farnese, basato in gran parte sul globo di Eudosso. Sono rappresentate, scolpite nel marmo, 42 costellazioni. Questo evidente filo rosso che lega nei secoli la descrizione del cielo è tuttavia fondato su una semplice illusione prospettica.
Con l’eccezione di un gruppo di stelle dell’Orsa Maggiore, le altre costellazioni perdono di significato se si dispongono in uno spazio tridimensionale. Le diverse stelle che si trovano entro i confini di una costellazione, sono distribuite casualmente, a distanza molto variabili e spesso sembrano luminose solo perché relativamente vicine; viceversa se potessimo portarle tutte alla medesima distanza, il cielo assumerebbe ben altro aspetto.
Nonostante questa incongruenza l’utilizzo delle costellazioni semplifica molto il lavoro degli studiosi tanto che i confini odierni sono stati definiti con cura dall’Unione Astronomica Internazionale.
L’aspetto del cielo cambia durante la notte e nell’arco dell’anno. Questa variazione è dovuta alla azione combinata del moto di rotazione e di quello di rivoluzione della Terra. Osservando il cielo in direzione Sud, per alcune ore, si nota che le stelle apparentemente si spostano e mentre alcune tramontano in direzione Ovest, altre sorgono in direzione Est. In più, ripetendo le osservazioni in notti successive, ci si accorge che la medesima stella passa un po’ prima al meridiano (arco di cerchio massimo che congiunge il Nord con il Sud), in ragione di due ore al mese. Questo significa, per esempio, che l’aspetto del cielo alle ore 24:00 del 15 del mese di Gennaio è lo stesso di quello delle ore 22:00 del 15 del mese di Febbraio, ossia delle ore 20:00 del 15 di Marzo.
Alla luce di questo fatto è possibile dividere le costellazioni in: primaverili, estive, autunnali ed invernali riferendosi a quelle visibili in direzione Sud in una particolare stagione. L’inclinazione sul piano dell’eclittica dell’asse di rotazione terrestre aggiunge un’altra sorpresa al ciclo delle costellazioni; tutte le costellazioni vicine al polo nord celeste, per gli osservatori dell’Emisfero Boreale, non tramontano mai e sono visibili, seppure a diversa altezza sull’orizzonte, durante tutto l’anno. Sono le cosiddette costellazioni circumpolari.
Alla latitudine media dell’Italia le costellazioni circumpolari sono: Orsa Minore, Orsa Maggiore, Cassiopea, Cefeo, Dragone, Giraffa.
Le costellazioni primaverili: Bootes, Bilancia, Cani da Caccia, Chioma di Berenice, Corona Boreale, Coppa, Corvo, Idra, Leone, Leone Minore, Sestante, Vergine.
Le costellazioni estive: Aquila, Cavallino, Capricorno, Cigno, Delfino, Ercole, Lira, Freccia, Ofiuco, Sagittario, Scorpione, Scudo, Serpente, Volpetta.
Le costellazioni autunnali: Acquario, Andromeda, Ariete, Balena, Lucertola, Pegaso, Perseo, Pesci, Triangolo.
Le costellazioni invernali: Auriga, Cancro, Cane Maggiore, Cane Minore, Eridano, Gemelli, Lepre, Lince, Orione, Poppa, Toro, Unicorno.
Se volessimo condensare in poche parole le
differenze tra Fisica e Astronomia probabilmente diremmo che l'una
procede per esperimenti, l'altra per osservazioni. Sebbene le cose
siano in realtà un po’ più articolate visto lo scambio di
informazione che si svolge nei due sensi, l'affermazione precedente
ha il pregio di "catturare" l'essenza di due approcci che, sebbene
diversi, sono comunque parenti. In un laboratorio di Fisica possiamo
approntare esperimenti per esplorare il comportamento della Natura
intervenendo in modo opportuno sull'ambiente in cui l'esperimento si
svolge. Ad esempio, modificando le condizioni in cui eseguiamo un
esperimento (p.es. densità, temperatura, carica, velocità, ...)
possiamo osservare e registrare le diverse risposte del sistema alle
sollecitazioni esterne così come possiamo verificare la loro
coerenza (nel senso della riproducibilità). Una volta acquisiti i
risultati sperimentali questi potranno poi essere opportunamente
sistematizzati in modo da permettere una loro interpretazione alla
luce di un modello teorico. A differenza del Fisico, l'Astronomo non
può 'toccare” gli oggetti del suo interesse, con l’eccezione della
Terra e del nostro sistema planetario che l'uomo ha cominciato ad
esplorare 'in situ” solo da pochi decenni. Da questa condizione
nasce la necessità per l'astronomo di saper valutare le distanze,
giacché molte tra le informazioni più rilevanti che possiamo
raccogliere dall'osservazione del cielo (p.es: la quantità di luce,
l'estensione angolare degli oggetti sulla sfera celeste, ...)
dipendono non solo dalla natura intrinseca degli oggetti osservati,
ma anche dalla loro distanza. Ci accingiamo quindi ad interpretare
le osservazioni dei fenomeni celesti sapendo che possiamo certamente
catturare, più o meno efficientemente, i segnali emessi dalle
sorgenti celesti, ma anche consapevoli che il "valore nominale" di
questi segnali è stato modificato per effetto delle distanze in
gioco. Diventa quindi evidente come la corretta valutazione delle
distanze diventa una pietra angolare sui cui costruire
un'interpretazione Fisica dei segnali celesti. Prima di discutere
dei vari metodi finora escogitati per valutare le distanze
astronomiche, vale la pena avvertire il lettore che ognuno di essi
sarà appropriato solo entro un certo intervallo di distanze, allo
sesso modo in cui un metro va bene per misurare le dimensioni di
porte e case ma non per misurare l'altezza dal suolo di un aereo che
invece può essere valutata utilizzando tecniche radar. Prima di
fidarsi però sarà opportuno calibrare la risposta del radar,
misurando con lo stesso strumento distanze già note per altra via.
Prima di fidarci del nuovo metodo quindi punteremo il radar in
direzione di oggetti posti a distanze già misurate con il metro e,
alla fine delle misure, verificheremo se la risposta del radar sia
compatibile con le distanze già note! In questo modo facciamo una
"calibrazione" del nuovo strumento (il radar) che ci permette poi di
spingere le nostre misure a distanze maggiori, cosa che
effettivamente si fa nella misura delle distanze dei satelliti
artificiali, della Luna e dei pianeti più vicini. Questo punto è
cruciale: ogni volta che ci avventuriamo in un nuovo metodo per
estendere la nostra capacità di misurare le distanze, dovremo sempre
usare oggetti a distanza già nota per calibrare il nuovo metodo,
rendendolo così coerente con gli altri metodi. In questo modo
possiamo quindi costruire la cosiddetta "scala delle distanze
cosmiche" che ora andiamo ad illustrare attraverso l'esposizione dei
metodi principali utilizzati in Astronomia.
Dalla Terra al Sole (in
compagnia degli antichi Filosofi della Natura)
Il punto di partenza del nostro viaggio è la
misura della distanza Terra-Sole che è detta Unità Astronomica (in
simbolo AU, da Astronomical Unit), è pari a circa 150 milioni di Km
ed è una delle unità di misura più utilizzate in Astronomia. Qui non
ci soffermeremo a discutere tutti i modi in cui sia possibile
valutarla, ma diciamo solo che il suo valore viene determinato oggi
con notevole precisione ed è pari a 149.5978707 10^6 km. Questo
valore corrisponde alla distanza media tra il punto più vicino
(detto perielio, a 0.98 AU, che si raggiunge intorno al 4 gennaio) e
quello più lontano (afelio, a
Il primo ad occuparsi di queste faccende fu
Aristarco di Samo (circa 310-
In condizioni di mezzaluna Aristarco
riusciva inoltre a misurare l'angolo nel cielo tra Luna e Sole,
valutandolo in circa 87 gradi. Pur non avendo ancora a disposizione
la trigonometria egli riuscì comunque ad utilizzare la stima di
questi due angoli per argomentare che il Sole dovesse trovarsi ad
una distanza compresa tra 18 e 20 volte la distanza Terra-Luna. Oggi
sappiamo che la misura dell'angolo di 87 gradi era in realtà
sottostimata di circa 2.85 gradi e che quindi la distanza del Sole è
in effetti circa 400 volte la distanza Terra-Luna. Nonostante
l'errore di misura tuttavia è evidente che Aristarco sapesse già che
il Sole dista da noi molto più della Luna.
Distanza della Luna
Lo stesso Aristarco escogitò un metodo per
stimare la distanza della Luna utilizzando l'osservazione delle
eclissi di Luna. La sua tecnica si basava sulla registrazione dei
tempi di entrata ed uscita della Luna dalla zona d'ombra prodotta
dalla Terra e sull'ipotesi che l'ombra proiettata dalla Terra fosse
simile ad un cilindro di diametro uguale al diametro della Terra.
In questo modo Aristarco poteva fare questa
proporzione: la durata dell'eclisse sta al periodo di rivoluzione
della Luna (circa 27 giorni, valore ben noto fin dall'antichità)
come il diametro del cono d'ombra sta alla lunghezza dell'intera
orbita della Luna. Determinata la durata delle eclissi in circa 3
ore ed esprimendo l'orbita della Luna come una circonferenza (2pR),
Aristarco ricavava che la distanza della Luna era pari a circa 30
volte il diametro del cono d'ombra, e quindi a circa 60 volte il
raggio della Terra. Un risultato incredibilmente accurato anche per
gli standard attuali. È interessante anche notare che in questo
ragionamento Aristarco era portato a pensare che la Terra fosse
sferica dalla stessa osservazione dei contorni dell'ombra che la
Terra proietta sulla Luna durante le eclissi. I contorni dell'ombra
appaiono infatti come archi di circonferenza e sembra incredibile
come questa capacità di dedurre a partire da semplici osservazioni
sia andata in gran parte perduta nel medio evo.
Raggio della Terra
Le distanze di Luna e Sole sono finora state
valutate in termini relativi: la distanza del Sole in unità della
distanza della Luna che, a sua volta, è in unità del raggio della
Terra. È quindi necessario misurare il raggio della Terra per
tradurre le distanze in termini assoluti. Questo importante passo è
stato fatto da Eratostene (276-
La misura di quest'angolo era di circa 1/50 (un
cinquantesimo) dell'angolo giro cosa che, insieme alla conoscenza
della distanza tra Siene ed Alessandria, gli consentiva di calcolare
la circonferenza della Terra dalla proporzione: differenza di
altezza del Sole / angolo giro = distanza Siene-Alessandria /
circonferenza della Terra che risulta quindi pari a circa