La ISS, la nostra casa nello Spazio – Margherita Maglie

La ISS transita nel cielo sopra il Faro di Santa Maria di Leuca

Spesso e volentieri confusa con la casetta volante di un extraterrestre curioso, la ISS, per esteso International Space Station, non ha un gran bisogno di presentazioni per gli appassionati di astronautica, ma merita di esser raccontata, almeno in breve, anche a coloro che, come è successo a me qualche anno fa, credono che una navicella spaziale aliena sia rimasta incastrata nell’orbita terrestre. Si tratta di una sorta di “casa” orbitante a circa 360 km dalla Terra, grande quanto un campo da calcio, dedicata essenzialmente a ricerche di carattere scientifico e tecnologico, come gli esperimenti relativi alla microgravità, di cui ci occuperemo più avanti. La sua velocità media è di quasi 28.000 km/h e compie 15.72 orbite (quasi circolari) al giorno, perdendo quotidianamente, a causa dell’attrito atmosferico, 103 m di quota, che son poi recuperati una volta l’anno tramite l’ausilio di due motori principali.

Il primo modulo della Stazione Spaziale fu lanciato nel 1998, dopo che sedici Nazioni, tra cui l’Italia, si accordarono per collaborare ad un progetto grandioso, sia dal punto di vista del progresso scientifico che dal punto di vista economico, oltre che esempio mirabile di collaborazione internazionale. Quantificando “grandioso” , come ha già fatto per noi Herman Bondi, ex direttore generale dell’Organizzazione europea per la ricerca spaziale, ci accorgiamo di come l’abitudine a contare i milioni di miliardi in termini di denaro, senza percepire il peso di ciò di cui si sta parlando, sia la causa principale di alcune asserzioni insensate, prima tra tutte “Questa inutile ricerca spaziale, quanto ci costa!”. Tanto per avere un’idea, la spesa annuale pro capite dedicata al programma spaziale è di circa 20 dollari. Per avere un confronto, invece, si pensi che i soli USA investono fino a 400 dollari pro capite in armamenti militari.

La ISS è un concentrato di tecnologia. Con oltre 1000 ore di lavoro di assemblaggio e di passeggiate spaziali alle spalle, si stima che sarà operativa fino al 2028, continuando ad alimentarsi tramite i pannelli fotovoltaici posizionati esternamente sull‘ITS, Integrated Truss Structure, che convertono l’energia solare in corrente elettrica. L’abitabilità all’interno non è meno complessa da gestire: oltre ad un sistema GPS per il controllo dell’altitudine e a dei giroscopi per il controllo dell’orientamento, la Stazione è dotata di un sistema di supporto vitale che monitora le condizioni atmosferiche, la pressione, il livello di ossigeno e mantiene tali parametri su valori adeguati alla sopravvivenza degli astronauti, ricicla i fluidi provenienti dai servizi igienici e condensa il vapore acqueo. L’anidride carbonica viene rimossa dall’aria da un apposito sistema (Vozdukh), mentre tutti gli altri prodotti umani (il sudore ad esempio) sono filtrati tramite il carbone attivo; quest’ultimo infatti assorbe la maggior parte delle sostanza organiche e consente quindi la depurazione degli aeriformi. IssL’Ossigeno, invece, è prodotto tramite l’elettrolisi dell’acqua, ossia la scomposizione dell’acqua tramite il passaggio di corrente elettrica. I rifiuti solidi, trattati a parte, sono raccolti in sacchetti individuali e smaltiti nel veicolo Progress. La vita dell’astronauta è in questo senso abbastanza sacrificata: l’acqua a bordo infatti è un bene prezioso e per l’igiene quotidiana ogni passeggero ha a disposizione articoli limitati come salviette umidificate, shampoo a secco e dentifricio commestibile. Il cibo è refrigerato o in scatola e la dieta è prescritta prima della missione. Si presta molta attenzione agli alimenti friabili che potrebbero intasare i filtri con le briciole e le bevande, per lo stesso motivo, sono aspirate tramite cannuccia.

La giornata di un astronauta a bordo della ISS inizia presto: la sveglia è alle 06:00 del mattino, sincronizzata con il Coordinated Universal Time, orario del fuso di Greenwich. Si lavora circa dieci ore in un giorno feriale e cinque ore il Sabato, dedicando al riposo solo il tempo rimanente. I nostri inviati lassù si occupano principalmente di ricerca medico-biologica, di test sull’ elettromagnetismo, sulla robotica e sul comportamento di combustibili e fluidi nello spazio. Questa piattaforma scientifica, infatti, permette ai ricercatori di tutto il mondo di impiegare il proprio talento con esperimenti innovativi che non potrebbero essere realizzati in nessun altro luogo. Per quanto riguarda la medicina, ad esempio, è stato possibile studiare e comprendere  i meccanismi di alcuni processi fisiologici altrimenti mascherati dalla gravità e lo sviluppo di nuove tecnologie mediche e protocolli guidati dalla necessità di sostenere la salute degli astronauti. I progressi nella telemedicina, i sistemi di risposta allo stress psicologico, l’alimentazione, il comportamento delle cellule, e la salute ambientale sono solo alcuni esempi dei benefici che sono stati ottenuti dall’ ambiente unico offerto dalla microgravità della stazione spaziale. La microgravità sembra dunque rendere fertile il territorio all’innovazione, non solo medica. Immaginate la soddisfazione di un ingegnere che sperimenta il suo nuovo braccio robotico nell’ambiente per cui è stato progettato: un bambino con le mani piene di caramelle. Tuttavia è proprio la ZERO-G la causa dei problemi fisici più evidenti a bordo; la apparente e prolungata assenza di peso, infatti, indebolisce le ossa e i muscoli, generando atrofia e osteopenia; l’apparato circolatorio funziona in modo differente e si ha una ridistribuzione dei liquidi corporei. Per questo motivo è importante praticare costantemente attività fisica: a bordo si hanno a disposizione tapis roulant e cyclette a cui ci si vincola tramite corde elastiche. Lo stress del sistema vestibolare dell’orecchio, responsabile dell’ equilibrio, è l’ennesima causa di malessere per gli astronauti; quest’ultimo infatti provoca il famigerato senso di nausea, noto come “mal di spazio”, che tuttavia è destinato a svanire nell’arco di 72 ore.

La stazione spaziale è anche un occhio per l’osservazione globale e la diagnosi del nostro Pianeta: essa offre un punto di vista unico per osservare gli ecosistemi della Terra con apparecchiature manuali ed automatizzate. Gli equipaggi della Stazione possono osservare e riprendere con le telecamere le immagini di eventi che si svolgono in diretta e questa flessibilità rappresenta un vantaggio rispetto al supporto che possono offrire dei sensori installati su veicoli spaziali senza equipaggio, soprattutto quando si verificano eventi naturali imprevisti come eruzioni vulcaniche e terremoti. Le comunicazioni con la Terra avvengono tramite radiocollegamento, ossia tramite l’invio di segnali elettromagnetici appartenenti alle microonde dello spettro elettromagnetico, detta anche banda radio. Nelle comunicazioni essenzialmente si trasmettono i dati degli esperimenti scientifici, le procedure di aggancio con altre navette per il rifornimento o anche trasmissioni di audio e video tra astronauti e famiglie. Per questo motivo, l’ISS è dotata di molteplici sistemi di comunicazione, dei quali uno appositamente dedicato alla divulgazione scientifica per scuole e Università. La stazione spaziale, infatti, ha una capacità unica di catturare l’immaginazione di studenti e docenti di tutto il mondo e la presenza umana a bordo della stazione è stata la base per numerose attività educative volte a catturare l’interesse e accrescere la motivazione per lo studio delle scienze come per la tecnologia, l’ingegneria e la matematica. La sicurezza tuttavia non è solo questione di comunicazione: i lanci di Shuttle o in generale di moduli diretti verso la Stazione sono stati in passato il teatro preferito di incidenti mortali. Primo tra tutti, il disastro dello Space Shuttle Columbia avvenuto il 1º febbraio 2003, a cui son poi seguiti problemi legati a componenti della Stazione stessa (essenzialmente pannelli solari e sistemi di raffreddamento, questi ultimi costruiti dalla Boeing). Un’altra minaccia alla salute della nostra stazione orbitante è senz’altro l’esagerata quantità di detriti spaziali in orbita intorno alla Terra, i quali, impattando, sarebbero in grado di bucare i moduli pressurizzati e causare danni anche molto gravi. Il tutto è comunque monitorato da terra e l’equipaggio è avvertito con tempestività nel caso in cui un oggetto sia in rotta collisione; una comunicazione efficace consente infatti di intraprendere in tempo una manovra detta Debris Avoidance Manoeuvre (DAM) che utilizza dei propulsori per modificare l’altitudine orbitale della stazione ed evitare il detrito.

Dal 28 Maggio all’11 Novembre abbiamo avuto l’onore di essere rappresentati nella Missione “Volare” dal Maggiore Luca Parmitano, classe 1976. Nella sua permanenza a bordo della Stazione Spaziale, Parmitano ha orbitato intorno alla Terra ben 2656 volte, ma come ha dichiarato alla Stampa in un’intervista, al ritorno: “Ho sentito forte l’odore della terra bagnata e mi sono emozionato ai colori dell’alba”. A bordo sono stati condotti ben 30 esperimenti scientifici, mentre delle due passeggiate che erano state previste solo la prima è andata a buon fine, con una durata di poco più di sei ore. La seconda, invece,  è stata prontamente interrotta nei primi 90 minuti di operazione, a causa della presenza di acqua nel casco dell’astronauta. Il lungo addestramento e il grande autocontrollo hanno permesso a Parmitano il rientro sano e salvo all’interno della Stazione. Personalmente, trovo coraggiosa la scelta di diventare un astronauta. Da bambini attendiamo con ansia che qualcuno ci chieda “cosa vuoi fare da grande?”, da bambini non abbiamo paura dei progetti e del futuro. Poi, crescendo, dimentichiamo come si fa. Se un giorno dovessi essere un astronauta in pensione e qualcuno dovesse chiedermi “cosa vuoi fare da grande?”, vorrei rispondere ”l’astronauta.”: più felice di un bambino con le sue caramelle!

ISON – La (potenziale) cometa di Natale – Anna Galiano

Il Natale, la festività più amata della tradizione cristiana, narra che il Messia sia nato in una mangiatoia e che una cometa abbia mostrato ai Re Magi la via da seguire per raggiungerlo. Ma nell’anno 0 una cometa ha davvero attraversato i cieli di Betlemme? Innanzitutto, molti studiosi suppongono che Gesù sia nato negli ultimi anni del regno di Erode, pertanto la data della sua nascita deve essere collocata tra il 6 e il 4 a.C. ma in quegli anni sembra che non sia stato registrato alcun passaggio di comete. E allora la storia di questo oggetto astronomico denominato “Stella di Betlemme” da dove salta fuori? giotto scrovegniSi deve attribuire il merito di questa tradizione ad un famoso pittore italiano. Nel 1301 Giotto rimase così affascinato dal passaggio di una splendida cometa, oggi nota come la cometa di Halley, che decise di raffigurarla in uno dei suoi dipinti, “Adorazione dei Magi” sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. Questo affresco riproduce la nascita di Cristo avvenuta in una mangiatoia con i Re Magi al suo cospetto e, per la prima volta, una cometa nel cielo. Figura 1: Dipinto di Giotto “Adorazione dei Magi” nella Cappella degli Scrovegni (Padova). Quest’anno però, il 26 Dicembre, se diversi fattori lo consentono, gli abitanti dell’emisfero boreale potranno assistere al passaggio ravvicinato e spettacolare della cometa ISON. L’origine greca del nome κομήτης (kométes), “cometa” fa riferimento all’aspetto tipico di questo oggetto astronomico, che appare nel cielo come se fosse una lunga chioma di capelli. Un tempo la comparsa di una cometa era sinonimo di cattivo presagio, a tal punto che gli astronomi di corte rischiavano la vita se, malauguratamente non riuscivano a predire il passaggio di questi astri chiomati. Le comete però, popolarmente identificate anche come “palle di neve sporche” sono sostanzialmente un aggregato di frammenti rocciosi, silicati e composti ferrosi, amalgamati da ghiaccio d’acqua, ghiaccio secco, metano, ammoniaca ed altri gas congelati che descrivono attorno al Sole orbite ellittiche di elevata eccentricità. Si ritiene che questi oggetti di massa ridotta (non superiore a 1019 g) risiedano sia nella “Cintura di Kuiper”, regione del Sistema Solare esterno che si estende oltre l’orbita di Nettuno (tra 30 e 55 UA dal Sole) sia in una regione sferica che circonda l’intero Sistema Solare nota come “Nube di Oort”. Alcune teorie sostengono che le comete siano resti rocciosi della formazione del Sistema Solare, avvenuta 4.6 miliardi di anni fa. Questi frammenti molto probabilmente si sono formati nelle vicinanze del Sole, ma a causa di perturbazioni gravitazionali esercitate dai pianeti giganti sono stati spinti nella Nube di Oort che attualmente si presume ne contenga circa 2 trilioni. La Nube di Oort ha un raggio stimato di 50000 UA e spazia dalla regione esterna della Cintura di Kuiper fino ad un quarto della distanza che separa il Sistema Solare dalla stella più vicina, Proxima Centauri (distante circa 4 a.l.). Al seguito di perturbazioni dovute a stelle vicine o di interazioni con il disco galattico della Via Lattea, questi oggetti ghiacciati possono allontanarsi dalla Nube di Oort e raggiungere il Sistema Solare interno, in direzione del Sole. Si parla, così, di comete a lungo periodo (il tempo che impiegano per percorrere l’intera orbita è compreso tra 200 anni e 1 milione di anni ed oltre) e sono caratterizzate da orbite eccentriche, paraboliche o iperboliche. Solitamente il passaggio di queste comete viene osservato una sola volta poiché a causa della forte eccentricità della loro orbita escono dal Sistema Solare senza fare ritorno.  

Le comete a breve periodo (con un periodo orbitale minore di 200 anni) sono caratterizzate da orbite complanari a quelle dei pianeti. La cometa che ha il periodo più breve è la cometa Encke, pari a 3.30 anni e di questa sono stati registrati il maggior numero di passaggi. La sede di simili comete sembra essere la Fascia di Kuiper. Le orbite delle comete a breve periodo sono confinate nel Sistema Solare e presentano il punto di massima distanza dal Sole (afelio) coincidente con il raggio orbitale di alcuni pianeti del Sistema Solare esterno (Giove, Saturno, Urano, Nettuno). Queste particolari comete vengono identificate come la “famiglia” del pianeta in questione. Alcune comete a lungo periodo possono risentire dell’attrazione gravitazionale di un pianeta (soprattutto di Giove con una massa pari a 318 masse solari) che modifica l’eccentricità della loro orbita, facendole divenire delle comete a breve periodo. Di una cometa si possono distinguere chiaramente tre componenti: nucleo, chioma, coda. Il nucleo, con dimensioni che variano da qualche centinaio di metri fino a 40-50 Km ed oltre, ha una forma irregolare, è poroso, limitatamente denso ed ha un basso potere riflettente (infatti l’albedo che per un oggetto totalmente riflettente corrisponde a 1, in questo caso è prossimo allo 0, tipico di materiali che assorbono gran parte della radiazione come il carbone). Il nucleo è un agglomerato di roccia e polveri e per l’80% è costituito da ghiacci volatili come: ghiaccio d’acqua (presente in maggior quantità), ghiaccio secco, ossia anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), metano (CH4), monossido di carbonio (CO). Il ghiaccio d’acqua è strutturato in modo tale che gli atomi di idrogeno di 6 molecole d’acqua siano legati tra loro, tramite appunto il “legame idrogeno”. La struttura cristallina che ne deriva presenta una cavità all’interno dove possono risiedere molecole di monossido di carbonio, anidride carbonica, ammoniaca e metano. Per questo motivo tali strutture vengono chiamate clatrati, dal latino “claustrum”, ossia “gabbia”. Per la maggior parte del tempo le comete sono degli oggetti inattivi, ossia semplici frammenti di roccia e ghiaccio che viaggiano nel Sistema Solare seguendo la propria orbita, ma giunti in prossimità del Sole (a distanza di circa 3 o 5 UA) gli elementi ghiacciati che caratterizzano il nucleo cometario iniziano a riscaldarsi e a sublimare, generando una chioma. Questa, che può avere dimensioni da 30000 a 100000 Km, ha inizialmente una forma semi-sferica e diviene molto luminosa quando le particelle gassose di cui è composta interagiscono con la radiazione ultravioletta solare, giungendo all’eccitazione. Quando la cometa giunge al perielio la pressione di radiazione del Sole è così intensa che interagendo con i detriti ne modifica la traiettoria: in questo modo la struttura semi-sferica della chioma diviene una struttura “a goccia”. Se una cometa dovesse presentare una predominanza di ghiaccio di monossido di carbonio (CO) e non ghiaccio d’acqua la chioma inizia a formarsi già ad una distanza di 10 UA, poiché il CO sublima a temperature inferiori rispetto a quelle del ghiaccio d’acqua. Da misure spettroscopiche è emerso che la chioma presenta righe di emissione corrispondenti a diversi metalli, come Potassio (K), Sodio (Na), Calcio (Ca), Rame (Cu), Ferro (Fe). Sono state inoltre osservate, nella chioma, sostanze inconsuete la cui presenza è stata spiegata come la dissociazione di molecole più complesse, dette “molecole madri”, ad opera dell’interazione di queste con la radiazione solare. Infatti all’interno di una chioma possiamo distinguere: ·        

  • Chioma interna: composta da “molecole madri” appena rilasciate dal nucleo cometario, al seguito della sublimazione degli elementi volatili;

  • Chioma intermedia: costituita da nuove molecole, ottenute dalla dissociazione delle molecole madri, indicate come “molecole figlie”;

  • Chioma esterna (o chioma di Idrogeno): enorme nube di idrogeno neutro che può estendersi per milioni di Km di diametro.

Inoltre, la pressione di radiazione ed il vento solare provenienti dalla nostra stella spingono particelle di gas e polveri nella direzione opposta al Sole e pertanto la cometa sviluppa una coda. In realtà una cometa solitamente è composta da due code:

  • Coda di polveri (o di Tipo I): in media si estende per circa 10 milioni di Km ed è caratterizzata da una variazione di colore che gradualmente dal bianco luminoso del nucleo giunge ad un grigio-verdastro delle regioni più esterne. E’ la componente cometaria che maggiormente cattura l’attenzione del nostro occhio e dagli spettri è emerso che le polveri e i detriti rocciosi che compongono questa coda riflettono la luce solare, conferendole l’elevata luminosità che la caratterizza. Quindi lo spettro della coda di Tipo I è uno spettro a riflessione. La coda di polveri ha una forma ricurva, cosiddetta a “scimitarra” a causa sia della pressione di radiazione solare che devia i grani di polvere di dimensioni minori sia perché le particelle di polveri risentono dell’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole.

  • Coda di ioni (o di Tipo II): è composta da particelle cariche e disposta radialmente al Sole. Si estende per circa 100-300 milioni di Km ed ha una colorazione che varia dal blu elettrico in prossimità del nucleo, al celeste tenue nelle zone periferiche. La coda di ioni genera uno spettro di emissione poiché le particelle che la costituiscono tendono ad assorbire la radiazione solare (soprattutto la componente ultravioletta) e a riemetterla sotto forma di radiazione visibile (secondo il processo di fluorescenza). Gli ioni evidenziati negli spettri di emissione sono principalmente ione monossido di carbonio (CO+), ione cianuro (CN+), ione ossidrile (OH-), ione idronio (H3O+).

Lo sviluppo della doppia coda di una cometa, quella di particelle (in bianco) e quella di ioni (in blu) durante il passaggio vicino al Sole.

Fino al 1997 si riteneva che una cometa in avvicinamento al Sole potesse sviluppare solo le due code appena descritte ma l’astronomo italiano G. Cremonese, analizzando attentamente le immagini di una famosa cometa giunta al perielio quello stesso anno, Hale-Bopp, scoprì che in realtà si poteva generare una terza coda, composta principalmente da atomi di sodio neutro. Infine, nel 2006, tramite il satellite finalizzato alle sole osservazioni solari STEREO (Solar TErrestrial RElations Observatory) si apprese che alcune comete possono sviluppare un’altra coda, costituita da atomi di ferro neutro. La prima si estende per circa 40-50 milioni di Km, ha un colore giallo paglierino e presenta una forma leggermente arcuata poiché, trovandosi tra la coda di polveri e quella di ioni è influenzata in maniera limitata dalla pressione di radiazione. La coda composta da atomi di ferro neutro ha infine una forma ancor più debolmente ricurva. Le comete non devono necessariamente sviluppare le quattro code simultaneamente, dato che queste sono legate alla grandezza del corpo roccioso e ghiacciato e alla sua composizione. Però, in base al tipo di code che si generano si può stimare l’età di una cometa. Una cometa periodica quando giunge al perielio e interagisce con la radiazione solare perde parecchie tonnellate di materiale di cui è composta ad ogni singolo passaggio. Pertanto una cometa che presenta solo una coda di ioni (come è stato osservato per la cometa Hyakutake nel 1996) deve avere necessariamente un’età avanzata poiché i detriti rocciosi e le polveri si esauriscono, in genere, prima degli ioni.

La cometa periodica maggiormente nota è proprio quella avvistata anche da Giotto, che si muove di moto retrogrado nel Sistema Solare interno con un periodo di circa 76 anni. Nell’anno 1986 la cometa è giunta nel punto di minima distanza dal Sole (perielio) il 9 Febbraio ed il 14 Marzo la sonda europea Giotto si è avvicinata fino a circa 600 km di distanza dal nucleo, rivelando la forma di un ellissoide triassiale. Un’altra scoperta ad opera della sonda Giotto è stata quella di notare due getti di polveri e gas, provenienti da regioni limitate del nucleo cometario, in direzione del Sole: ciò ha fatto pensare che i materiali volatili dalla quale si genera la chioma e quindi le diverse code siano confinati all’interno del nucleo da una crosta solida. La vita delle comete non è illimitata: le comete periodiche passano più volte vicino al Sole e vengono gradualmente consumate finché non di disintegrano totalmente. Alcune comete a lungo periodo, invece, hanno un’orbita molto vicina al Sole (comete radenti o sun-grazing) e possono venir disintegrate già al primo tentativo di passaggio al perielio. Dopo questa breve digressione sulla natura degli affascinanti astri chiomati andiamo a conoscere la protagonista indiscussa di questo fine anno 2013, la potenziale cometa del secolo C/2012 S1, meglio nota come ISON. La scoperta è avvenuta il 21 Settembre 2013 da parte di due astronomi, il bielorusso Nevski e il russo Novichonok utilizzando un telescopio riflettore con un diametro d’apertura di 40 cm dell’International Scientific Optical Network in Russia (da cui proviene il nome ISON della cometa) e il programma automatizzato CoLiTech, utile per scoprire asteroidi. La denominazione C/2012 S1 è associata alla natura non periodica della cometa tramite la lettera “C”, 2012 è l’anno della scoperta ed S1 è legato al fatto che è stata la prima cometa a venir individuata nel Settembre di quell’anno. Calcolando i parametri orbitali di ISON si è compresa la sua orbita fortemente iperbolica, sostenendo l’ipotesi che questa cometa provenga dalla Nube di Oort. A causa della sua orbita e della natura non periodica, questa cometa potrà essere avvistata solo per una volta. Le osservazioni provenienti dall’Hubble Space Telescope (HST) e dallo Spitzer Space Telescope risalenti ai primi mesi del 2013, hanno evidenziato un nucleo cometario con un diametro compreso tra 0.4 e 1.2 Km e una chioma di 5000 km.  

La cometa ISON ripresa dall’HST qualche mese fa.  
Crediti: NASA, ESA, J.-Y. Li (Planetary Science Institute), e Hubble Comet ISON Imaging Science Team

Tutte le comete sono dirette verso il Sole e la ISON non fa eccezione: la data in cui la cometa si troverà alla minima distanza dalla nostra stella è il 28 Novembre. ISON transiterà dunque a circa 2 milioni di Km dal centro del Sole e considerando che il raggio solare è di 695000 Km, la cometa passerà a 1.16 milioni di Km dalla fotosfera della nostra stella. Tale distanza è molto ridotta, infatti ISON è una cometa radente e se il Sole dovesse presentare una forte attività la cometa potrebbe non sopravvivere a questo passaggio ravvicinato. E’ rimasta memorabile la cometa Lovejoy, che il 16 dicembre 2011 si è letteralmente gettata nella corona solare e, a dispetto di tutte le previsioni che la ritenevano ormai disintegrata, alcuni telescopi orbitanti l’hanno vista riemergere dall’atmosfera solare seppur privata di buona parte della sua coda originaria. Se anche ISON dovesse sopravvivere alla minaccia solare del 28 Novembre, potrebbe generare nei mesi successivi un brillante spettacolo nei cieli dell’emisfero boreale e potremmo pertanto osservare una cometa luminosa ad occhio nudo, evento che ebbe come protagonista la cometa Hale-Bopp e pertanto non si ripete dal 1997. Quest’ultima è rimasta visibile nel cielo per ben 18 mesi, raggiungendo una magnitudine pari a 0, fattori che hanno portato a battezzarla come la “Grande Cometa” del 1997.

This image of comet Hale-Bopp was obtained by Gerald Rhemann on 1997 March 27.78. He was using a 190/255/435mm Schmidt camera and Kodak Gold 400. The exposure time was 8 minutes.

Alcune previsioni sostengono che la cometa ISON potrebbe superare lo spettacolo della Hale-Bopp. Il 26 Dicembre la cometa percorrerà quel tratto di orbita che è maggiormente vicino alla Terra, distante solo 64 milioni di Km, ossia 200 volte la distanza Terra-Luna. Tra il 14 e il 15 Gennaio, invece, la Terra attraverserà una regione molto vicina all’orbita della cometa e alcune particelle emesse dalla ISON durante il suo passaggio potrebbero impattare l’atmosfera terrestre generando uno sciame meteoritico, quindi stelle cadenti. Tuttavia la portata dell’evento sarà probabilmente modesta poiché uno sciame di particelle si manifesta soltanto quando la Terra attraversa delle zone nella quale è avvenuto il passaggio della coda della cometa. Le famose “Lacrime di San Lorenzo” non sono altro che il risultato dell’attraversamento dell’atmosfera di polveri provenienti dalla coda della cometa Swift-Tuttle che sono disposte in quel tratto dell’orbita terrestre che il nostro pianeta percorre da metà Luglio fino ad Agosto. Pertanto le “Lacrime di San Lorenzo” non sono visibili solo il 10 Luglio, ma lo spettacolo si prolunga per più di un mese.

Il 1 Ottobre 2013 la cometa ha sfiorato Marte, con una distanza tra i due corpi di soli 6.5 milioni di Km. Come si sa il pianeta rosso è sottoposto ad una incessante indagine con lo scopo di rilevare sul suolo tracce d’acqua e pertanto mentre sul terreno marziano vi sono i rover Curiosity ed Opportunity, in orbita si trova la sonda MRO (Mars Reconossaince Orbiter). Quest’ultima ha lo scopo principale di fornire immagini dettagliate del suolo di Marte utilizzando la camera HIRISE e il 29 Settembre 2013 questa è stata puntata verso la cometa.  La ripresa della cometa che ne è emersa non è altamente dettagliata poiché HIRISE è stata studiata principalmente per fotografare il suolo marziano (la cometa appare come un punto sfocato al centro delle immagini e in movimento rispetto alle altre stelle) ma l’immagine risultante ha frenato comunque gli entusiasmi poiché la luminosità di ISON è molto minore rispetto a quella prevista. Dal 29 Settembre, pertanto, tutti gli appassionati di comete sono rimasti delusi da questo risultato temendo che la “cometa di Natale” non fosse così spettacolare come ci si aspettava. Le comete sono degli oggetti capricciosi e tutt’altro che prevedibili. Infatti fino all’11 Novembre la cometa ISON aveva lentamente raggiunto una magnitudine pari a 8 e pertanto era visibile solo con l’utilizzo di telescopi o con binocoli in cieli completamente bui, ma improvvisamente sembra si sia “svegliata”. Il 13 Novembre è stato registrato un forte aumento di luminosità, raggiungendo la quarta magnitudine e in più ha iniziato a sviluppare la coda di ioni. Ora la ISON è visibilissima ad occhio nudo (nella costellazione della Vergine poco prima dell’alba) nei cieli totalmente privi di inquinamento luminoso e la si può facilmente avvistare con il telescopio nelle aree urbane. Al repentino cambiamento della magnitudine non è stata ancora attribuita una spiegazione definitiva. Può essere dovuto ad un aumento dell’emissione degli elementi volatili della cometa poiché man mano che essa si avvicina al perielio è sottoposta ad una maggiore radiazione solare. Oppure la ISON potrebbe essersi frammentata. La certezza purtroppo manca. Pertanto rimane il dubbio se considerare questo improvviso aumento di luminosità come un fattore positivo o negativo: l’unico modo per saperlo è aspettare ed osservare ogni singola azione che la cometa ISON compierà. Una prima risposta potrebbe arrivare dalle riprese del telescopio spaziale SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) dell’ESA e della NASA che potrà monitorare costantemente la cometa appena entrerà nel campo di vista dei suoi strumenti. La cometa intanto ha sviluppato una lunga coda di oltre 16 milioni di Km.

La cometa ISON fotografata dall’astrofotografo Michael Jäger la notte del 10 Novembre 2013 nella quale si nota chiaramente la coda di polveri e la coda di ioni.  

Di seguito è riportata la curva di luce della cometa ISON relativa al 15 Novembre. Questo grafico comprende due diverse misurazioni. I cerchietti rossi rappresentano le magnitudini (misurate dal Minor Planet Center) associate a regioni limitate vicino la cometa. In questo modo si registra una più debole luminosità rispetto a quella che si otterrebbe se si misurasse la magnitudine dell’intera chioma. I triangoli blu, invece sono i risultati forniti dall’International Comet Quarterly (ICQ), che fanno riferimento alla magnitudine totale della cometa, cercando di stimare tutta la luminosità prodotta dalla ISON. Mentre le prime misurazioni possono variare da osservatore ad osservatore in base alle tecniche e strumentazioni utilizzate, queste ultime sono state ottenute da astronomi esperti che hanno fatto uso di telescopi oppure hanno confrontato ad occhio nudo la luminosità della ISON con quella delle stelle note. La curva nera è semplicemente un possibile modello che la luminosità della cometa potrebbe seguire. Si nota, però come le misure provenienti dall’ICQ seguono maggiormente il modello di curva tracciato, sebbene nella prima metà del 2013 entrambe le misurazioni sembravano essere in accordo. Questo è dovuto al fatto che nei primi mesi del 2013 la ISON era ancora distante da noi e presentava una dimensione angolare ridotta quindi anche le misure di magnitudine del Minor Planet Center coinvolgevano tutto l’astro chiomato e non regioni limitate. Ma attualmente la ISON è sempre più vicina al Sole e di conseguenza a noi, presentando dunque una dimensione maggiore e le due diverse misurazioni non sono più coincidenti. Attualmente la luminosità della ISON è meglio descritta dalle magnitudini totali (rappresentate dai triangoli blu). Dal grafico si evince inoltre, come i valori di magnitudine della ISON siano diminuiti rapidamente nell’arco di pochi giorni, rendendo quindi la cometa maggiormente luminosa. Sarà difficile valutare la luminosità raggiunta dalla cometa quando sarà in prossimità del Sole poiché verrà sovrastata dalla forte luce diurna.

Queste misure non predicono comunque quello che avverrà il 28 Novembre, pertanto non ci resta che attendere quel fatidico giorno ed osservare in diretta ciò che la ISON potrà subire. Verrà disintegrata dal forte campo gravitazionale del Sole o riuscirà ad evitare questo evento distruttivo, permettendoci così di ammirarla, da Dicembre (e per un paio di mesi successivi) in una lunga scia luminosa che solca i nostri cieli notturni? Come terza ipotesi potrebbe anche accadere che interagendo con il Sole, la cometa potrebbe perdere la propria coda ma riuscire ad allontanarsi conservando il nucleo e quindi la chioma. In questo modo, sempre dopo il 28 Novembre, potremmo avvistarla con una luminosità ridotta, subito dopo il tramonto. Da un punto di vista scientifico paradossalmente può essere molto più interessante osservare la distruzione di una cometa piuttosto che il suo affascinante passaggio poiché si potrebbe analizzare in maniera diretta la composizione chimica di regioni interne del nucleo di questo oggetto. Ricordiamo che le comete sono dei frammenti rocciosi e ghiacciati originatisi all’epoca della formazione del Sistema Solare e tramite la loro disintegrazione si potrebbero ottenere dettagliate informazioni sulle condizioni esistenti 4.6 miliardi di anni fa. La ISON tra l’altro, si avvicina al Sole per la prima volta e quindi non è stata alterata chimicamente da precedenti interazioni con la nostra stella. E’ pertanto un reperto di 4.6 miliardi di anni rimasto fortemente intatto da allora. In più si ritiene che le comete siano potenziali “portatrici di vita”: nel 2004 la sonda Stardust ha raggiunto la cometa Wild 2 raccogliendo le polveri provenienti dalla sua coda ed una volta analizzate si è scoperto che contenevano le molecole organiche ammine, precursori del DNA. Infatti il nucleo cometario non è soltanto composto da frammenti rocciosi ed elementi ghiacciati, ma vi sono anche sostanze chimiche organiche, come:

  • formaldeide (H2CO): questo composto è ottenibile tramite ossidazione catalitica del metanolo ed è utilizzato nella vita quotidiana come disinfettante;

  • acido cianidrico (HCN): può presentarsi sottoforma di liquido incolore oppure come gas ed è un veleno molto potente. Questo è essenziale nei processi di sintesi prebiotica (precedenti la comparsa di organismi viventi sulla Terra) di amminoacidi e purine, ossia basi azotate che costituiscono DNA ed RNA.

Si pensa che queste molecole organiche si siano formate nello spazio interstellare e siano state intrappolate nel nucleo cometario nei primi periodi della formazione del Sistema Solare. Nel 2013 è stata avanzata l’ipotesi che gli impatti di comete sulle rocce terrestri avvenuti miliardi di anni fa abbiano generato gli amminoacidi, dalla quale si sono formate le proteine. Quindi la vita sulla Terra potrebbe essere stata “portata” da quelle comete che hanno impattato sul nostro pianeta. Di certo queste risposte non si ottengono limitandosi ad osservare il passaggio della cometa ISON nel Sistema Solare. Però, d’altro canto, chi vuole perdersi lo spettacolo di un’enorme scia luminosa che si estende per gran parte del cielo notturno boreale? Questa è la previsione più fantastica riguardante la ISON che potrebbe rivelarsi ben più deludente anche se  la cometa riuscisse a transitare vicino al Sole senza venir disintegrata. Però, come già detto, le comete sono molto imprevedibili, quindi chi può dire cos’ha in serbo per noi la ISON?                            

What about ISON? – Anna Galiano

ISON, la (potenziale) cometa di Natale, la tanto acclamata cometa del secolo… “what about it”? Che fine ha fatto? Nel precedente articolo relativo a questo interessante astro chiomato, avevamo lasciato la cometa ISON in procinto di avvicinarsi al Sole, con la speranza da parte di molti, che riuscisse a sfuggire all’abbraccio potenzialmente mortale della nostra stella o quanto meno sopravvivere senza essere distrutta del tutto. In tal modo l’avremmo vista brillare nei nostri cieli nel periodo natalizio. Ma il passaggio ravvicinato della ISON al Sole, avvenuto il 28 Novembre scorso, non è stato così tranquillo come si sperava. Abbiamo conosciuto il carattere imprevedibile di questo corpo ghiacciato già nei mesi precedenti il perielio. A causa probabilmente di qualche perturbazione gravitazionale la cometa, circa 3 milioni di anni prima dell’anno 0, si è allontanata dalla nube di Oort nella quale risiedeva e ha intrapreso il proprio viaggio attirata dalla forza gravitazionale del Sole. Giunta nel Sistema Solare interno, fino all’11 Novembre 2013 la luminosità della cometa si era mantenuta al di sotto delle attese, raggiungendo l’ottava magnitudine per poi aumentare improvvisamente ed inspiegabilmente fino ad un valore di magnitudine pari a +4. Nelle ore che hanno preceduto il passaggio al perielio la ISON ha iniziato a ridurre la propria luminosità e giunta nel campo di vista del coronografo LASCO C2 a bordo della sonda SOHO (che monitora costantemente il Sole) si è notato che il nucleo cometario non era più ben distinguibile e pertanto la cometa poteva aver subito, se non del tutto, una parziale frammentazione. La coda, invece era rimasta abbastanza densa ed estesa, molto più delle code di altre comete radenti osservate in precedenza. Ma a causa della frammentazione del nucleo nelle ore precedenti il passaggio al perielio, le speranze di veder solcare i nostri cieli dalla ISON si sono spente ancor prima che la cometa raggiungesse il punto di minima distanza dal Sole. A tal proposito, la stessa Agenzia Spaziale Europea (ossia l’ESA, acronimo di European Space Agency) aveva ritenuto che la cometa fosse “morta”, che non ci fosse più alcuna speranza di vederla riemergere dall’atmosfera solare. L’ESA aveva così dichiarato la tragedia: “Comet ISON is gone”.  

Credit: ESA&NASA/SOHO/SDO – La cometa ISON ripresa dal coronografo LASCO C2.  

Il momento relativo al perielio non è stato registrato da alcuno strumento e pertanto non si sono potuti notare gli ulteriori effetti distruttivi che il vento solare, il suo calore e la sua pressione di radiazione hanno provocato alla cometa nel punto di maggior avvicinamento al Sole. Ma con grande sorpresa, dopo aver superato il momento critico, alcuni resti della ISON sono riemersi dalla zona di occultamento del coronografo LASCO C2. La ISON ci ha abituati, nei mesi precedenti, ai suoi “colpi di testa” e pur avendo inizialmente un nucleo di soli 1.2 Km, non è stata totalmente vinta dalla forza gravitazionale della nostra stella, molto più massiccia di questa piccola cometa. Quando la ISON ha attraversato la corona solare, parte della sua chioma polverosa e gassosa è stata bruciata da questa regione più esterna dell’atmosfera solare, nella quale si raggiungono temperature cinetiche di milioni di gradi. Alcune componenti della chioma sono sopravvissute e nelle 24 ore successive la coda ha assunto la forma di un ventaglio debolmente luminoso. Inoltre, nonostante la ISON avesse raggiunto una temperatura di 2700 °C in quel punto critico, qualcos’altro sembrava essere riuscito ad emergere dall’atmosfera solare. La stessa ESA, una volta analizzate le immagini che mostravano la “sopravvivenza” della ISON, la mattina del 29 Novembre, ha dovuto correggere quanto dichiarato la sera precedente, sostenendo che effettivamente la cometa non era stata distrutta completamente in questa prima fase. La ISON è stata perciò battezzata come “la cometa di Schrödinger” dall’astrofisico del Naval Research Laboratory, Karl Battams, in analogia al famoso gatto quantistico. Il paradosso del “gatto di Schrödinger” descrive un sistema costituito da un felino chiuso in una scatola d’acciaio, con della sostanza radioattiva e un’ampolla di vetro contenente del veleno. Se gli atomi della sostanza radioattiva si disintegrano, innescano un martelletto con cui si rompe l’ampolla facendo fuoriuscire il veleno. Se invece gli atomi non si disintegrano, il gatto è salvo. Poiché non si può osservare ciò che succede nella scatola per un dato periodo di tempo, il gatto in quell’intervallo stabilito è contemporaneamente vivo che morto in termini di stati probabilistici possibili. La ISON si è comportata in un modo analogo per qualche ora.   Questo evento inaspettato, però non ha permesso di riaccendere le speranze poiché da una prima analisi i residui della ISON erano costituiti soprattutto da polveri e cumuli di macerie che avrebbero potuto comunque disintegrarsi completamente nei giorni successivi. Il 30 Novembre si è registrato un calo di luminosità della cometa raggiungendo una magnitudine  di +7.5, ben al di fuori del limite di magnitudine alla quale è sensibile il nostro occhio (l’occhio umano è in grado di vedere oggetti con un valore massimo di magnitudine attorno a 6), senza possibilità pertanto di osservare quel che rimane della ISON ad occhio nudo. Gian Paolo Tozzi, astrofisico dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica), ha spiegato che ciò che  è sopravvissuto della ISON sono solo dei grani più massicci di polveri che non sono stati vaporizzati dalla radiazione solare e che pertanto continuano a viaggiare seguendo la loro traiettoria.

Nei giorni successivi la ISON è stata ripresa da altri strumenti che osservano e analizzano l’attività solare, come il LASCO C3, sempre a bordo della sonda SOHO di appartenenza della NASA/ESA e successivamente dall’Heliospheric Imager 1 (HI-1), quest’ultimo a bordo del satellite della NASA, STEREO-A. La cometa sembra aumentare la propria luminosità in quest’ultimo strumento, suscitando non poca sorpresa. Ma in realtà ciò è dovuto ad una migliore sensibilità dei rivelatori di HI-1 rispetto a LASCO C3. Infatti mentre LASCO C3 ha una magnitudine limite alla quale è sensibile pari a +8.5, HI-1 raggiunge magnitudine limite di +11.5. La ISON è rimasta nel campo di vista di HI-1 fino al 7 Dicembre ma già l’immagine del 3 Dicembre la mostra come una diffusa nube polverosa, priva di un’evidente condensazione centrale. L’ipotesi più accreditata implica la totale disintegrazione del nucleo e che pertanto della cometa ISON sia rimasto solo un mucchio di polvere. Come alternativa, la ISON può attualmente essere costituita da piccoli frammenti rocciosi, ciascuno dei quali sottoposto ad una sublimazione dei materiali ghiacciati che lo compongono. Tale sublimazione, se sta avvenendo, è al di sotto dei limiti di magnitudine della quale sono dotati SOHO e STEREO, e per questo non visibile da tali strumenti.  Una domanda posta da molti è: se il nucleo cometario esiste ancora, quanto potrà essere grande? Per risolvere questo ulteriore dubbio e quindi avere informazioni sull’eventuale presenza di un nucleo, sulle sue dimensioni e su una possibile attività cometaria, bisogna aspettare i risultati di un tentativo di ripresa del Telescopio Spaziale Hubble (HST). Di certo, dovremo aspettarci un nucleo ben più piccolo di quanto non fosse già inizialmente anche perché attualmente non si nota più alcun indizio evidente di resti cometari.  

ISON non si è dimostrata all’altezza delle aspettative, non ha soddisfatto le aspettative di “cometa di Natale”, né tantomeno quella di “cometa del secolo” ma di certo non ha lasciato il Sistema Solare in silenzio. Quei pochi frammenti rocciosi e le ceneri rimaste, continuano a forniscono un importante oggetto di indagine ai planetologi che dallo studio della frantumazione del nucleo cometario originario possono dedurre importanti informazioni sulla composizione chimica della cometa, sulla sua struttura interna e sui processi che avvengono in quei corpi ghiacciati provenienti da una regione fredda e remota del Sistema Solare, distante più di 55 UA dal Sole, che è la Nube di Oort. Forse fino alla fine potrà riservarci qualche altra sorpresa. Intanto ricordiamola com’era prima del catastrofico passaggio al perielio, con il suo nucleo di 1.2 Km e con una luminosa coda che attraversava la costellazione della Vergine nei primi giorni di Novembre. Anche se l’avventura della ISON non è stata eclatante come ci aspettavamo, è stata comunque ricca di colpi di scena e ci ha fatto sognare per qualche mese. La cometa ISON ha raggiunto il perielio il 28 Novembre 2013 per la prima volta e qualunque residuo esista ancora non avrà più modo di ripetere tale evento a causa dell’orbita iperbolica di cui è caratterizzata. Alla luce di tutte le evidenze acquisite finora si può solo dire “Addio COMETA ISON”.