Nel mirino degli asteroidi – Giulia Alemanno

Nello scenario apocalittico di Armageddon un asteroide sta per schiantarsi sulla Terra e l’intero globo deve cercare di correre ai ripari. Ci chiediamo: è veramente possibile un evento di questo tipo? Può il cielo cadere sulle nostre teste? E cosa sono questi asteroidi? Gli asteroidi sono corpi minori del Sistema Solare formatisi al momento della formazione dei pianeti. Si tratta di oggetti di ridotte dimensioni e bassa luminosità. Questo spiega perché non furono scoperti prima del 1801. Nell’antichità, in seguito alla scoperta dei primi pianeti, si osservò sperimentalmente che le loro distanze aumentano in maniera regolare man mano che ci si allontana dal Sole. Venne così elaborata una legge matematica a carattere empirico per spiegare questa osservazione, nota come legge di Titius-Bode. Considerando come unità di misura la distanza Terra-Sole, pari a un’unità astronomica UA, le distanze degli altri pianeti dal Sole possono essere determinate in maniera approssimativa attraverso la seguente relazione empirica:

I valori ottenuti sono riportati nella seguente tabella.

n

Distanza di Titius-Bode (UA)

Distanza osservata (UA)

Pianeta

0.4

0.39

Mercurio

0

0.7

0.72

Venere

1

1

1

Terra

2

1.6

1.52

Marte

3

2.8

?

?

4

5.2

5.2

Giove

5

10

9.54

Saturno

6

19.2

19.6

Urano

 

 La legge di Titius-Bode indicava la presenza di un corpo alla distanza di circa 2.8 UA. Nel 1801 Giuseppe Piazzi scoprì Cerere, il primo di tutta una lunga serie di asteroidi. La maggior parte di essi occupa la cosiddetta fascia principale, “Main Belt” situata tra Marte e Giove ad una distanza dal Sole compresa tra 2.2 e 3.3 UA. Essa contiene, secondo recenti analisi, un milione di oggetti il cui diametro è maggiore o uguale ad 1 km. All’interno della fascia principale gli asteroidi sono distribuiti in modo non omogeno e il loro moto è caotico a causa delle forti perturbazioni gravitazionali prodotte in primis da Giove e poi anche dagli altri pianeti del Sistema Solare. In particolare, il caos viene generato da fenomeni di risonanza. Si osservano delle regioni dette lacune di Kirkwood a valori del semiasse maggiore che non corrispondono al semiasse orbitale di alcun asteroide visibile. Queste lacune coincidono con orbite fortemente caotiche situate in corrispondenza di valori del semiasse maggiore orbitale che portano ad una ripetizione delle posizioni relative di Sole, Giove e dell’asteroide. Ad esempio, una lacuna di Kirkwood è situata in corrispondenza di orbite caratterizzate da un periodo di rivoluzione pari ad 1/3 di quello gioviano. Questa lacuna si trova ad una distanza di 2.5 UA e in essa un eventuale asteroide, ogni tre rivoluzioni, si troverebbe nella stessa posizione di Giove. Questo dà luogo ad una risonanza di moto medio che produce un aumento della forza di Giove. Il povero asteroide che si trova a passare da questa regione viene espulso e immesso in un orbita differente tipicamente caratterizzata da un periodo minore e quindi più vicina a noi. Esistono poi due gruppi di asteroidi che si muovono in sincronia con Giove, lungo la sua stessa orbita. Questi asteroidi sono chiamati Troiani, una parte di essi precede Giove mentre l’altra lo segue.

Ad una distanza minore dal Sole, pari circa a 1.9 UA vi è un gruppo di oggetti noti come “Hungaria” e ad una distanza maggiore vi sono poi gli oggetti di tipo “Hilda” e “Thule”. La caratteristica interessante è che questi ammassi si trovano in corrispondenza delle risonanze 2/3 e 3/4 che in questo caso non determinano l’espulsione degli asteroidi, quindi non corrispondono a lacune di Kirkwood. Il comportamento di una risonanza viene, infatti, determinato non solo dalla forza di attrazione gravitazionale di Giove ma anche da perturbazioni dovute agli altri pianeti del Sistema Solare e al Sole stesso. E’ stato dimostrato che quando le altre forze perturbative riducono l’energia meccanica dell’asteroide viene prodotta la lacuna. In caso contrario si ha una grande concentrazione di corpi nella regione della risonanza e le regioni vicine vengono svuotate. A complicare ulteriormente la situazione si aggiungono però altri tipi di risonanze come le risonanze secolari dovute al fatto che con il passare del tempo le orbite dei pianeti e degli asteroidi si modificano. Una risonanza secolare si verifica quando il perielio di Giove coincide con quello di un asteroide. Tutto ciò contribuisce a rendere ancora più imprevedibile il moto di un asteroide. Un’importante categoria è poi quella dei NEO, Near-Earth Objects, ovvero asteroidi che orbitano molto vicino alla nostra amata Terra. Questi ultimi sono raggruppati in 3 popolazioni note come “Aten”, “Apollo” e “Amor” che si differenziano in base a parametri orbitali.

Come possiamo notare in figura, gli Atens nel loro cammino attorno al Sole, incrociano l’orbita terrestre. Hanno un semiasse maggiore orbitale inferiore a 1 UA, quindi per la maggior parte del tempo si trovano all’interno dell’orbita terrestre. Gli asteroidi della popolazione Apollo, al contrario, trascorrono più tempo al di fuori dell’orbita terrestre ma quando si avvicinano al perielio incrociano anch’essi l’orbita terrestre per passare al suo interno. Gli Amor, invece, non intercettano mai l’orbita terrestre durante il loro cammino. Essi, infatti, al perielio vengono a trovarsi ad una distanza dal Sole compresa tra 1.017 e 1.3 UA, maggiore pertanto della distanza Terra-Sole, ma non per questo sono meno pericolosi. Tutti questi oggetti evolvono in maniera caotica quindi la loro differenziazione in gruppi può essere meno netta. In base ad analisi spettrali la popolazione asteroidale è stata suddivisa in differenti classi tassonomiche di cui ricordiamo le più numerose che sono le classi S, C, P, D ed M. Gli asteroidi appartenenti alla classe S rivelano la presenza di silicati e presentano un’albedo di gran lunga maggiore rispetto agli asteroidi di classe C.  inoltre, hanno semiassi maggiori con valori compresi tra 2 e 2.5 UA dal Sole, mentre gli asteroidi della classe C raggiungono una distanza massima di 3.1 UA. All’interno della fascia principale predominano i corpi di classe S. Si tratta di un gruppo variegato che comprende sia corpi che hanno attraversato una fase di fusione, sia corpi che non sono mai stati allo stato fuso. Gli asteroidi più vicini a Marte sono composti prevalentemente da materiali rocciosi mescolati con ferro, mentre quelli situati esternamente e quindi più prossimi a Giove sembrano tutti corpi primitivi con composizione abbastanza simile a quella della nebulosa primordiale dalla quale ha avuto origine l’intero Sistema Solare. Questi oggetti appartengono alle classi C, P e D.

Si ritiene che, quando la nebulosa di gas e polvere iniziò a condensare, i primi minuscoli grani si aggregarono dando origine ai planetesimi dai quali hanno avuto origine gli attuali pianeti. Ma nella regione situata tra Marte e Giove, le risonanze gravitazionali di Giove furono tali da impedire la formazione di planetesimi così i frammenti non inglobati in pianeti diedero origine agli asteroidi. Questi corpi, date le loro ridotte dimensioni, si raffreddarono molto rapidamente. Nei più grandi il tempo di raffreddamento fu tale da permettere comunque una differenziazione. Essi presentano un nucleo costituito da metalli più pesanti avvolto in uno strato superficiale di materiale roccioso e mostrano i segni di una passata attività vulcanica. Tra questi abbiamo gli asteroidi di tipo M che sembrano contenere grandi quantità di metalli, quali ferro e nichel. Esternamente gli asteroidi si presentano come corpi asimmetrici e di forma irregolare. Le irregolarità sono dovute alla loro ridotta massa. La forma di un oggetto è, infatti, determinata dall’azione di due forze: la forza gravitazionale che si esercita tra le varie parti di cui esso è composto e la forza di coesione dovuta alle interazioni elettromagnetiche tra le molecole del corpo. Mentre le forze gravitazionali plasmano il corpo, quelle di coesione determinano una geometria complessa e piena di deformazioni. Nei corpi di maggiore massa le forze gravitazionali predominano su quelle di coesione, questi oggetti tendono quindi ad avere una forma più regolare come si può osservare per i pianeti. Negli asteroidi invece, le forze gravitazionali non sono sufficienti a conferire al corpo forme più plasmate. Le superfici di questi oggetti mostrano poi diversi crateri d’impatto e si presentano come dei piccoli pianeti in miniatura.

Vediamo nel dettaglio alcuni di questi oggetti:

Cerere – come abbiamo già accennato all’inizio dell’articolo, Cerere è il primo asteroide ad essere stato scoperto ed è anche il più grande della fascia principale. Esso presenta un diametro pari a 950 km ed una massa pari al 32% di quella dell’intera fascia principale. Dal 2006 è classificato come pianeta nano. Cerere presenta un nucleo roccioso ed una superficie caratterizzata dalla presenza di materiali idrati e argille. Si ritiene che, in seguito alla sua formazione, questo piccolo pianeta abbia attraversato una fase di intensa attività vulcanica. Pallade – fu il secondo asteroide ad essere osservato. Anch’esso di notevoli dimensioni, presenta infatti, un diametro pari a 512 – 545 km. Pallade risulta costituito in prevalenza da silicati ed è invece povero di ferro.

Vesta – è uno tra i più grandi asteroidi e il più luminoso: presenta un diametro pari circa a 525 km ed ha una densità di 3.3  QUOTE . Nelle situazioni più favorevoli può raggiungere una magnitudine pari a 5.4. La sua struttura interna è differenziata: presenta un nucleo costituito da metalli più pesanti quali ferro e nichel, un mantello costituito da olivina (un minerale di colore verde) ed uno strato superficiale di roccia basaltica. Frequenti impatti frammentano la superficie di Vesta e diversi frammenti giungono fino a noi, cadendo sulle nostre teste. Esiste, infatti, una categoria di meteoriti che si pensa provengano da Vesta. Questi contengono notevoli quantità di olivina. Si ritiene che un tempo esistessero diversi corpi simili a Vesta ma questi sono stati frantumati in famiglie di asteroidi più piccoli a causa delle frequenti collisioni con altri corpi.

Gaspra – E’ un asteroide della Main Belt appartenente alla classe S ed è il primo asteroide in assoluto ad essere stato visitato da una sonda. La sonda Galileo osservò Gaspra mentre faceva rotta verso Giove. Gaspra ha una larghezza pari circa a 10 km e una lunghezza di 17 km, la sua superficie è popolata da moltissimi crateri d’impatto, più di 600, ma nessuno di essi si avvicina al valore del raggio dell’asteroide. La forma di Gaspra è molto irregolare, da ciò si può dedurre che probabilmente ha avuto origine da un corpo che ha subito molte collisioni.

P/2013 R3 – E’ il primo asteroide che è stato visto ridursi letteralmente in pezzi. La notizia è recente: l’asteroide è stato osservato il 15 settembre 2013 dai telescopi Catalina e PAN-STARRS ai quali appariva come un oggetto sfocato dall’aspetto anomalo. Successive osservazioni del Keck Telescope nelle Hawaii hanno permesso di distinguere tre oggetti in movimento. Immagini più dettagliate ottenute grazie all’Hubble Space Telecope hanno rivelato la presenza di non 3, ma ben 10 oggetti distinti ognuno con una coda di polveri simile a quella di una cometa. Gli oggetti più grandi hanno un diametro di 200 m.

I dati raccolti mostrano  inoltre, che i pezzi si allontanano gli uni rispetto agli altri a una velocità di  1.5km/h  e permettono di fare delle ipotesi sulla causa della frammentazione dell’asteroide. Il numero di frammenti continua ad aumentare e ciò porta ad escludere l’idea che l’asteroide si stia frammentando per effetto dello scontro con un altro asteroide. Se così fosse le velocità dei frammenti dovrebbero essere maggiori di quelle osservate. Si può escludere anche l’ipotesi della rottura a causa della pressione ed evaporazione dei ghiacci interni perché l’oggetto è troppo freddo per portare ad una evaporazione significativa dei ghiacci contenuti al suo interno. E’ stata così avanzata l’ipotesi della rottura a causa dell’effetto YORP. Asteroidi e altri piccoli corpi che popolano il nostro Sistema Solare risentono dell’effetto YORP (Yarkovsky–O’Keefe–Radzievskii–Paddack effect), che descrive la variazione della rotazione di questi oggetti a causa dell’interazione con la luce del Sole. Tale effetto si verifica quando la radiazione assorbita dall’oggetto, viene in un secondo momento riemessa dalla superficie dello stesso sotto forma di calore. Se un asteroide ha una forma molto irregolare il calore viene irradiato in modo non uniforme e questo produce un effetto torcente sul moto del corpo modificandone la sua velocità di rotazione. Si ritiene che questo effetto abbia provocato un aumento della velocità di rotazione di P/2013 R3 e conseguentemente anche della forza centrifuga che ha ridotto in pezzi l’asteroide. Probabilmente P/2013 R3 aveva una struttura interna frammentata a causa di numerose collisioni subite nel passato. Si pensa che molti asteroidi hanno una tale struttura, detta “rubble pile”, ovvero mucchio di macerie.

Itokawa – Si tratta di un piccolo asteroide che orbita attorno alla Terra. Esso appartiene, infatti, al gruppo Apollo. In un primo momento Itokawa è stato osservato nel dettaglio grazie alle immagini e ai dati della sonda giapponese Hayabusa che hanno rivelato la sua strana forma, simile a quella di un’arachide. Successivamente, un gruppo di ricercatori capitanati da Stephen Lowry, ha analizzato le immagini raccolte tra il 2001 e il 2013 dal New Technology Thelescope (NTT), in Cile, al fine di determinare la struttura interna di questo piccolo pianetino. Misurando la variazione di luminosità di Itokawa, si è potuta ottenere una misura molto accurata del suo periodo di rotazione e della sua variazione nel tempo. E’ stato osservato che l’effetto YORP sta provocando un aumento nella velocità di rotazione di Itokawa e quindi una diminuzione del suo periodo che varia di 0.045 secondi l’anno. Questa variazione si può spiegare solo se si assume che le due parti di cui è fatto l’asteroide abbiano densità diverse. Questa scoperta rappresenta un passo importante nello studio degli asteroidi: è la prima volta che si è riusciti a determinare in maggiore dettaglio la struttura interna di un asteroide e tutto ciò permette di comprendere meglio l’origine di questi corpi. E’ stata avanzata, ad esempio, l’ipotesi che Itokawa si sia formato dall’impatto tra due asteroidi differenti che si sono scontrati e fusi.

Soprattutto, gli studi sulla struttura interna degli asteroidi sono importanti perché ci permettono di capire come ridurre il pericolo che questi oggetti cadano sulle nostre teste. La Terra è stata colpita diverse volte da corpi rocciosi provenienti dallo spazio. In un primo momento l’idea di pietre che piovono dal cielo non era accettata dalla comunità scientifica (l’Accademia delle Scienze di Parigi ne negò l’esistenza fino al XVIII secolo). Fu il fisico francese Jean-Baptiste Biot a provarne l’esistenza nell’800, quando una pioggia di pietre sembrò abbattersi nel villaggio de L’Aigle. Biot esaminando le pietre rinvenute riuscì a dimostrane l’origine extraterrestre. Oggi possiamo classificare gli incontri tra la Terra e questi oggetti, in base alle conseguenze da essi generate, secondo quattro differenti categorie. E’ stato calcolato che ogni giorno cadono al suolo 300 tonnellate di rocce e polveri. Per nostra fortuna l’atmosfera che ci circonda funziona come uno scudo: ci protegge da tutti i bolidi che hanno una massa inferiore a 100000 tonnellate e un diametro minore di qualche decina di metri. Questi oggetti vengono disintegrati in tanti minuscoli pezzi grazie all’attrito dell’aria. Durante il loro tragitto in atmosfera questi piccoli pezzi si incendiano dando luogo alle meteore, fenomeno più comunemente noto con il nome di stelle cadenti. Grazie alla nostra atmosfera, quindi, la maggior parte di questi oggetti quando giungono al suolo hanno le dimensioni di un granello di sabbia. Si parla in questo caso di incontri del “primo tipo” che hanno caratteristiche differenti a seconda della costituzione dei corpi in caduta.

Se le meteore sono di origine cometaria e quindi costituite da neve sporca, si incendiano al di sopra dei 50 km di altezza dal suolo. Le meteoriti rocciose, invece, presentando una maggiore resistenza al fuoco, colpiscono il suolo e si presentano come dei frammenti di pietra carbonizzata, come i frammenti analizzati da Biot. Questi meteoriti di diametro inferiore a 10 metri nella maggior parte dei casi si disintegrano in atmosfera. A causare gli incontri del “secondo tipo”, sono invece gli asteroidi pietrosi o ferrosi con una dimensione compresa tra 10 e 100 metri. La pressione che si esercita su una meteorite pietrosa, in seguito al suo ingresso in atmosfera è così elevata da ridurla in frantumi. La meteorite esplode prima di toccare il suolo e l’esplosione produce un’onda d’urto in atmosfera così violenta che spazza via ogni cosa nel raggio di diversi chilometri. Un evento di questo tipo si verificò sopra il fiume di Tunguska in Siberia, dove il mattino del 30 Giugno 1908 precipitò una massa rocciosa di 100 tonnellate e di 50 metri di diametro. L’esplosione distrusse tutta la foresta nel raggio di 30 km e portò alla morte di branchi di renne. L’energia liberata superava 1000 volte la potenza della bomba di Hiroshima. La meteorite esplose in volo, quindi non furono ritrovati frammenti né crateri d’impatto. Le cortecce degli alberi della foresta devastata, contengono tante minuscole particelle di oro, rame e nichel che sono componenti tipiche di un meteorite. L’ipotesi più probabile è che si sia trattato di una meteorite rocciosa esplosa a circa 10 km di altezza dal suolo dopo essere penetrata in atmosfera. L’ipotesi della meteorite ferrosa è stata esclusa perché quest’ultima, presentando una maggiore resistenza, non si disintegra durante il viaggio in atmosfera ma giunge al suolo dando origine ad un grande cratere d’impatto. Sulla Terra sono presenti diversi crateri d’impatto, come il Meteor Crater in Arizona prodotta da una meteorite di diametro di 50 metri. Ad oggi sono noti 150 crateri d’impatto, probabilmente un tempo vi era una quantità di maggiore di crateri, ma questi potrebbero essere stati cancellati da eventi erosivi atmosferici o movimenti tettonici. E’ probabile  inoltre, che vi siano crateri ancora non osservati sul fondo degli oceani.

Bolidi celesti di diametro maggiore o uguale a 10 km danno luogo agli “incontri ravvicinati” del “terzo” o “quarto tipo”, i cui effetti non sono più localizzati in determinate regioni del globo ma interessano l’intero pianeta. Questi bolidi non avvertono neppure la presenza dell’atmosfera. Un oggetto di questo tipo si schianterebbe al suolo con una potenza di un miliardo di Megaton, cioè 1000 più potente di tutti gli esplosivi presenti sulla Terra messi insieme! Un impatto del genere produrrebbe un cratere di 10 km di diametro e la materia incandescente verrebbe scagliata così in alto da entrare in orbita attorno alla Terra e produrre piogge di fuoco su tutto il pianeta. Le polveri riempirebbero l’intera atmosfera rendendo il cielo grigio e impendendo alla luce del Sole di arrivare al suolo, dando luogo così a un periodo gelido e invernale. La Terra sarebbe poi travolta da piogge acide, sostanze tossiche verrebbero liberate in atmosfera. Si ritiene che l’estinzione dei dinosauri sia stata provocata da un evento di questo tipo. E’ stato ritrovato un cratere d’impatto, noto come cratere di Chicxulub nella penisola dello Yucatan, con centro localizzato nella città di Chicxulub. E’ stato recentemente datato, con estrema precisione, l’impatto che ha dato luogo a questo cratere misurando l’età dei minerali prodotti dall’impatto, in particolare quelli ritrovati sull’isola di Haiti. Confrontando il valore ottenuto con l’età dei sedimenti in cui sono stati ritrovati in maggiore quantità i resti fossili dei dinosauri si è osservato che i due valori coincidono. Si è ottenuto che i due eventi avvennero circa 66040000 milioni di anni fa. Un incontro del terzo tipo si è verificato,  inoltre,, su Giove nel 1994, quando la cometa Shoemaker-Levy 9 precipitò sul Gigante del Sistema Solare. Tutto il mondo ha potuto osservare in diretta l’evento. Prima di precipitare sulla superficie del pianeta la cometa si frantumò in tanti pezzi, che si schiantarono l’uno dopo l’altro. Giove riportò le ferite per lungo tempo.

Ma non bisogna allarmarsi e gridare alla fine del mondo ogni qual volta un asteroide vola sulle nostre teste. Analisi statistiche ci dicono che una collisione come quella di Tunguska si verifica in media ogni due o tre secoli ma poiché la Terra è costituita prevalentemente da oceani, è molto probabile che un tale evento si verifichi in mare piuttosto che sulla terra ferma. Comunque verrebbero prodotti effetti localizzati e si potrebbero affrontare. La probabilità che si verifichi un tale evento è una su 10000 mila nell’arco dell’intera vita di un uomo, cioè è 100 volte minore della probabilità di morire in un incidente d’auto ma maggiore della probabilità di essere vittima di un terremoto, di un’eruzione vulcanica o di un uragano. Il rischio di impatti di tale portata è quindi molto ridotto ma non improbabile. Ricordiamo alcuni eventi d’impatto verificatisi sulla Terra negli ultimi anni come il meteorite di Whitehorse che il 18 Gennaio del 2000 si abbatte’ nella capitale di Yukon, uno dei tre territori canadesi. Testimoni dicono di aver osservato una palla bluastra in cielo che cambiava colore durante la caduta trascinando dietro di sé diversi detriti. Nel 2007 in Perù, nel villaggio di Carancas, precipitò un meteorite che produsse un cratere di circa 13,8 metri di diametro e 3 metri di profondità, che presto si riempì d’acqua che bolliva spargendo gas nocivi nell’area circostante a causa dei quali molte persone si ammalarono. Infine ricordiamo tutti l’evento del 15 Febbraio dello scorso anno, in Russia. L’onda d’urto provocata dall’impatto meteorico danneggiò circa 3000 edifici della città di Chelyabinsk e ci furono 1200 feriti.

Come possiamo proteggere la Terra da questi corpi? Oggi disponiamo della tecnologia necessaria per evitare impatti con meteoriti molto grandi, quanto una montagna ad esempio. Questi possono essere, infatti, avvistati in tempo e quindi si potrebbe intervenire cercando di cambiare la traiettoria del bolide. Un modo potrebbe essere quello di inviare un razzo con del materiale esplosivo ma bisognerebbe far attenzione a non ridurre il meteorite in tanti pezzi. Più complesso è invece, cercare di evitare un impatto con comete. Quest’ultime provengono dagli estremi confini del Sistema Solare e diventano visibili solo in prossimità del Sole. Pertanto comete potenzialmente pericolose potrebbero essere avvistate solo un anno prima dell’impatto e bisognerebbe far deviar loro la traiettoria quando già sarebbero molto vicine alla Terra. Come se non fosse già abbastanza complicato, si aggiunge poi il carattere di imprevedibilità delle comete. Quest’ultime, infatti, non sono soggette non solo alla forza gravitazionale ma l’evaporazione degli elementi volatili che le costituiscono produce delle piccole deviazioni che rendono difficile il calcolo della loro orbita. Niente panico! Anche qui le statistiche ci confortano: le comete pericolose sono in quantità di gran lunga minore rispetto alle meteoriti.

Tuttavia ricordando il famoso detto “non tutto il male vien per nuocere”, si ritiene che acqua e materiali organici siano stati portati sulla Terra proprio da questi bolidi, che sarebbero pertanto i responsabili dello sviluppo della vita sul nostro pianeta. Sappiamo, infatti, che le comete sono composte in parte da neve sporca, quindi acqua e per la restante parte da silicati e materia organica.  inoltre, meteoriti pietrosi ritrovate sulla superficie del pianeta rivelano la presenza di diversi composti organici. Probabilmente queste sostanze organiche hanno avuto origine dalla profusione di molecole interstellari, come molecole di idrogeno, d’acqua, di metano o ammoniaca. Queste molecole reagendo con l’acqua contenuta all’interno delle molecole possono dare origine ad amminoacidi. E’ proprio il caso di dirlo: “siamo figli delle stelle”. Siamo polvere di stelle e, citando Thuan Trinh Xuan, astrofisico americano, “nelle vesti di autentici messaggeri dello spazio, le comete e gli asteroidi hanno raccolto questa polvere di stelle per dare la vita al nostro bel pianeta”.

E’ tempo di osservare Marte – Giulia Alemanno

Marte, il quarto pianeta a partire dal Sole, è dopo Venere il pianeta più vicino alla Terra. Anche noto come Pianeta Rosso per la sua caratteristica colorazione, Marte orbita alla distanza media di 1.524 u.a. dal Sole, con un periodo di rivoluzione di 1.88 anni terrestri e presenta un moto di rotazione attorno al suo asse della durata di 24h37m22.6s, molto vicino al valore terrestre di 23h56m04s. Un’ulteriore analogia tra Marte e Terra riguarda l’asse di rotazione dei due pianeti. Per il Pianeta Rosso tale asse presenta un’inclinazione sul piano orbitale di 25.19°, valore di poco superiore rispetto a quello terrestre pari a 23.45°. Ciò determina la presenza su Marte di un ciclo stagionale analogo a quello terrestre, anche se le stagioni marziane hanno una durata doppia rispetto alle nostre a causa del maggiore periodo orbitale rispetto a quello terrestre.  A differenza degli altri pianeti del Sistema Solare Marte ha quindi molte caratteristiche in comune con la Terra, motivo per il quale è stato sempre associato agli extra-terresti, in questo caso meglio noti come marziani.

Il mito dei marziani è nato in seguito alle osservazioni dell’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli che studiò Marte dall’osservatorio di Brera negli anni tra il 1877 e il 1881. Egli si accorse della presenza di una serie di linee scure sulla superficie del pianeta che chiamò “canali” interpretandoli come mari. In determinati periodi i “canali” sembravano sdoppiarsi e la superficie del pianeta pareva cambiare il suo colore.  inoltre, il termine canali utilizzato da Schiapparelli venne tradotto in inglese come “canals”, termine che indica opere artificiali e non “channels”, che invece denota strutture naturali. Queste due osservazioni alimentarono l’immaginazione dell’uomo portando alcuni astronomi a pensare che si trattasse appunto di canali artificiali creati da ipotetici abitanti del pianeta con lo scopo di irrigare i loro campi. Tutti iniziarono così a credere che Marte fosse realmente abitato. Nel frattempo Vincenzo Cerulli, un altro astronomo italiano, dal suo osservatorio privato di Teramo scoprì la vera origine dei “canali”. Cerulli si accorse che si trattava di semplici illusioni prodotte dalla mente dell’uomo proprio come accade quando guardando le nuvole scorgiamo in esse forme e figure particolari frutto della nostra immaginazione. D’altra parte se i canali visti da Schiaparelli fossero stati reali si sarebbero dovuti vedere meglio all’avvicinarsi del pianeta cosa che invece non accadeva. Grazie all’utilizzo di sonde orbitanti attorno al Pianeta Rosso le osservazioni di Cerulli furono confermate.

Mars Map 1890 Giovanni Schiaparelli

Marte non presenta canali artificiali ne’ ospita forme di vita evolute. Tuttavia l’interesse per il Pianeta Rosso continua, citando Schiaparelli “Vi è in Marte un mondo intiero di cose nuove da studiare, eminentemente proprie a destare la curiosità degli osservatori e dei filosofi, le quali daranno da lavorare a molti telescopi per molti anni.” Vediamo quali sono le caratteristiche di questo affascinante pianeta. Nonostante le analogie elencate, esistono anche diverse differenze tra Marte e il nostro pianeta. Il Pianeta Rosso risulta essere più piccolo e meno denso della Terra. La sua densità media di 3.93 g/cm^3 è inferiore al valore terrestre di 5.52g/cm3  e la sua massa pari a 6,4185 ×1023kg è un decimo di quella terrestre. Da tali valori scaturisce che Marte ha una percentuale di ferro inferiore a quella della Terra e quindi un nucleo più piccolo.  inoltre, a causa della sua piccola massa, l’accelerazione di gravità sul pianeta è di 3.71m/s2 e la velocità di fuga è pari a 5.03km/s. Il valore di questa velocità, non sufficientemente elevata per impedire ai gas atmosferici di abbandonare il pianeta, ci permette di spiegare la rarefazione dell’atmosfera marziana (Carbognani, 1999).

Marte non è perfettamente sferico: il suo appiattimento è maggiore di quello della Terra. La differenza di 20 km circa tra raggio polare e raggio equatoriale dipende principalmente dalla rotazione del pianeta.  inoltre, Marte non è dotato di campo magnetico globale di tipo dipolare come la Terra, ma sono stati osservati (principalmente nell’emisfero sud del pianeta) campi magnetici locali che per certi aspetti costituiscono l’analogo delle anomalie magnetiche terrestri. Tali campi, rilevati sulla superficie di Marte, si pensa siano il frutto di una magnetizzazione residua che risale al periodo di raffreddamento della crosta, quando il nucleo del pianeta era ancora in grado di generare un campo magnetico per effetto dinamo (Carbognani, 1999). Marte ruota attorno al Sole con un’eccentricità orbitale di 0.0934 che fa sì che la distanza Terra – Marte vari in modo significativo da un valore di d ~ 55 × 106 km, quando l’opposizione avviene al perielio, fino ad un valore di d ~ 92 × 106 km, quando l’opposizione avviene all’afelio (Bakouline et al., 1975). Gli astronomi chiamano questi eventi opposizione perché Marte e il Sole vengono a trovarsi su lati opposti del cielo. Essi rappresentano  inoltre, i momenti migliori per osservare il Pianeta Rosso che da puntino rosso man mano che si avvicina inizia a svelare i dettagli della sua superficie che risultano visibili anche da piccoli telescopi. Proprio in questi giorni Marte si è avvicinato sempre di più alla Terra, riducendo la sua distanza di 300 km ogni minuto fino a raggiungere la distanza minima di circa 92 × 106 km il 14 Aprile. E’ quindi il momento giusto per osservare Marte.

Figura 1 – Immagini del Pianeta Rosso nel mese di Marzo 2014. Si può notare l’aumento delle dimensioni del pianeta e dei dettagli visibili della sua superficie. All with the same equipment set-up. (LX200ACF 12 in. OTA, CGE mount, Flea3 Ccd, TeleVue 3x barlows, Astronomik RGB filter set.)  

Non sarà difficile trovare Marte in cielo in queste notti. Il Pianeta Rosso sarà nella costellazione della Vergine poco distante da Spica. Osservando il pianeta Rosso in questi giorni possiamo notare come esso sia estremamente variegato; l’osservazione al telescopio rileva la presenza sulla sua superficie di:

  • Calotte polari – macchie bianche che si formano attorno ai poli in autunno e scompaiono all’inizio dell’estate;

  • Continenti (anche detti Deserti) – sono delle distese omogenee di un caratteristico colore arancione chiaro che ricoprono i 2/3 della superficie marziana. Tali zone sono formate da un terreno relativamente liscio su cui si è depositata una spessa coltre di polvere. Al contrario delle calotte polari i continenti non sono soggetti a variazioni stagionali ma possono subire cambiamenti nel corso dei secoli;

  • Mari – regioni scure che presentano un colore ocra – marrone che si estendono per un 1/3 della superficie del pianeta e corrispondono ad aree piene di crateri dove il ricoprimento di polvere non è continuo. Ciò lascia intravedere il colore scuro della roccia sottostante. Anche i mari, così come le calotte polari, variano con il passare delle stagioni. Risulta infatti che il contrasto tra regioni chiare e scure sia minimo durante l’inverno. Tali variazioni sono legate allo spostamento delle polveri generato dall’azione meccanica dei venti. Si nota una sorprendente disparità tra l’emisfero settentrionale e quello meridionale. Quest’ultimo è a quota elevata, predominano infatti gli altopiani (highlands), ed è fortemente craterizzato (indizio di una superficie antica). L’emisfero settentrionale è invece costituito da bassipiani (lowlands) ed è caratterizzato da pianure che costituiscono la parte più giovane del pianeta. Le lowlands sono di origine vulcanica e presentano uno scarso numero di crateri d’impatto, probabilmente dovuto al fatto che parte di tali crateri sono stati successivamente ricoperti da materiale magmatico.

Marte possiede il più grande vulcano del sistema solare con un diametro pari a 700 km ed un’altezza di ~ 25 km rispetto alle pianure circostanti. Tale vulcano è noto con il nome di Olympus Mons. Attraverso uno studio statistico dei crateri d’impatto congiunto ad un’ analisi di tipo stratigrafico della superficie marziana, i geologi hanno potuto ricostruire la storia del Pianeta Rosso. Vi sono differenti modelli che descrivono la storia geologica marziana. Il modello qui illustrato e attualmente utilizzato è quello di Hartmann et al. (1981) accoppiato alla classificazione di Tanaka (1986) che si basa sulla regola generale in base alle quale le zone che presentano un maggior numero crateri sono le più antiche. Tale modello prevede la divisione della storia geologica di Marte in tre ere:

  • Era Noachiana – dal nome della regione della Noachis Terra che si estende nelle antiche regioni delle highlands. Tale periodo è infatti relativo alla formazione dei più antichi materiali esposti sulla superficie del pianeta. L’era Noachiana è datata, secondo Hartmann et al. (1981), dalla formazione del pianeta, avvenuta 4,5 miliardi di anni fa, fino a 3,5 miliardi di anni fa e comprende il periodo dell’intenso bombardamento meteorico di Marte.

  • Era Esperiana – dal nome di Hesperia Planitia, il migliore esempio dei territori che si formarono in quel tempo (Tanaka et al., 1992). L’era Esperiana, che comprende l’età intermedia della storia marziana, è datata, secondo Hartmann e colleghi (1981), da circa 3,5 a 1,8 miliardi di anni fa) e inizia dalla fine del periodo dell’intenso bombardamento meteorico.

  • Era Amazzoniana – dal nome di Amazonis Planitia. Ha inizio dal periodo di formazione di queste pianure di origine vulcaniche e passando attraverso la formazione dei territori dei depositi stratificati e delle distese di dune intorno ai poli arriva fino all’attuale periodo della storia marziana.  

L’atmosfera di Marte è caratterizzata da dettagli temporanei chiamati nuvole che si distinguono in nubi bianche, composte soprattutto da cristalli di ghiaccio e nubi giallastre, costituite da particelle di sabbia e polvere. Queste ultime derivano dal fatto che il pianeta è caratterizzato da frequenti tempeste di polvere estese a tutto il globo e colossali turbini e valanghe di polvere: tutti fenomeni generati dal vento (Albee, 2003). Le tempeste più intense iniziano per lo più nel corso della primavera australe, quando il pianeta si riscalda rapidamente. Durante queste tempeste periodiche i venti sollevano fino ad altezze di 10-15 km la polvere che ricopre il suolo marziano e che, una volta cessata la tempesta, torna a depositarsi sulla superficie del pianeta, conferendogli il caratteristico colore rosso (Orofino, 1998). Studi sull’evoluzione delle tempeste di polvere hanno dimostrato che la superficie di Marte durante e dopo la tempesta è più fredda del normale (Murphy et al., 1990).

Figura 2 – Immagine della superficie di Marte prima e durante una tempesta di polvere (HST)  

In termini di particelle per unità di volume l’atmosfera marziana risulta così costituita: 95.3% anidride carbonica, 2.7% azoto, 1.6% argon, 0.13% ossigeno molecolare, 0.07% monossido di carbonio mentre solo lo 0.03% è costituito da molecole d’acqua (Carr, 1981). Tale atmosfera, come già riportato, è molto tenue ed esercita al suolo una pressione totale minore di 1/100 rispetto a quella terrestre. Anche la pressione parziale del vapore acqueo, pari circa a 0,002 mbar, è di gran lunga inferiore a quella terrestre. Come conseguenza di ciò, se si considerano le basse temperature del pianeta (intorno a -55°), si ha che l’acqua non può esistere allo stato liquido ma solo nello stato solido o gassoso. Essa infatti solidifica e sublima velocemente. Il basso contenuto di ossigeno molecolare comporta uno strato di ozono quasi inesistente: ciò fa sì che la radiazione ultravioletta giunga direttamente sul suolo marziano.

Anche l’effetto serra esercitato dall’atmosfera di Marte è molto debole. Tutto ciò spiega le forti escursioni termiche, dovute appunto alla mancanza di un’efficace azione equilibratrice dell’atmosfera. Le temperature possono infatti raggiungere i 25° durante una giornata estiva ma cadono di 100° o più durante la notte. Questo brusco calo delle temperature è anche dovuto alla mancanza di un’azione equilibratrice da parte degli oceani. Come conseguenza di ciò l’acqua allo stato liquido non può esistere sulla superficie marziana. Benché le condizioni fredde e aride del pianeta siano documentate in maniera inequivocabile, l’idea di Marte come mondo perpetuamente congelato è andata sempre più perdendo credito da quando le sonde hanno inviato i primi dati. Nei primi anni del ’70, durante la missione americana Mariner 9, furono identificate sulla superficie marziana delle strutture geologiche che hanno suscitato un notevole interesse dal punto di vista paleoclimatico. Si tratta di solchi incisi nel terreno indicati con il termine canali. Tuttavia questo nominativo risulta spesso improprio perché ciò che effettivamente si osserva, nelle immagini inviate sulla Terra dalle sonde, è l’intera valle fluviale in fondo alla quale si trova il canale vero e proprio (Irwin et al., 2005). Dal punto di vista morfologico i canali vengono suddivisi in tre gruppi:

Canali di deflusso – Solitamente sono molto grandi dal momento che possono raggiungere una larghezza massima pari circa a 100 km e una lunghezza compresa fra i 1000 e i 2000 km. La loro profondità è in genere maggiore di un chilometro (Malin, 1976). Questi canali si dipartono dai così detti terreni caotici, regioni di rocce fratturate e ammucchiate le quali sarebbero collassate quando le acque sotterranee eruppero improvvisamente in superficie per effetto della fusione del permafrost (strato di terreno permanentemente ghiacciato presente al di sotto della superficie del pianeta). Tale processo si ritiene sia stato indotto dal calore rilasciato durante l’attività vulcanica (Masursky et al., 1977). Questi terreni caotici sono caratteristici delle highlands. I canali di deflusso partendo da tali zone si estendono verso l’emisfero settentrionale. Generalmente non possiedono tributari e hanno un’ampiezza iniziale maggiore o uguale a quella della parte finale del loro corso (Malin, 1976).  inoltre, la geometria di questi canali sembra indicare velocità elevatissime dei corsi d’acqua. Esempi di canali di deflusso sono la Mangala Vallis, l’Ares Vallis e la Kasei Vallis (vedi figura 3);

Figura 3– Immagine di un tipico canale di deflusso, la Kasei Vallis. L’acqua che ha scavato il canale proveniva dalla regione in basso a sinistra e fluiva verso l’area in alto a destra con un andamento dettato dalla pendenza del terreno. Si noti l’isola dalla caratteristica forma allungata. L’immagine centrata a 20° Nord e 68° Ovest, ha dimensioni di 1130 km x 650 km ed è stata ottenuta mediante l’utilizzo del programma JMARS.  

Valli longitudinali (o valli sinuose) – Sono strette e sinuose e hanno lunghezze di centinaia di chilometri e ampiezze di una decina di chilometri (Baker et al., 1992). Questo tipo di valli non si generano mai in terreni caotici. Circa la loro origine sono state avanzate diverse ipotesi. Alcuni ricercatori ritengono che questi canali siano stati scavati dallo scorrimento di acqua superficiale, processo noto come runoff, derivante da piogge (Masursky, 1973), oppure da acque sotterranee risalite in superficie. Molti altri autori, invece, sostengono che queste valli siano state generate da processi di basal sapping, ossia collasso del terreno prodotto dall’affioramento di ghiacci o acque sotterranei (Baker et al., 1992). Il basal sapping si suddivide in ground-ice sapping o ground-water sapping. Quest’ultimo si osserva quando il collasso del terreno è stato provocato dall’affioramento di acque che avrebbero gradualmente eroso il terreno sovrastante fino a causarne il crollo (Craddock e Maxwell, 1993). Nel processo di ground-ice sapping la sublimazione del ghiaccio avrebbe generato il collasso del terreno. In genere le valli originate da processi di runoff hanno una tipica sezione a “V” mentre quelle generate da ground-water sapping mostrano una sezione a “U”. Una tipica valle longitudinale è la Ma’adim Vallis. La figura 4 mostra un altro esempio di valle longitudinale, la Nirgal Vallis.    Figura 4 – Valle longitudinale, denominata Nirgal Vallis, che scorre da Nord-Ovest a Sud-Est negli altipiani meridionali marziani, andando a sfociare nel grande canale di deflusso Uzboi Vallis, parzialmente visibile a destra. Si estende per circa 420 km e il fondo della valle è parzialmente coperto da dune e increspature. L’immagine, centrata 29° Sud e 41° Ovest, copre un’area di 500 km x 350 km ed è stata ottenuta grazie al programma JMARS.  

Valli dendritiche – Si tratta di sistemi ramificati con un certo numero di affluenti, che vanno a confluire in un unico ramo principale. Sistemi che mostrano affluenti fino al settimo ordine prendono più specificatamente il nome valley networks (Ansan e Mangold, 2006). Solitamente il ramo principale ha un’ampiezza che va aumentano lungo il suo corso. Generalmente queste valli hanno lunghezze inferiori ai 200 km (Carr, 2006), mentre le ampiezze dei rami principali sono dell’ordine del chilometro e le profondità variano dai 50 ai 400 metri (Williams e Phillips, 2001; Kereszturi, 2005). Anche la genesi di questi canali è riconducibile a processi di runoff o ground-water sapping.  inoltre, è probabile che la morfologia delle valli così come noi la osserviamo oggi non sia quella originaria. In seguito alla loro incisione nel terreno, tali strutture potrebbero infatti essere state modificate da processi di mass wasting, ovvero cedimento delle pareti laterali della valle, che hanno dato origine a una morfologia tipica del processo di ground-water sapping (Gulick e Baker, 1990). Di fatto le valli dendritiche sono le più simili alle valli fluviali terrestri. Esemplare di questa categoria è il sistema denominato Warrego Valles (vedi figura 5);

Figura 5 – Sistema ben sviluppato di canali dendritici, denominato Warrego Valles, posto negli altopiani meridionali (43° Sud, 93° Ovest). Secondo alcuni ricercatori, questi canali dendritici hanno avuto un’origine principalmente dovuta a precipitazioni atmosferiche e quindi presuppongono un clima più caldo e umido rispetto a quello attuale (Ansan e Mangold, 2006). Immagine ottenuta tramite JMARS, copre un’area di 170 km x 95 km.  

Oltre alle valli dendritiche esistono poi un gran numero di canali più piccoli detti gullies (vedi figura 6), molto spesso privi di affluenti, che tendono a disporsi parallelamente su terreni caratterizzati da pendenze molto ripide (Clow, 1987). Tali canali sfociano in aree più basse che probabilmente un tempo erano la sede di laghi o mari.

Figura 6 – Immagine tridimensionale che mostra delle gullies poste all’interno di un cratere d’impatto nei pressi della regione dei Nereidum Montes. L’immagine ha le dimensioni di 90 km x 52 km (dal sito http://mars.jpl.nasa.gov/mars3d/).

Vi sono  inoltre, diverse tracce che sembrano suggerire la presenza di un antico oceano (definito come Oceanus Borealis) che avrebbe ricoperto le lowlands dell’emisfero settentrionale (Parker et al., 1989; Helfer, 1990; Schaefer, 1990; Baker et al., 1991; Parker et al., 1993; Di Achille e Hynek, 2010). Prima di tutto, i bassopiani settentrionali sono straordinariamente piatti, e questa caratteristica ha portato a ipotizzare che siano stati fondali marini rivestiti da sedimenti per un periodo significativo della storia marziana.  inoltre, grazie all’altimetro laser MOLA della sonda Mars Global Surveyor è stato possibile rilevare che le probabili linee di costa del presunto oceano presentano la stessa altezza (Di Achille e Hynek, 2010). Due strutture geologiche particolarmente significative in questo contesto sono le scarpate che circondano l’Olympus Mons e l’Apollinaris Patera, due dei più importanti vulcani del pianeta. Si ritiene che il primo si sia trovato nelle vicinanze della linea costiera dell’Oceano Boreale, mentre il secondo sia stato completamente circondato delle acque dell’oceano (Guaita, 2000).  inoltre, l’altimetro MOLA ha permesso di notare che i punti in cui sei dei principali fiumi marziani spariscono nei piani settentrionali si trovano allo stesso livello (Ivanov e Head, 1999; Di Achille e Hynek, 2010).

Non esistono dubbi sul fatto che le valli siano state generate dallo scorrere di acqua liquida. Ciò ha portato molti ricercatori ad intuire che probabilmente al tempo della loro formazione le condizioni di pressione atmosferica e temperatura superficiale del pianeta dovevano essere differenti rispetto a quelle attuali (Hynek et al., 2010). In particolare alcuni autori ritengono che l’era Noachiana sia stata caratterizzata da una clima molto più caldo e umido grazie all’intensa attività vulcanica che ha reso l’atmosfera più densa. Ciò ha indotto un effetto serra sufficiente a riscaldare il pianeta. In seguito però tale effetto sarebbe diminuito e l’atmosfera sarebbe diventata rarefatta a causa della progressiva riduzione dell’attività vulcanica, non più in grado i compensare le perdite di anidride carbonica verso l’esterno del pianeta (dovute alla bassa gravità). Da un punto di vista paleoclimatico risulta interessante studiare la durata del flusso d’acqua all’interno delle valli fluviali. Per quanto riguarda i canali di deflusso, tale tempo di permanenza deve essere stato dell’ordine di alcuni giorni o al massimo di qualche settimana. Questi canali sono stati infatti caratterizzati da una portata elevatissima, pertanto in essi la permanenza dell’acqua è stata del tutto effimera. L’ingente quantità d’acqua coinvolta nel processo è giunta alla fine del corso prima di ghiacciare in tempi estremamente brevi (Squyres, 1989).

Di maggiore interesse paleoclimatico sono invece le valli longitudinali e quelle dendritiche di grandi dimensioni dove l’acqua sarebbe circolata per diversi milioni di anni. Queste valli si sarebbero generate durante l’era Noachiana. (Pieri, 1976, 1980; Fassett e Haed, 2008).  Anche le valli dendritiche di piccole dimensioni hanno richiesto un tempo di formazione abbastanza lungo. L’analisi della loro morfologia rivela, infatti, una modesta portata dalla quale si deduce che per produrre il volume di erosione osservato sono stati impiegati tempi almeno dell’ordine di  105 anni (Gulick e Baker, 1989; Hoke et al., 2011). È probabile che durante l’era Noachiana il pianeta sia stato caratterizzato da periodi in cui le condizioni climatiche sono tornate ad essere temperate o localmente, in seguito a grandi eruzioni vulcaniche, o su scala globale. In quest’ambito estremi stagionali di temperatura possono essere stati provocati dalla tendenza dell’asse di rotazione a variare in modo drastico la propria inclinazione (Kargel e Strom, 1997).

Tuttavia non tutti i ricercatori sono concordi sul fatto che Marte abbia avuto un clima più caldo e umido rispetto a quello che si osserva oggi. Per questi studiosi i canali di cui abbiamo ampliamente discusso si sarebbero generati in condizioni analoghe a quelle attuali, in seguito allo scorrimento di acqua coperta in superficie da ghiaccio (ipotesi originariamente proposta da Wallace e Sagan (1979) e poi ripresa da Carr (1983) e da diversi ricercatori). Questa ipotesi non sembra però tener conto dei processi di congelamento dei corsi d’acqua che si osservano in natura (Carr, 1996). Gulick and Baker (1989, 1993), Clifford (1996) e Squyres e Kasting (1994) ritengono invece che i sistemi vallivi si siano generati per processi di runoff e ground-water sapping generati da acque sotterranee riscaldate da intrusioni magmatiche e sgorgate in superficie. Questi ricercatori sostengono che tutto ciò sia avvenuto in condizioni climatiche simili alle attuali. La loro idea riesce a spiegare l’origine di diversi canali marziani ma non è adattabile alla genesi di molti altri. La superficie del pianeta mostra, infatti, diversi canali dendritici in terreni nei quali non vi è alcuna traccia di presente o passata attività vulcanica.  inoltre, la morfologia di questi canali sembra richiedere un flusso d’acqua abbastanza lungo che nelle attuali condizioni non è possibile (Squyres, 1989; Wharton et al., 1995).

Per quanto riguarda i canali che si trovano in prossimità dei crateri d’impatto si ritiene che la loro origine sia dovuta al calore liberato durante l’urto che ha causato lo scioglimento del ghiaccio sotterraneo (Brakenridge et al., 1985). Se così fosse, ogni cratere avrebbe dovuto ospitare un lago ma questo non accade. E’ stato dimostrato  inoltre, che il calore liberato dall’impatto di crateri di diametro inferiore a 100 km non è sufficiente a far sciogliere il ghiaccio sotterraneo (Gulick, 1998). Tutto ciò sembra suggerire che i canali, situati in prossimità dei crateri d’impatto, abbiano un’origine dovuta a precipitazioni e lo stesso si pensa riguardo alla genesi di molte altre valli fluviali che non si trovano nelle vicinanze di crateri o in aree vulcaniche. Siccome attualmente le uniche precipitazioni possibili sul Pianeta Rosso sono quelle di anidride carbonica allo stato solido, questo va a sostegno della tesi in base alla quale Marte abbia sperimentato in passato condizioni climatiche differenti rispetto a quelle che si osservano oggi. Per verificare tale tesi numerose sonde orbitano attorno al pianeta e lander passeggiano sulla sua superficie.

Le sonde attualmente in orbita operativa sono la Mars Odissey, partita nel 2001, la Mars Express, lanciata dall’ESA il 4 Giugno 2003, entrata in orbita attorno a Marte il 25 Dicembre 2003 e al cui progetto ha partecipato anche il gruppo di Astrofisica dell’Università di Lecce. Attorno al Pianeta Rosso orbita  inoltre, il Mars Reconnaissance Orbiter, una sonda spaziale polifunzionale della NASA lanciata il 12 agosto 2005. Tutti questi orbiter hanno permesso di mappare la superficie del pianeta e determinare la sua composizione. Di notevole importanza è stato  inoltre, il contributo dei rover che hanno permesso di delineare la storia geologica marziana, come Spirit e Opportunity, i due rover americani della missione MER 2003 della NASA, atterrati sul pianeta nel Gennaio 2004. Questo è il momento del rover Curiosity della NASA, che ha toccato la superficie del pianeta il 6 Agosto 2012. L’ipotesi che sta alla base di questa missione è che un tempo Marte sia stato abitabile. Il rover trasporta un vero e proprio laboratorio di analisi per verificare questa ipotesi e capire come il clima abbia apparentemente avuto un cambiamento così drastico portando Marte a quel gelido deserto che oggi lo caratterizza.

Gli obiettivi principali del rover Curiosity sono:

  • Indagare sul clima marziano e sulla sua geologia;

  • Valutare la possibilità che il luogo analizzato abbia ospitato vita microbica;

  • Studi di abilità planetaria in preparazione ad una possibile missione umana su Marte.

Le analisi di Curiosity partono dall’utilizzo di una telecamera ad alta risoluzione al fine di ricercare le zone della superficie di particolare interesse. Curiosity può poi vaporizzare una porzione di tale superficie con un laser a infrarosso ed esaminare la struttura spettrale che ne deriva al fine di determinare caratteristiche e composizione della roccia sotto esame. Se il risultato di tale analisi è particolarmente interessante il rover può utilizzare il suo braccio robotico dotato di uno spettrometro a raggi x per osservare la zone interessata più da vicino. Infine Curiosity può perforare il masso e portare il campione al SAM (Sample Analysis at Mars) o al CheMin (Chemistry and Mineralogy), due laboratori di analisi presenti all’interno del rover. Il SAM analizza elementi organici e gas appartenenti sia al campione che all’atmosfera, mentre il CheMin ha lo scopo di identificare e quantificare i minerali presenti nel campione di roccia, valutando il coinvolgimento dell’acqua nella loro formazione. Analisi dettagliate di alcune rocce da parte del rover hanno confermato l’iniziale ipotesi di alcuni ricercatori in base alla quale quest’ultime contengono ghiaia di origine marina. La forma e le dimensioni della ghiaia incorporata in queste rocce ha permesso ai ricercatori di calcolare la profondità e la velocità dell’acqua che scorreva in questa zona.  inoltre, è stato notato che i ciottoli più grandi non sono distribuiti uniformemente nel conglomerato della roccia ma quest’ultimo presenta diversi strati di sabbia. Questo è comune a molti depositi di ruscelli presenti sulla Terra ed è quindi un’ulteriore prova della presenza di un antico ruscello su Marte. Ma siamo ad un punto di svolta della missione di Curiosity su Marte. Ad un anno dal suo atterraggio, dopo aver studiato una zona più piccola di un campo di calcio, il rover si sta spostando ai piedi del Monte Sharp a circa 8 km di distanza dal suo sito attuale, dove è prevista un’ulteriore trivellazione. Ciò ha lo scopo di fare un confronto con i risultati ottenuti fino ad ora. Curiosity guiderà verso sud-ovest per diversi mesi prima di raggiungere il Monte. Jim Erickson, del Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha affermato: “ Non sappiamo quando raggiungeremo il Monte Sharp. Questa è davvero una missione di esplorazione, solo perché il nostro obiettivo finale è il Monte Sharp non vuol dire che non troveremo caratteristiche interessanti lungo la strada”.   

Sotto una pioggia di stelle – Giulia Alemanno

Come ogni estate, aspettiamo la pioggia di stelle della notte di San Lorenzo per esprimere i nostri desideri e affidare i nostri sogni a quelle tracce luminose che appaiono nel cielo. “E’ una notte come tutte le altre notti. E’ una notte con qualcosa di speciale….. Vedo stelle che cadono nella notte dei desideri” canta Jovanotti.

Da sempre i desideri sono stati connessi alle stelle. Lo dice il nome stesso: de + sidera che in latino vuol dire proprio stella. Le stelle cadenti hanno affascinato tutti. Molti poeti hanno dedicato loro versi:

“Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or subito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond’e’ s’accende nulla sen perde, ed esso dura poco…” scriveva Dante

In realtà le tracce luminose che osserviamo in cielo hanno ben poco a che fare con le stelle. Si tratta piuttosto di frammenti e polveri disseminate dal passaggio di una cometa. Le comete sono corpi minori del Sistema Solare, le cui dimensioni variano da qualche chilometro a qualche decina di chilometri ed hanno un nucleo formato da ghiaccio, ossido e biossido di carbonio, ammoniaca e acido cianidrico il tutto impastato con granuli metallici e polveri rocciose (silicati in particolare), grafite, polisaccaridi e polimeri organici. L’immagine ottenuta dalla sonda Giotto, che nel 1986 entrò nella chioma della cometa Halley, ha rivelato un nucleo particolarmente scuro, con un albedo molto basso, probabile conseguenza della copertura della superficie da parte di molecole organiche pesanti depositate dopo la sublimazione dei ghiacci sottostanti. Le comete possono essere di due differenti tipi:

  • Comete a corto periodo – che va da una decina di anni fino al massimo a duecento anni. Provengono dalla Fascia di Kuiper. Si tratta di una regione del Sistema Solare composta da un numero elevato di corpi minori (più di un migliaio quelli scoperti ad oggi), detti anche corpi trans-nettuniani poiché situati oltre l’orbita di Nettuno, da una distanza di 30 UA (UA. = unità astronomica = distanza media Terra – Sole, pari circa a  1.5*108 km) fino a 50 UA. circa.

  • Comete a lungo periodo – pari a migliaia, decine di migliaia e forse anche milioni di anni. Provengono dalla Nube di Oort, dal nome dello scopritore, l’astronomo olandese Jan Oort che per primo ipotizzò la presenza di questa nube agli estremi confini del Sistema Solare. La nube di Oort è situata, infatti, a una distanza pari circa a 50000 UA. ed è sede di milioni di nuclei cometari. Ciò che porta questi oggetti, così lontani dal Sole, verso l’interno del Sistema Solare è la “regina” delle forze: la gravità. Talvolta, infatti, delle perturbazioni gravitazionali prodotte da stelle poste nelle vicinanze e l’azione mareale della Galassia creano sconvolgimenti all’interno della nube e spingono qualche componente di essa verso le regioni interne del Sistema Solare. Alcune di queste comete vengono poi “intrappolate” dall’attrazione gravitazionale del Sole e si inseriscono pertanto in un’orbita chiusa ed ellittica attorno ad esso. Altre, invece, si muovono su orbite paraboliche o iperboliche, avvicinandosi al Sole per poi allontanarsi per sempre. Queste ultime fanno parte di una terza categoria costituita dalle comete non periodiche.

Quando questi corpi rocciosi si avvicinano al Sole, subiscono un gigantesco processo di evaporazione degli elementi volatili che vanno a formare la chioma, una specie di atmosfera che circonda il nucleo, e la coda. La coda costituisce la caratteristica più spettacolare delle comete, si estende per qualche milione di km ed ha una densità molto bassa per cui la Terra attraversando tale coda non avverte nulla. Questo ci riporta immediatamente indietro nel tempo, al 1910, anno in cui la Terra attraversò la coda della famosa cometa Halley, dal nome di Edmund Halley, astronomo inglese, il quale studiando l’astro, nel 1682, scoprì la sua periodicità, pari circa a 76 anni. L’evento, annunciato dai giornali dei vari Paesi, scatenò uno stato di panico collettivo. Tutto iniziò quando l’astronomo francese Camille Flammarion (1842-1925), pubblicò un articolo nel quale spiegava i vari modi in cui i gas della cometa avrebbero potuto potenzialmente portare alla fine del mondo. “Ce n’erano per tutti i gusti, anche quello dell’alterazione della concentrazione dell’azoto nell’aria che, se non altro, avrebbe avuto il merito di far morire tutti tra le risate, grazie all’euforia che tale squilibrio provoca nel nostro cervello.”, ha scritto Margherita Hack. La reazione fu eclatante: molti si gettarono dalla finestra perché non riuscivano ad aspettare il momento del passaggio, altri invece cercavano in tutti i modi di sfuggire alla morte comprando pillole anticometa, maschere antigas e addirittura bottiglie “gonfiate di aria purissima” dall’industria Michelin. D’altra parte per lungo tempo le comete erano state interpretate come presagio di sventure, associate spesso a fenomeni mortali come le epidemie di peste. Era opinione comunemente diffusa che le comete portassero guai, tranne alcune rare eccezioni come la nascita di Cristo. Anche se alcuni astronomi ritengono che il passaggio della cometa, in questo caso, non si sia mai verificato realmente. Fu solo in seguito al dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi”, raffigurante la cometa sulla capanna della Natività, che essa entrò a far parte dell’iconografia del Natale.

Le comete presentano in realtà due code:

  • una coda costituita da polveri che assume una colorazione giallastra;

  • una coda di ioni, costituita da plasma, di colore bluastro a causa delle emissioni del CO ionizzato. Quest’ultima interagisce direttamente con il vento solare ed è più veloce della prima. Le due code sono soggette sia all’attrazione gravitazionale sia alla forza repulsiva della pressione di radiazione. E’ a causa di quest’ultima che le code si dispongono in direzione opposta al Sole.(Hack, 2010)  

G. Rhemann image of C/1995 O1 (Hale-Bopp) exposed on 1997 March 27

Copyright © 1997 by Gerald Rhemann (Austria) This image of comet Hale-Bopp was obtained by Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

A ogni passaggio vicino al Sole il nucleo della cometa diventa sempre più piccolo. Essa, infatti, lascia una scia di polveri lungo la sua orbita. Queste ultime quando incontrano la Terra, sono chiamate meteore poiché entrando nell’atmosfera terrestre si incendiano lasciando una traccia luminosa al loro passaggio, da cui deriva appunto il nome di “stella cadente”.   La Terra, in determinati periodi dell’anno, attraversa delle regioni dello spazio ricche di queste “tracce” di cometa che entrando nell’atmosfera danno luogo a veri e proprio sciami meteorici. Tra i più noti abbiamo proprio lo sciame delle Perseidi, il cui nome deriva dal fatto che la direzione sulla volta celeste dalla quale sembrano provenire le meteore è quella della Costellazione di Perseo. Un tempo il massimo di frequenza di questo sciame cadeva proprio nella notte di San Lorenzo e il Santo fu inevitabilmente tirato in ballo. « San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla… » (Giovanni Pascoli). San Lorenzo, fu messo al rogo all’età di soli 33 anni nella notte del 10 Agosto 258, per volere dell’imperatore Valeriano. Quest’ultimo emanò un editto secondo il quale tutti i vescovi, presbiteri e diaconi (come San Lorenzo) dovevano essere uccisi. Le stelle cadenti in quella notte vennero così interpretate come le lacrime del Santo.

Oggi il massimo di frequenza si è spostato di ben due giorni, quindi lo sciame delle Perseidi avrà una maggiore visibilità nella notte tra il 12 e il 13 Agosto. Le Perseidi hanno origine dalle polveri seminate dalla cometa Swift – Tuttle che prende il nome dai suoi scopritori: Leon Swift e Horace Parnell Tuttle. Si tratta di una cometa periodica con un periodo pari circa a 133,28 anni, il cui ultimo passaggio al Perielio (punto più vicino al Sole) è avvenuto nel 1992 e il prossimo è previsto per il 15 Luglio 2126. Il legame tra le Perseidi e la cometa Swift – Tuttle fu reso noto dall’astronomo italiano Giovanni Virgilio Schiaparelli nel XIX secolo.

La responsabile delle tracce luminose osservate in cielo è poi la forza d’attrito tra queste particelle e l’atmosfera che genera un calore sufficiente a eccitare e ionizzare le molecole dell’atmosfera che pertanto emettono la scia luminosa. “Quanno me godo da la loggia mia quele sere d’agosto tanto belle ch’er celo troppo carico de stelle se pija er lusso de buttalle via, ad ognuna che casca penso spesso a le speranze che se porta appresso.” diceva Trilussa.

 Se queste polveri viaggiano nella stessa direzione della Terra, penetrano nell’atmosfera del nostro pianeta ad una velocità pari circa a 36000 km/h. Se invece, Terra e polveri viaggiano in direzioni opposte, quest’ultime raggiungono una velocità di 25000 km/h (Hack, 2010). Le meteore con una magnitudine pari circa a -3, ovvero le più brillanti, vengono chiamate bolidi, in base alla definizione dell’International Meteor Organization. I corpi che non sublimano completamente nell’atmosfera prendono il nome di meteoriti. Questi ultimi hanno dimensioni maggiori rispetto alle meteore e precipitano al suolo creando talvolta grandi crateri d’impatto, come il Meteor Crater in Arizona, che ha una profondità pari circa a 170 m e una larghezza di 1200 m. In base alla loro composizione le meteoriti si dividono in meteoriti ferrose, costituite prevalentemente da agglomerati di cristalli di Ferro e Nichel e meteoriti rocciose, costituite prevalentemente da silicati.   Le meteore possono essere osservate anche in altri periodi dell’anno.

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Astronomer Fred Bruenjes recorded a series of many 30 second long exposures spanning about six hours on the night of 2004 August 11/12 using a wide angle lens. Combining those frames which captured meteor flashes, he produced this dramatic view of the Perseids of summer. Although the comet dust particles are traveling parallel to each other, the resulting shower meteors clearly seem to radiate from a single point on the sky in the eponymous constellation Perseus. Fred Bruenjes/NASA

Abbiamo altri sciami meteorici tra i quali:

  • lo sciame delle Orionidi, nel mese di Ottobre, con massimo di visibilità attorno al 22, dovuto alle polveri della cometa di Halley;

  • lo sciame delle Leonidi, attorno al 17 Novembre, dovuto alle polveri lasciate dalla cometa Tempel-Tuttle;

  • Le Liridi, tra il 15 e il 20 Aprile, provenienti dalla cometa C/1861 G1 Thatcher;

Oltre a questi esistono molti altri sciami più deboli e meteore “sporadiche”non legate a particolari progenitori. E’ stato calcolato che ogni anno il nostro pianeta attrae in media 40000 tonnellate tra meteore e meteoriti, molte delle quali finiscono in fondo agli oceani o nei deserti.

Ritornando alle nostre Perseidi, quest’anno possiamo considerarci abbastanza fortunati, perché l’assenza della Luna in cielo faciliterà l’osservazione. Il 6 Agosto, infatti, è Luna Nuova e nelle notti a seguire la Luna tramonterà prima della mezzanotte proprio quando il numero delle meteore inizierà ad aumentare, poiché l’osservatore si trova sulla parte della Terra che avanza lungo la propria orbita verso le polveri della cometa. Per osservare il maggior numero di meteore possibile è consigliabile recarsi in luoghi bui, lontani dall’inquinamento luminoso delle città, quindi anche in spiaggia per i più romantici, e di aspettare notte fonda. Soprattutto, ricordiamo, nella notte tra il 12 e il 13 Agosto. Quindi desideri pronti, le nostre meteore stanno arrivando! “Stella, se ci credi davvero, tutti i desideri possono avverarsi.” Barbarén

ISON – La (potenziale) cometa di Natale – Anna Galiano

Il Natale, la festività più amata della tradizione cristiana, narra che il Messia sia nato in una mangiatoia e che una cometa abbia mostrato ai Re Magi la via da seguire per raggiungerlo. Ma nell’anno 0 una cometa ha davvero attraversato i cieli di Betlemme? Innanzitutto, molti studiosi suppongono che Gesù sia nato negli ultimi anni del regno di Erode, pertanto la data della sua nascita deve essere collocata tra il 6 e il 4 a.C. ma in quegli anni sembra che non sia stato registrato alcun passaggio di comete. E allora la storia di questo oggetto astronomico denominato “Stella di Betlemme” da dove salta fuori? giotto scrovegniSi deve attribuire il merito di questa tradizione ad un famoso pittore italiano. Nel 1301 Giotto rimase così affascinato dal passaggio di una splendida cometa, oggi nota come la cometa di Halley, che decise di raffigurarla in uno dei suoi dipinti, “Adorazione dei Magi” sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. Questo affresco riproduce la nascita di Cristo avvenuta in una mangiatoia con i Re Magi al suo cospetto e, per la prima volta, una cometa nel cielo. Figura 1: Dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi” nella Cappella degli Scrovegni (Padova). Quest’anno però, il 26 Dicembre, se diversi fattori lo consentono, gli abitanti dell’emisfero boreale potranno assistere al passaggio ravvicinato e spettacolare della cometa ISON. L’origine greca del nome κομήτης (kométes), “cometa” fa riferimento all’aspetto tipico di questo oggetto astronomico, che appare nel cielo come se fosse una lunga chioma di capelli. Un tempo la comparsa di una cometa era sinonimo di cattivo presagio, a tal punto che gli astronomi di corte rischiavano la vita se, malauguratamente non riuscivano a predire il passaggio di questi astri chiomati. Le comete però, popolarmente identificate anche come “palle di neve sporche” sono sostanzialmente un aggregato di frammenti rocciosi, silicati e composti ferrosi, amalgamati da ghiaccio d’acqua, ghiaccio secco, metano, ammoniaca ed altri gas congelati che descrivono attorno al Sole orbite ellittiche di elevata eccentricità. Si ritiene che questi oggetti di massa ridotta (non superiore a 1019 g) risiedano sia nella “Cintura di Kuiper”, regione del Sistema Solare esterno che si estende oltre l’orbita di Nettuno (tra 30 e 55 UA dal Sole) sia in una regione sferica che circonda l’intero Sistema Solare nota come “Nube di Oort”. Alcune teorie sostengono che le comete siano resti rocciosi della formazione del Sistema Solare, avvenuta 4.6 miliardi di anni fa. Questi frammenti molto probabilmente si sono formati nelle vicinanze del Sole, ma a causa di perturbazioni gravitazionali esercitate dai pianeti giganti sono stati spinti nella Nube di Oort che attualmente si presume ne contenga circa 2 trilioni. La Nube di Oort ha un raggio stimato di 50000 UA e spazia dalla regione esterna della Cintura di Kuiper fino ad un quarto della distanza che separa il Sistema Solare dalla stella più vicina, Proxima Centauri (distante circa 4 a.l.). Al seguito di perturbazioni dovute a stelle vicine o di interazioni con il disco galattico della Via Lattea, questi oggetti ghiacciati possono allontanarsi dalla Nube di Oort e raggiungere il Sistema Solare interno, in direzione del Sole. Si parla, così, di comete a lungo periodo (il tempo che impiegano per percorrere l’intera orbita è compreso tra 200 anni e 1 milione di anni ed oltre) e sono caratterizzate da orbite eccentriche, paraboliche o iperboliche. Solitamente il passaggio di queste comete viene osservato una sola volta poiché a causa della forte eccentricità della loro orbita escono dal Sistema Solare senza fare ritorno.  

Le comete a breve periodo (con un periodo orbitale minore di 200 anni) sono caratterizzate da orbite complanari a quelle dei pianeti. La cometa che ha il periodo più breve è la cometa Encke, pari a 3.30 anni e di questa sono stati registrati il maggior numero di passaggi. La sede di simili comete sembra essere la Fascia di Kuiper. Le orbite delle comete a breve periodo sono confinate nel Sistema Solare e presentano il punto di massima distanza dal Sole (afelio) coincidente con il raggio orbitale di alcuni pianeti del Sistema Solare esterno (Giove, Saturno, Urano, Nettuno). Queste particolari comete vengono identificate come la “famiglia” del pianeta in questione. Alcune comete a lungo periodo possono risentire dell’attrazione gravitazionale di un pianeta (soprattutto di Giove con una massa pari a 318 masse solari) che modifica l’eccentricità della loro orbita, facendole divenire delle comete a breve periodo. Di una cometa si possono distinguere chiaramente tre componenti: nucleo, chioma, coda. Il nucleo, con dimensioni che variano da qualche centinaio di metri fino a 40-50 Km ed oltre, ha una forma irregolare, è poroso, limitatamente denso ed ha un basso potere riflettente (infatti l’albedo che per un oggetto totalmente riflettente corrisponde a 1, in questo caso è prossimo allo 0, tipico di materiali che assorbono gran parte della radiazione come il carbone). Il nucleo è un agglomerato di roccia e polveri e per l’80% è costituito da ghiacci volatili come: ghiaccio d’acqua (presente in maggior quantità), ghiaccio secco, ossia anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), metano (CH4), monossido di carbonio (CO). Il ghiaccio d’acqua è strutturato in modo tale che gli atomi di idrogeno di 6 molecole d’acqua siano legati tra loro, tramite appunto il “legame idrogeno”. La struttura cristallina che ne deriva presenta una cavità all’interno dove possono risiedere molecole di monossido di carbonio, anidride carbonica, ammoniaca e metano. Per questo motivo tali strutture vengono chiamate clatrati, dal latino “claustrum”, ossia “gabbia”. Per la maggior parte del tempo le comete sono degli oggetti inattivi, ossia semplici frammenti di roccia e ghiaccio che viaggiano nel Sistema Solare seguendo la propria orbita, ma giunti in prossimità del Sole (a distanza di circa 3 o 5 UA) gli elementi ghiacciati che caratterizzano il nucleo cometario iniziano a riscaldarsi e a sublimare, generando una chioma. Questa, che può avere dimensioni da 30000 a 100000 Km, ha inizialmente una forma semi-sferica e diviene molto luminosa quando le particelle gassose di cui è composta interagiscono con la radiazione ultravioletta solare, giungendo all’eccitazione. Quando la cometa giunge al perielio la pressione di radiazione del Sole è così intensa che interagendo con i detriti ne modifica la traiettoria: in questo modo la struttura semi-sferica della chioma diviene una struttura “a goccia”. Se una cometa dovesse presentare una predominanza di ghiaccio di monossido di carbonio (CO) e non ghiaccio d’acqua la chioma inizia a formarsi già ad una distanza di 10 UA, poiché il CO sublima a temperature inferiori rispetto a quelle del ghiaccio d’acqua. Da misure spettroscopiche è emerso che la chioma presenta righe di emissione corrispondenti a diversi metalli, come Potassio (K), Sodio (Na), Calcio (Ca), Rame (Cu), Ferro (Fe). Sono state inoltre osservate, nella chioma, sostanze inconsuete la cui presenza è stata spiegata come la dissociazione di molecole più complesse, dette “molecole madri”, ad opera dell’interazione di queste con la radiazione solare. Infatti all’interno di una chioma possiamo distinguere: ·        

  • Chioma interna: composta da “molecole madri” appena rilasciate dal nucleo cometario, al seguito della sublimazione degli elementi volatili;

  • Chioma intermedia: costituita da nuove molecole, ottenute dalla dissociazione delle molecole madri, indicate come “molecole figlie”;

  • Chioma esterna (o chioma di Idrogeno): enorme nube di idrogeno neutro che può estendersi per milioni di Km di diametro.

Inoltre, la pressione di radiazione ed il vento solare provenienti dalla nostra stella spingono particelle di gas e polveri nella direzione opposta al Sole e pertanto la cometa sviluppa una coda. In realtà una cometa solitamente è composta da due code:

  • Coda di polveri (o di Tipo I): in media si estende per circa 10 milioni di Km ed è caratterizzata da una variazione di colore che gradualmente dal bianco luminoso del nucleo giunge ad un grigio-verdastro delle regioni più esterne. E’ la componente cometaria che maggiormente cattura l’attenzione del nostro occhio e dagli spettri è emerso che le polveri e i detriti rocciosi che compongono questa coda riflettono la luce solare, conferendole l’elevata luminosità che la caratterizza. Quindi lo spettro della coda di Tipo I è uno spettro a riflessione. La coda di polveri ha una forma ricurva, cosiddetta a “scimitarra” a causa sia della pressione di radiazione solare che devia i grani di polvere di dimensioni minori sia perché le particelle di polveri risentono dell’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole.

  • Coda di ioni (o di Tipo II): è composta da particelle cariche e disposta radialmente al Sole. Si estende per circa 100-300 milioni di Km ed ha una colorazione che varia dal blu elettrico in prossimità del nucleo, al celeste tenue nelle zone periferiche. La coda di ioni genera uno spettro di emissione poiché le particelle che la costituiscono tendono ad assorbire la radiazione solare (soprattutto la componente ultravioletta) e a riemetterla sotto forma di radiazione visibile (secondo il processo di fluorescenza). Gli ioni evidenziati negli spettri di emissione sono principalmente ione monossido di carbonio (CO+), ione cianuro (CN+), ione ossidrile (OH-), ione idronio (H3O+).

Lo sviluppo della doppia coda di una cometa, quella di particelle (in bianco) e quella di ioni (in blu) durante il passaggio vicino al Sole.

Fino al 1997 si riteneva che una cometa in avvicinamento al Sole potesse sviluppare solo le due code appena descritte ma l’astronomo italiano G. Cremonese, analizzando attentamente le immagini di una famosa cometa giunta al perielio quello stesso anno, Hale-Bopp, scoprì che in realtà si poteva generare una terza coda, composta principalmente da atomi di sodio neutro. Infine, nel 2006, tramite il satellite finalizzato alle sole osservazioni solari STEREO (Solar TErrestrial RElations Observatory) si apprese che alcune comete possono sviluppare un’altra coda, costituita da atomi di ferro neutro. La prima si estende per circa 40-50 milioni di Km, ha un colore giallo paglierino e presenta una forma leggermente arcuata poiché, trovandosi tra la coda di polveri e quella di ioni è influenzata in maniera limitata dalla pressione di radiazione. La coda composta da atomi di ferro neutro ha infine una forma ancor più debolmente ricurva. Le comete non devono necessariamente sviluppare le quattro code simultaneamente, dato che queste sono legate alla grandezza del corpo roccioso e ghiacciato e alla sua composizione. Però, in base al tipo di code che si generano si può stimare l’età di una cometa. Una cometa periodica quando giunge al perielio e interagisce con la radiazione solare perde parecchie tonnellate di materiale di cui è composta ad ogni singolo passaggio. Pertanto una cometa che presenta solo una coda di ioni (come è stato osservato per la cometa Hyakutake nel 1996) deve avere necessariamente un’età avanzata poiché i detriti rocciosi e le polveri si esauriscono, in genere, prima degli ioni.

La cometa periodica maggiormente nota è proprio quella avvistata anche da Giotto, che si muove di moto retrogrado nel Sistema Solare interno con un periodo di circa 76 anni. Nell’anno 1986 la cometa è giunta nel punto di minima distanza dal Sole (perielio) il 9 Febbraio ed il 14 Marzo la sonda europea Giotto si è avvicinata fino a circa 600 km di distanza dal nucleo, rivelando la forma di un ellissoide triassiale. Un’altra scoperta ad opera della sonda Giotto è stata quella di notare due getti di polveri e gas, provenienti da regioni limitate del nucleo cometario, in direzione del Sole: ciò ha fatto pensare che i materiali volatili dalla quale si genera la chioma e quindi le diverse code siano confinati all’interno del nucleo da una crosta solida. La vita delle comete non è illimitata: le comete periodiche passano più volte vicino al Sole e vengono gradualmente consumate finché non di disintegrano totalmente. Alcune comete a lungo periodo, invece, hanno un’orbita molto vicina al Sole (comete radenti o sun-grazing) e possono venir disintegrate già al primo tentativo di passaggio al perielio. Dopo questa breve digressione sulla natura degli affascinanti astri chiomati andiamo a conoscere la protagonista indiscussa di questo fine anno 2013, la potenziale cometa del secolo C/2012 S1, meglio nota come ISON. La scoperta è avvenuta il 21 Settembre 2013 da parte di due astronomi, il bielorusso Nevski e il russo Novichonok utilizzando un telescopio riflettore con un diametro d’apertura di 40 cm dell’International Scientific Optical Network in Russia (da cui proviene il nome ISON della cometa) e il programma automatizzato CoLiTech, utile per scoprire asteroidi. La denominazione C/2012 S1 è associata alla natura non periodica della cometa tramite la lettera “C”, 2012 è l’anno della scoperta ed S1 è legato al fatto che è stata la prima cometa a venir individuata nel Settembre di quell’anno. Calcolando i parametri orbitali di ISON si è compresa la sua orbita fortemente iperbolica, sostenendo l’ipotesi che questa cometa provenga dalla Nube di Oort. A causa della sua orbita e della natura non periodica, questa cometa potrà essere avvistata solo per una volta. Le osservazioni provenienti dall’Hubble Space Telescope (HST) e dallo Spitzer Space Telescope risalenti ai primi mesi del 2013, hanno evidenziato un nucleo cometario con un diametro compreso tra 0.4 e 1.2 Km e una chioma di 5000 km.  

La cometa ISON ripresa dall’HST qualche mese fa.  
Crediti: NASA, ESA, J.-Y. Li (Planetary Science Institute), e Hubble Comet ISON Imaging Science Team

Tutte le comete sono dirette verso il Sole e la ISON non fa eccezione: la data in cui la cometa si troverà alla minima distanza dalla nostra stella è il 28 Novembre. ISON transiterà dunque a circa 2 milioni di Km dal centro del Sole e considerando che il raggio solare è di 695000 Km, la cometa passerà a 1.16 milioni di Km dalla fotosfera della nostra stella. Tale distanza è molto ridotta, infatti ISON è una cometa radente e se il Sole dovesse presentare una forte attività la cometa potrebbe non sopravvivere a questo passaggio ravvicinato. E’ rimasta memorabile la cometa Lovejoy, che il 16 dicembre 2011 si è letteralmente gettata nella corona solare e, a dispetto di tutte le previsioni che la ritenevano ormai disintegrata, alcuni telescopi orbitanti l’hanno vista riemergere dall’atmosfera solare seppur privata di buona parte della sua coda originaria. Se anche ISON dovesse sopravvivere alla minaccia solare del 28 Novembre, potrebbe generare nei mesi successivi un brillante spettacolo nei cieli dell’emisfero boreale e potremmo pertanto osservare una cometa luminosa ad occhio nudo, evento che ebbe come protagonista la cometa Hale-Bopp e pertanto non si ripete dal 1997. Quest’ultima è rimasta visibile nel cielo per ben 18 mesi, raggiungendo una magnitudine pari a 0, fattori che hanno portato a battezzarla come la “Grande Cometa” del 1997.

This image of comet Hale-Bopp was obtained by Gerald Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

Alcune previsioni sostengono che la cometa ISON potrebbe superare lo spettacolo della Hale-Bopp. Il 26 Dicembre la cometa percorrerà quel tratto di orbita che è maggiormente vicino alla Terra, distante solo 64 milioni di Km, ossia 200 volte la distanza Terra-Luna. Tra il 14 e il 15 Gennaio, invece, la Terra attraverserà una regione molto vicina all’orbita della cometa e alcune particelle emesse dalla ISON durante il suo passaggio potrebbero impattare l’atmosfera terrestre generando uno sciame meteoritico, quindi stelle cadenti. Tuttavia la portata dell’evento sarà probabilmente modesta poiché uno sciame di particelle si manifesta soltanto quando la Terra attraversa delle zone nella quale è avvenuto il passaggio della coda della cometa. Le famose “Lacrime di San Lorenzo” non sono altro che il risultato dell’attraversamento dell’atmosfera di polveri provenienti dalla coda della cometa Swift-Tuttle che sono disposte in quel tratto dell’orbita terrestre che il nostro pianeta percorre da metà Luglio fino ad Agosto. Pertanto le “Lacrime di San Lorenzo” non sono visibili solo il 10 Luglio, ma lo spettacolo si prolunga per più di un mese.

Il 1 Ottobre 2013 la cometa ha sfiorato Marte, con una distanza tra i due corpi di soli 6.5 milioni di Km. Come si sa il pianeta rosso è sottoposto ad una incessante indagine con lo scopo di rilevare sul suolo tracce d’acqua e pertanto mentre sul terreno marziano vi sono i rover Curiosity ed Opportunity, in orbita si trova la sonda MRO (Mars Reconossaince Orbiter). Quest’ultima ha lo scopo principale di fornire immagini dettagliate del suolo di Marte utilizzando la camera HIRISE e il 29 Settembre 2013 questa è stata puntata verso la cometa.  La ripresa della cometa che ne è emersa non è altamente dettagliata poiché HIRISE è stata studiata principalmente per fotografare il suolo marziano (la cometa appare come un punto sfocato al centro delle immagini e in movimento rispetto alle altre stelle) ma l’immagine risultante ha frenato comunque gli entusiasmi poiché la luminosità di ISON è molto minore rispetto a quella prevista. Dal 29 Settembre, pertanto, tutti gli appassionati di comete sono rimasti delusi da questo risultato temendo che la “cometa di Natale” non fosse così spettacolare come ci si aspettava. Le comete sono degli oggetti capricciosi e tutt’altro che prevedibili. Infatti fino all’11 Novembre la cometa ISON aveva lentamente raggiunto una magnitudine pari a 8 e pertanto era visibile solo con l’utilizzo di telescopi o con binocoli in cieli completamente bui, ma improvvisamente sembra si sia “svegliata”. Il 13 Novembre è stato registrato un forte aumento di luminosità, raggiungendo la quarta magnitudine e in più ha iniziato a sviluppare la coda di ioni. Ora la ISON è visibilissima ad occhio nudo (nella costellazione della Vergine poco prima dell’alba) nei cieli totalmente privi di inquinamento luminoso e la si può facilmente avvistare con il telescopio nelle aree urbane. Al repentino cambiamento della magnitudine non è stata ancora attribuita una spiegazione definitiva. Può essere dovuto ad un aumento dell’emissione degli elementi volatili della cometa poiché man mano che essa si avvicina al perielio è sottoposta ad una maggiore radiazione solare. Oppure la ISON potrebbe essersi frammentata. La certezza purtroppo manca. Pertanto rimane il dubbio se considerare questo improvviso aumento di luminosità come un fattore positivo o negativo: l’unico modo per saperlo è aspettare ed osservare ogni singola azione che la cometa ISON compierà. Una prima risposta potrebbe arrivare dalle riprese del telescopio spaziale SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) dell’ESA e della NASA che potrà monitorare costantemente la cometa appena entrerà nel campo di vista dei suoi strumenti. La cometa intanto ha sviluppato una lunga coda di oltre 16 milioni di Km.

La cometa ISON fotografata dall’astrofotografo Michael Jäger la notte del 10 Novembre 2013 nella quale si nota chiaramente la coda di polveri e la coda di ioni.  

Di seguito è riportata la curva di luce della cometa ISON relativa al 15 Novembre. Questo grafico comprende due diverse misurazioni. I cerchietti rossi rappresentano le magnitudini (misurate dal Minor Planet Center) associate a regioni limitate vicino la cometa. In questo modo si registra una più debole luminosità rispetto a quella che si otterrebbe se si misurasse la magnitudine dell’intera chioma. I triangoli blu, invece sono i risultati forniti dall’International Comet Quarterly (ICQ), che fanno riferimento alla magnitudine totale della cometa, cercando di stimare tutta la luminosità prodotta dalla ISON. Mentre le prime misurazioni possono variare da osservatore ad osservatore in base alle tecniche e strumentazioni utilizzate, queste ultime sono state ottenute da astronomi esperti che hanno fatto uso di telescopi oppure hanno confrontato ad occhio nudo la luminosità della ISON con quella delle stelle note. La curva nera è semplicemente un possibile modello che la luminosità della cometa potrebbe seguire. Si nota, però come le misure provenienti dall’ICQ seguono maggiormente il modello di curva tracciato, sebbene nella prima metà del 2013 entrambe le misurazioni sembravano essere in accordo. Questo è dovuto al fatto che nei primi mesi del 2013 la ISON era ancora distante da noi e presentava una dimensione angolare ridotta quindi anche le misure di magnitudine del Minor Planet Center coinvolgevano tutto l’astro chiomato e non regioni limitate. Ma attualmente la ISON è sempre più vicina al Sole e di conseguenza a noi, presentando dunque una dimensione maggiore e le due diverse misurazioni non sono più coincidenti. Attualmente la luminosità della ISON è meglio descritta dalle magnitudini totali (rappresentate dai triangoli blu). Dal grafico si evince inoltre, come i valori di magnitudine della ISON siano diminuiti rapidamente nell’arco di pochi giorni, rendendo quindi la cometa maggiormente luminosa. Sarà difficile valutare la luminosità raggiunta dalla cometa quando sarà in prossimità del Sole poiché verrà sovrastata dalla forte luce diurna.

Queste misure non predicono comunque quello che avverrà il 28 Novembre, pertanto non ci resta che attendere quel fatidico giorno ed osservare in diretta ciò che la ISON potrà subire. Verrà disintegrata dal forte campo gravitazionale del Sole o riuscirà ad evitare questo evento distruttivo, permettendoci così di ammirarla, da Dicembre (e per un paio di mesi successivi) in una lunga scia luminosa che solca i nostri cieli notturni? Come terza ipotesi potrebbe anche accadere che interagendo con il Sole, la cometa potrebbe perdere la propria coda ma riuscire ad allontanarsi conservando il nucleo e quindi la chioma. In questo modo, sempre dopo il 28 Novembre, potremmo avvistarla con una luminosità ridotta, subito dopo il tramonto. Da un punto di vista scientifico paradossalmente può essere molto più interessante osservare la distruzione di una cometa piuttosto che il suo affascinante passaggio poiché si potrebbe analizzare in maniera diretta la composizione chimica di regioni interne del nucleo di questo oggetto. Ricordiamo che le comete sono dei frammenti rocciosi e ghiacciati originatisi all’epoca della formazione del Sistema Solare e tramite la loro disintegrazione si potrebbero ottenere dettagliate informazioni sulle condizioni esistenti 4.6 miliardi di anni fa. La ISON tra l’altro, si avvicina al Sole per la prima volta e quindi non è stata alterata chimicamente da precedenti interazioni con la nostra stella. E’ pertanto un reperto di 4.6 miliardi di anni rimasto fortemente intatto da allora. In più si ritiene che le comete siano potenziali “portatrici di vita”: nel 2004 la sonda Stardust ha raggiunto la cometa Wild 2 raccogliendo le polveri provenienti dalla sua coda ed una volta analizzate si è scoperto che contenevano le molecole organiche ammine, precursori del DNA. Infatti il nucleo cometario non è soltanto composto da frammenti rocciosi ed elementi ghiacciati, ma vi sono anche sostanze chimiche organiche, come:

  • formaldeide (H2CO): questo composto è ottenibile tramite ossidazione catalitica del metanolo ed è utilizzato nella vita quotidiana come disinfettante;

  • acido cianidrico (HCN): può presentarsi sottoforma di liquido incolore oppure come gas ed è un veleno molto potente. Questo è essenziale nei processi di sintesi prebiotica (precedenti la comparsa di organismi viventi sulla Terra) di amminoacidi e purine, ossia basi azotate che costituiscono DNA ed RNA.

Si pensa che queste molecole organiche si siano formate nello spazio interstellare e siano state intrappolate nel nucleo cometario nei primi periodi della formazione del Sistema Solare. Nel 2013 è stata avanzata l’ipotesi che gli impatti di comete sulle rocce terrestri avvenuti miliardi di anni fa abbiano generato gli amminoacidi, dalla quale si sono formate le proteine. Quindi la vita sulla Terra potrebbe essere stata “portata” da quelle comete che hanno impattato sul nostro pianeta. Di certo queste risposte non si ottengono limitandosi ad osservare il passaggio della cometa ISON nel Sistema Solare. Però, d’altro canto, chi vuole perdersi lo spettacolo di un’enorme scia luminosa che si estende per gran parte del cielo notturno boreale? Questa è la previsione più fantastica riguardante la ISON che potrebbe rivelarsi ben più deludente anche se  la cometa riuscisse a transitare vicino al Sole senza venir disintegrata. Però, come già detto, le comete sono molto imprevedibili, quindi chi può dire cos’ha in serbo per noi la ISON?                            

What about ISON? – Anna Galiano

ISON, la (potenziale) cometa di Natale, la tanto acclamata cometa del secolo… “what about it”? Che fine ha fatto? Nel precedente articolo relativo a questo interessante astro chiomato, avevamo lasciato la cometa ISON in procinto di avvicinarsi al Sole, con la speranza da parte di molti, che riuscisse a sfuggire all’abbraccio potenzialmente mortale della nostra stella o quanto meno sopravvivere senza essere distrutta del tutto. In tal modo l’avremmo vista brillare nei nostri cieli nel periodo natalizio. Ma il passaggio ravvicinato della ISON al Sole, avvenuto il 28 Novembre scorso, non è stato così tranquillo come si sperava. Abbiamo conosciuto il carattere imprevedibile di questo corpo ghiacciato già nei mesi precedenti il perielio. A causa probabilmente di qualche perturbazione gravitazionale la cometa, circa 3 milioni di anni prima dell’anno 0, si è allontanata dalla nube di Oort nella quale risiedeva e ha intrapreso il proprio viaggio attirata dalla forza gravitazionale del Sole. Giunta nel Sistema Solare interno, fino all’11 Novembre 2013 la luminosità della cometa si era mantenuta al di sotto delle attese, raggiungendo l’ottava magnitudine per poi aumentare improvvisamente ed inspiegabilmente fino ad un valore di magnitudine pari a +4. Nelle ore che hanno preceduto il passaggio al perielio la ISON ha iniziato a ridurre la propria luminosità e giunta nel campo di vista del coronografo LASCO C2 a bordo della sonda SOHO (che monitora costantemente il Sole) si è notato che il nucleo cometario non era più ben distinguibile e pertanto la cometa poteva aver subito, se non del tutto, una parziale frammentazione. La coda, invece era rimasta abbastanza densa ed estesa, molto più delle code di altre comete radenti osservate in precedenza. Ma a causa della frammentazione del nucleo nelle ore precedenti il passaggio al perielio, le speranze di veder solcare i nostri cieli dalla ISON si sono spente ancor prima che la cometa raggiungesse il punto di minima distanza dal Sole. A tal proposito, la stessa Agenzia Spaziale Europea (ossia l’ESA, acronimo di European Space Agency) aveva ritenuto che la cometa fosse “morta”, che non ci fosse più alcuna speranza di vederla riemergere dall’atmosfera solare. L’ESA aveva così dichiarato la tragedia: “Comet ISON is gone”.  

Credit: ESA&NASA/SOHO/SDO – La cometa ISON ripresa dal coronografo LASCO C2.  

Il momento relativo al perielio non è stato registrato da alcuno strumento e pertanto non si sono potuti notare gli ulteriori effetti distruttivi che il vento solare, il suo calore e la sua pressione di radiazione hanno provocato alla cometa nel punto di maggior avvicinamento al Sole. Ma con grande sorpresa, dopo aver superato il momento critico, alcuni resti della ISON sono riemersi dalla zona di occultamento del coronografo LASCO C2. La ISON ci ha abituati, nei mesi precedenti, ai suoi “colpi di testa” e pur avendo inizialmente un nucleo di soli 1.2 Km, non è stata totalmente vinta dalla forza gravitazionale della nostra stella, molto più massiccia di questa piccola cometa. Quando la ISON ha attraversato la corona solare, parte della sua chioma polverosa e gassosa è stata bruciata da questa regione più esterna dell’atmosfera solare, nella quale si raggiungono temperature cinetiche di milioni di gradi. Alcune componenti della chioma sono sopravvissute e nelle 24 ore successive la coda ha assunto la forma di un ventaglio debolmente luminoso. Inoltre, nonostante la ISON avesse raggiunto una temperatura di 2700 °C in quel punto critico, qualcos’altro sembrava essere riuscito ad emergere dall’atmosfera solare. La stessa ESA, una volta analizzate le immagini che mostravano la “sopravvivenza” della ISON, la mattina del 29 Novembre, ha dovuto correggere quanto dichiarato la sera precedente, sostenendo che effettivamente la cometa non era stata distrutta completamente in questa prima fase. La ISON è stata perciò battezzata come “la cometa di Schrödinger” dall’astrofisico del Naval Research Laboratory, Karl Battams, in analogia al famoso gatto quantistico. Il paradosso del “gatto di Schrödinger” descrive un sistema costituito da un felino chiuso in una scatola d’acciaio, con della sostanza radioattiva e un’ampolla di vetro contenente del veleno. Se gli atomi della sostanza radioattiva si disintegrano, innescano un martelletto con cui si rompe l’ampolla facendo fuoriuscire il veleno. Se invece gli atomi non si disintegrano, il gatto è salvo. Poiché non si può osservare ciò che succede nella scatola per un dato periodo di tempo, il gatto in quell’intervallo stabilito è contemporaneamente vivo che morto in termini di stati probabilistici possibili. La ISON si è comportata in un modo analogo per qualche ora.   Questo evento inaspettato, però non ha permesso di riaccendere le speranze poiché da una prima analisi i residui della ISON erano costituiti soprattutto da polveri e cumuli di macerie che avrebbero potuto comunque disintegrarsi completamente nei giorni successivi. Il 30 Novembre si è registrato un calo di luminosità della cometa raggiungendo una magnitudine  di +7.5, ben al di fuori del limite di magnitudine alla quale è sensibile il nostro occhio (l’occhio umano è in grado di vedere oggetti con un valore massimo di magnitudine attorno a 6), senza possibilità pertanto di osservare quel che rimane della ISON ad occhio nudo. Gian Paolo Tozzi, astrofisico dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), ha spiegato che ciò che  è sopravvissuto della ISON sono solo dei grani più massicci di polveri che non sono stati vaporizzati dalla radiazione solare e che pertanto continuano a viaggiare seguendo la loro traiettoria.

Nei giorni successivi la ISON è stata ripresa da altri strumenti che osservano e analizzano l’attività solare, come il LASCO C3, sempre a bordo della sonda SOHO di appartenenza della NASA/ESA e successivamente dall’Heliospheric Imager 1 (HI-1), quest’ultimo a bordo del satellite della NASA, STEREO-A. La cometa sembra aumentare la propria luminosità in quest’ultimo strumento, suscitando non poca sorpresa. Ma in realtà ciò è dovuto ad una migliore sensibilità dei rivelatori di HI-1 rispetto a LASCO C3. Infatti mentre LASCO C3 ha una magnitudine limite alla quale è sensibile pari a +8.5, HI-1 raggiunge magnitudine limite di +11.5. La ISON è rimasta nel campo di vista di HI-1 fino al 7 Dicembre ma già l’immagine del 3 Dicembre la mostra come una diffusa nube polverosa, priva di un’evidente condensazione centrale. L’ipotesi più accreditata implica la totale disintegrazione del nucleo e che pertanto della cometa ISON sia rimasto solo un mucchio di polvere. Come alternativa, la ISON può attualmente essere costituita da piccoli frammenti rocciosi, ciascuno dei quali sottoposto ad una sublimazione dei materiali ghiacciati che lo compongono. Tale sublimazione, se sta avvenendo, è al di sotto dei limiti di magnitudine della quale sono dotati SOHO e STEREO, e per questo non visibile da tali strumenti.  Una domanda posta da molti è: se il nucleo cometario esiste ancora, quanto potrà essere grande? Per risolvere questo ulteriore dubbio e quindi avere informazioni sull’eventuale presenza di un nucleo, sulle sue dimensioni e su una possibile attività cometaria, bisogna aspettare i risultati di un tentativo di ripresa del Telescopio Spaziale Hubble (HST). Di certo, dovremo aspettarci un nucleo ben più piccolo di quanto non fosse già inizialmente anche perché attualmente non si nota più alcun indizio evidente di resti cometari.  

ISON non si è dimostrata all’altezza delle aspettative, non ha soddisfatto le aspettative di “cometa di Natale”, né tantomeno quella di “cometa del secolo” ma di certo non ha lasciato il Sistema Solare in silenzio. Quei pochi frammenti rocciosi e le ceneri rimaste, continuano a forniscono un importante oggetto di indagine ai planetologi che dallo studio della frantumazione del nucleo cometario originario possono dedurre importanti informazioni sulla composizione chimica della cometa, sulla sua struttura interna e sui processi che avvengono in quei corpi ghiacciati provenienti da una regione fredda e remota del Sistema Solare, distante più di 55 UA dal Sole, che è la Nube di Oort. Forse fino alla fine potrà riservarci qualche altra sorpresa. Intanto ricordiamola com’era prima del catastrofico passaggio al perielio, con il suo nucleo di 1.2 Km e con una luminosa coda che attraversava la costellazione della Vergine nei primi giorni di Novembre. Anche se l’avventura della ISON non è stata eclatante come ci aspettavamo, è stata comunque ricca di colpi di scena e ci ha fatto sognare per qualche mese. La cometa ISON ha raggiunto il perielio il 28 Novembre 2013 per la prima volta e qualunque residuo esista ancora non avrà più modo di ripetere tale evento a causa dell’orbita iperbolica di cui è caratterizzata. Alla luce di tutte le evidenze acquisite finora si può solo dire “Addio COMETA ISON”.