Ci sono luoghi che hanno la staordinaria capacità di raccontare storie fantastiche non appena li si guarda sotto la giusta luce e con gli strumenti mentali adatti. Luoghi in cui la bellezza regna sovrana nonostante l’incessante lavorio del tempo. Nel Salento c’è l’imbarazzo della scelta ma per me, non foss’altro che per ragioni biografiche, in cima a tutti c’è il tratto di costa da Novaglie a Leuca. Durante una delle innumerevoli scorribande tardo-adolescenziali su quelle rocce, spesso a strapiombo sul mare, mi imbattei in un posto stranissimo. Rocce bianchissime e levigate, che peraltro avevo già notato in un altro luogo, enormi massi accatastati in maniera caotica ma allo stesso tempo con un ordine sottostante, evidenti anomalie rispetto al quadro geologico circostante. Le mie conoscenze allora erano sostanzialmente scolastiche per cui non ero in grado di formulare nessuna ipotesi attendibile. Da fotografo mi colpì subito la qualità della luce in certi momenti della giornata ma anche la grande difficoltà nel gestirla con le mitiche diapositive Ektachrome che utilizzavo in quel periodo. Era un paradosso incredibile. Finì col considerarlo un piccolo tesoro e come tale da mostrare solo in casi eccezionali.
Nessun indizio all’epoca mi faceva supporre che una decina di anni dopo lo studio di quelle rocce carbonatiche, delle retrostanti lagune e dei relativi fossili sarebbe diventata una parte importante della mia ricerca scientifica in ambito planetologico. Centinaia e centinaia di ore trascorse setacciando le rocce palmo a palmo alla ricerca degli indizi più interessanti, accompagnato solo dal sibilo del vento e dal frangersi delle onde su quelle pareti vecchie di milioni di anni.
Concentrato ormai sulle barriere coralline fossili, perchè questo è in pratica buona parte di quel tratto di costa, complice anche la grande passione per la biologia marina e la fotografia subacquea, trascurai l’indagine su quello che era diventato una sorta di spettacolare pensatoio dove tornare periodicamente per riordinare le idee.
Un bel giorno però, durante una delle solite ricerche nella letteratura scientifica, mi imbattei in un lavoro pubblicato sulla rivista Quaternary International il cui titolo recitava: Large boulder accumulations by extreme waves along the Adriatic coast of southern Apulia (Italy) di Giuseppe Mastronuzzi e Paolo Sansò. Appena cominciai a leggere l’abstract si accese una lampadina in testa, un Eureka alla Archimede maniera. Recuperai molti altri lavori collegati e li studiai con la crescente consapevolezza che forse avevo imbroccato una strada interessante. E’ una sensazione difficile da spiegare ma è sicuramente uno dei momenti più entusiasmanti per chi si occupa di ricerca scientifica. Alla luce di quello che stavo imparando, il mio posto “strano” diventava improvvisamente chiarissimo da leggere.
Quello che avevo trovato poteva essere la prova evidente che uno tsunami aveva colpito la zona attorno al Ciolo in epoca abbastanza recente. Una scoperta sconvolgente per me perchè era evidente a questo punto che doveva essersi trattato di un evento terrificante.
Ma procediamo con ordine. Come si genera uno tsunami? Tutto parte da un brusco movimento sottomarino della crosta terrestre indotto da un terremoto, da una frana, un’eruzione vulcanica, etc. L’onda che si genera in superficie, inizialmente modesta, inizia a propagarsi con una velocità che al largo, in oceano, può raggiungere i 500-1000km/h. Quando l’onda comincia a sentire il fondo in prossimità della costa, per attrito comincia a rallentare fino a circa 90km/h e ad innalzarsi diventando alta da pochi cm a diverse decine di metri a seconda dell’energia che possiede. Contrariamente alle onde generate dal vento durante le mareggiate, che coinvolgono solo le masse d’acqua superficiali, quelle associate ad uno tsunami possono trasportare una tale quantità di acqua che sono in grado di inoltrarsi nell’entroterra anche per diversi km, con effetti devastanti, come nel caso del recente tsunami dell’11 Marzo 2011 che si è abbattuto sul Giappone.
Ma in Puglia può succedere qualcosa di analogo o comunque di potenza tale da seminare distruzione? La risposta purtroppo è sì, come dimostra la tabella seguente che elenca gli tsunami documentati che hanno colpito la nostra regione negli ultimi 700 anni, tratta dal lavoro riportato in basso a cui rimando per una trattazione più esaustiva.
Evidenziato in rosso c’è il probabile candidato che riguarda il Ciolo, come mi confermò il Prof. Sansò dell’Università del Salento, uno dei maggiori esperti in circolazione sull’argomento, a cui mandai un piccolo reportage fotografico:
“Caro Domenico, è probabile si tratti di blocchi trasportati da un maremoto, forse quello del 20 febbraio 1743 che ha prodotto l’accumulo di Torre S.Emiliano. L’epicentro del terremoto è situato 50 km a SE di Otranto per cui non ci sarebbe niente di cui stupirsi: il maremoto avrà sicuramente investito tutta la costa orientale del Salento.
Un caro saluto, Paolo“
Il terremoto del 20 febbraio 1743 raggiunse il IX grado della Scala Mercalli e rase al suolo quasi completamente Nardò, Francavilla Fontana e Amaxichi sull’isola di Lefkada, in Grecia. I morti furono diverse centinaia, soprattutto bambini. L’epicentro in mare scatenò almeno due onde di tsunami provenienti da SSE che si abbatterono sulla costa con un run-up, ossia un’altezza massima delle onde, di 11 metri. Blocchi di decine di tonnellate furono letteralmente sradicati dalla zona intertidale (ce n’è uno di più di 70 tonnellate a Torre S.Emiliano), sollevati a parecchi metri di altezza e trasportati verso l’interno, decine di massi accatastati neanche fossero stati di gommapiuma, blocchi levigatissimi che originariamente si trovavano sul fondo del mare ai piedi della falesia, scagliati e riordinati lungo precise direzioni sulla costa. Un’apocalisse che non si trasformò in tragedia solo perchè molto probabilmente all’epoca la zona era disabitata e di difficile accesso (Gagliano del Capo era relativamente lontano e riparato essendo in cima ad una piccola altura).
A questo proposito invito gli storici a spulciare un po’ negli archivi. Potrebbero scoprire qualche testimonianza importante al riguardo.
Le tracce più evidenti si trovano poco prima di raggiungere le Grotte delle Cipolliane seguendo l’omonimo sentiero, ma c’è un secondo ammasso di bianchi massi levigati noto probabilmente a tutti coloro che frequentano la zona della Chiancareddha, di cui adesso conosceranno l’origine.
Giunti a questo punto, proviamo a visualizzare, seppur in maniera molto approssimativa con un fotomontaggio, cosa significherebbe un’onda di tsunami di 10 metri di altezza diretta verso l’insenatura del Ciolo, prendendo come riferimento il ponte che è a circa 25 metri sul livello del mare.
Adesso riflettete un attimo. Se nel caso dello tsunami del 1743 alla fine si è ridotto tutto ad una devastazione e ridefinizione di alcuni tratti di costa rocciosa, provate ad immaginare cosa significherebbe un evento di tale portata oggi, soprattutto in estate, quando in prossimità del mare vivono o villeggiano decine, se non centinaia, di migliaia di residenti e turisti. Si potrebbe pensare che con le attuali tecnologie saremmo in grado di gestire una situazione di questo tipo, ma non è così. Nessuno è in grado di prevedere quando ci sarà il prossimo spaventoso terremoto nel Canale d’Otranto in grado di generare uno tsunami. L’unico strumento che abbiamo a disposizione è essere consci del pericolo ed adoperarci per ridurre al minimo i rischi conseguenti.
Domenico Licchelli – 2014
Per saperne di più:
- Boulder accumulations produced by the 20th of February, 1743 tsunami along the coast of southeastern Salento (Apulia region, Italy) G. Mastronuzzi, C. Pignatelli, P. Sansò, G. Selleri – Marine Geology 242 (2007)