La voce del mare, ovvero io e le balene – Vincenzo Zappalà

La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro mondo, parla la nostra lingua.

Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate tecnologie, ma  rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel non esserne capace.

Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle Hawaii.  Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi racconto come è successo.

Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole, profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in una “nursery” di livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare lo stesso per i nostri neonati.

Astronaut photograph ISS038-E-32755 was acquired on January 18, 2014 is provided by the ISS Crew Earth Observations experiment and Image Science & Analysis Laboratory, Johnson Space Center

Maui Island – Astronaut photograph ISS038-E-32755 was acquired on January 18, 2014 is provided by the ISS Crew Earth Observations experiment and Image Science & Analysis Laboratory, Johnson Space Center

I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i sistemi di cui sono capaci.  Per loro quel confine è superabile e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto di apparire direttamente agli abitanti della terra e di farlo con una costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.

Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella, limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde. Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però. Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.

La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando. No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano. Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più importanti e prestigiosi.

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Penso con disgusto e con compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari. Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici del mare.

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Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo. Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu. Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni. Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista logico e fisico.

Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un “Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro, cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa. Potrò mai ringraziarle abbastanza?

P.S.: aggiungo qualche foto personale, di bassa tecnologia. Non mi avvilisco, però, più di tanto,  dato che non si fanno foto ai suoni e alle chiacchierate personali e intime. Se ce ne fosse bisogno, servono solo a ricordare, a stuzzicare la memoria e a rivivere momenti magici.

Vincenzo Zappalà – 2014

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More….

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Astronomiæ Pars Optica – Livio Ruggiero

Breve storia dell’ottica (astronomica) antica, ma non solo

Giorgio Abetti nella sua Storia dell’Astronomia del 1949 scrive:

“La storia dell’Astronomia si può ordinare in grandi periodi legati alla storia e alla civiltà dei diversi popoli della terra, essi possono prendere il nome di astronomia antica, medioevale e moderna, intendendo che fra le ultime due ha avuto luogo una fondamentale riforma dopo la quale l’astronomia moderna in circa quattro secoli ha fatto, fino al giorno d’oggi, enormi progressi quali, nei precedenti periodi, non si sarebbero mai potuti immaginare.”

L’astronomia antica può farsi risalire probabilmente a circa 4000 anni prima di Cristo, ad opera di popolazioni dell’Asia centrale, dalle quali si sarebbe poi diffusa, nel giro di un migliaio di anni, agli Egiziani e agli Indiani, per passare poi ai Babilonesi e agli Ebrei fino ad Alessandro Magno.

Solo con i Greci, però, si può dire che l’Astronomia acquisti le caratteristiche di una disciplina scientifica, grazie a personaggi come Talete, Anassimandro, Pitagora, Platone e Aristotele, per raggiungere il maggior fulgore nella Magna Grecia con Archimede e alla Scuola di Alessandria con Aristarco da Samo, Eratostene ed Ipparco, che può essere considerato il più grande astronomo dell’antichità, i cui lavori sono stati tramandati e completati da Tolomeo, tre secoli dopo. L’Almagesto, la famosa opera in tredici libri di Tolomeo, contiene praticamente tutte le conoscenze astronomiche sviluppatesi da Ipparco in poi arricchite soprattutto dai metodi matematici e geometrici usati da Tolomeo.

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La Scuola di Atene di Raffaello Sanzio. L’uomo di spalle, con la corona, che regge un globo terracqueo in mano è Claudio Tolomeo

Secondo Schiaparelli il periodo dell’Astronomia antica si può considerare concluso intorno al 650 dopo Cristo.

L’Astronomia medievale copre il periodo che va dal 500 al 1500 dopo Cristo, con un praticamente nullo contributo dei romani e con un fondamentale apporto degli Arabi, ma fino a Copernico il contributo di tutti è sostanzialmente una ripetizione dell’Almagesto di Tolomeo.

Aspetti particolari della storia dell’Astronomia sono costituiti dalle ricche tradizioni assiro-babilonesi ed egiziane, da quelle di scarso livello, per motivi religiosi, degli Ebrei e dei Fenici, da quelle essenzialmente leggendarie di Indù e Cinesi e da quelle sorprendenti dei Maya e di altre popolazioni dell’America Centrale.

Con Copernico, considerato il continuatore della scuola greca, Tycho Brahe, Keplero, Galileo e Newton comincia la nuova era che può essere ritenuta a buon diritto quella della riforma dell’Astronomia.

Fino all’invenzione del cannocchiale di Galileo gli strumenti utilizzati per l’Astronomia furono essenzialmente le sfere armillari, l’astrolabio e il quadrante. Con questi strumenti, noti già ai Greci e perfezionati nel Medioevo soprattutto dagli Arabi, si misuravano la posizione delle stelle, le ore del levare e del tramontare del sole e delle stelle ed altre grandezze legate alla struttura del cielo, alcune determinanti per le osservazioni astrologiche.

Dopo Newton si può fissare l’inizio dell’era moderna, in cui, grazie agli sviluppi delle tecnologie osservative (cannocchiale, telescopio) e delle idee fondamentali della Fisica (legge di gravitazione universale) l’Astronomia muoverà passi da gigante nella conoscenza dell’Universo, che conosceranno un ulteriore fondamentale incremento con la scoperta dell’analisi spettrale (Kirchhoff, 1859), che ha permesso di avviare lo studio della costituzione chimica dei corpi celesti.

Il 24 agosto del 1609 Galileo scrisse una lettera al Doge Leonardo Donato presentando il cannocchiale che aveva realizzato perfezionando un “occhiale” realizzato in Olanda, che permetteva di vedere ingrandite le cose lontane come se fossero vicine. Si trattò dell’evento che diede il via al meraviglioso sviluppo dell’Astronomia, ma fu anche l’inizio del miglioramento tecnologico delle lenti, che avrebbe portato alla costruzione di strumenti ottici sempre più perfezionati, consentendo lo sviluppo altrettanto meraviglioso delle altre scienze, e al miglioramento degli occhiali, tanto importanti per risolvere i problemi della visione.

Fin dall’antichità filosofi e scienziati hanno cercato di rispondere alle domande: perché vediamo? come avviene il processo che ci mette in relazione con il mondo esterno attraverso i nostri occhi?

Nell’antica Grecia e negli ambienti culturali che gravitavano attorno ai suoi uomini di pensiero vennero elaborate alcune teorie, che oggi ci fanno sorridere ma che furono in auge, anche se con qualche aggiustamento, fino a quando, solo pochi secoli fa, non cominciarono a migliorare le conoscenze sulla natura della luce, sul suo modo di propagarsi nello spazio e nei mezzi materiali e sul funzionamento fisico-fisio-psicologico del sistema occhio-cervello. Le teorie principali furono tre, legate alle grandi scuole di pensiero dell’epoca: la teoria delle eidole, la teoria dei raggi visuali, la teoria platonica.

Teoria delle eidole – Dall’oggetto osservato si staccano delle immagini (eidole) che vanno verso l’occhio, rimpicciolendosi man mano in modo da poter entrare nella pupilla, portando alla psiche le informazioni sulla forma e i colori degli oggetti. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola atomistica fondata da Leucippo (V secolo a.C.), che ebbe Democrito tra i suoi seguaci più illustri.

Teoria delle eidole

Teoria delle eidole

Teoria dei raggi visuali  – Dall’occhio partono dei raggi che vanno ad analizzare l’oggetto osservato e ritornano nell’occhio portando le informazioni raccolte. Questa teoria nacque nell’ambito della scuola fondata da Pitagora (V secolo a. C.).

Teoria dei raggi visuali

Teoria dei raggi visuali

Teoria platonica Dall’occhio e dall’oggetto partono due fluidi che incontrandosi danno luogo alla visione. Secondo Platone (427 a. C. – ca. 347 a. C.) dagli oggetti parte un fluido speciale, che egli chiama “fuoco”, che si incontra con la “mite luce del giorno” che parte dai nostri occhi. Solo se i due fluidi, incontrandosi, si “uniscono strettamente” si ha la sensazione visiva.

Teoria platonica

Teoria platonica

Contemporaneamente a quello della conoscenza dei meccanismi della visione altri problemi, senz’altro più gravi per la gente comune, richiedevano delle soluzioni: quelli posti dai difetti visivi, che si potevano acquisire dalla nascita o per l’avanzare dell’età, escludendo naturalmente la cecità.

Per la soluzione di questi problemi si sarebbe dovuto attendere quando negli ultimi secoli del primo millennio dopo Cristo, forse casualmente, qualcuno alle prese con la fabbricazione dei dischi di vetro che, collegati tra loro con un nastro di piombo, erano utilizzati nelle finestre, si accorse che attraverso alcuni di essi, abbastanza trasparenti, si potevano vedere ingranditi gli oggetti retrostanti. I dischi di vetro venivano prodotti prelevando con il cannello da soffiatore una massa di vetro fuso che veniva trasformata in disco ruotando energicamente il cannello. Lo spessore del disco era massimo al centro, per la connessione con il cannello, e diminuiva verso il bordo.

Era nata la lente!

Pare che la denominazione di lente derivi dal popolare lentecchia, che sta per lenticchia, legume che è proprio “a forma di lente”.

In realtà c’è da chiedersi come mai si sia atteso tanto per intravedere la soluzione, dal momento che già da tempo si conosceva la proprietà di ingrandimento dell’acqua e di sostanze trasparenti come il cristallo di rocca o varie pietre preziose. Basti pensare che nel I secolo dopo Cristo il filosofo Lucio Anneo Seneca scriveva:

“…le lettere, anche piccole e confuse, appaiono ingrandite e chiare attraverso un globo pieno di acqua.”

Comunque siano andate le cose si pensa che solo intorno al 1286 siano stati inventati gli occhiali per correggere con lenti convesse la presbiopia, che affligge le persone anziane, mentre si dovette aspettare ancora per quasi due secoli per poter correggere con lenti concave la miopia, che affligge anche i giovani.

Anche se qualcuno attribuisce erroneamente al fiorentino Salvino degli Armati l’invenzione degli occhiali, fino ad oggi è stato possibile solo definire che la data dell’invenzione deve essere posta intorno al 1286, non si può però non tener conto che il filosofo e scienziato inglese Ruggero Bacone (1214-1292) debba essere considerato quasi certamente come il primo ad aver scritto della possibilità di correggere con le lenti i difetti della visione:

“Se un uomo guarda le lettere o altre cose minute per mezzo di un cristallo o di un vetro o di altro perspicuo sovrapposto alle lettere, e sia minore della sfera la parte la cui convessità è rivolta verso l’occhio, e l’occhio sia in aria, vedrà le lettere molto meglio e gli appariranno maggiori … E perciò questo strumento è utile ai vecchi e a quelli che hanno la vista debole, perché essi possono vedere la lettera, per quanto piccola, di sufficiente grandezza.”

La storia degli occhiali è una storia molto tormentata, perché tormentata è la storia delle lenti, la cui fabbricazione avveniva levigando a mano dei pezzi di vetro di qualità molto scadente, per cui il loro uso, pur risolvendo in parte i problemi posti dai difetti visivi, era reso difficoltoso dalle aberrazioni, che distorcevano le immagini colorandone inoltre i bordi con tutti i colori dell’arcobaleno.

I primi occhiali erano costituiti da due lenti unite da una montatura inizialmente snodata e poi “a stringinaso”, di metallo, di cuoio o di osso. Gli occhiali, le cui due lenti difficilmente potevano avere esattamente le stesse caratteristiche, non erano prescritti da un medico dopo l’analisi della vista e non erano venduti da negozi specializzati, tutte cose di là da venire, ma venivano acquistati al mercato, scegliendo sulla bancarella del venditore di occhiali quelli che meglio si adattavano alla vista dell’acquirente.

Fino all’avvento del Rinascimento le lenti, per il fatto di fornire una visione distorta degli oggetti, furono per così dire “snobbate” dagli scienziati, che le consideravano “ingannevoli e fallaci”, anche se alcuni di essi dovettero adattarsi all’uso degli occhiali. Ecco cosa scrissero di esse due studiosi molto famosi:

Girolamo Fracastoro (1478-1553) “Le lenti per gli occhi sono fabbricate, alcune in modo da far apparire volti deformi, altri ironici, altri di aspetto più turpe; ce ne sono alcune che fanno apparire ogni cosa colorata, altre di un anello posto nel mezzo di un banco mostrano una dozzina di cerchi, così uguali che, se uno vuole individuare quello vero, si inganna, con grande divertimento dei presenti.”

Girolamo Cardano (1501-1576) “… gli specchi piani, concavi e convessi e le lenti rimandano immagini false.”

Ma era tanto l’entusiasmo dei “non scienziati” per uno strumento che, nonostante i suoi difetti, attenuava i problemi di una vista difettosa, che spesso gli artisti lo inserirono in situazioni storicamente o fisicamente impossibili. In un quadro del 1472 di M. Schongauer rappresentante la morte della Madonna uno dei discepoli usa un paio di occhiali, in un ritratto, dipinto nel 1518 da L. van Leyden, S. Girolamo porta gli occhiali pur essendo morto otto secoli prima della loro invenzione e in un quadro rinascimentale raffigurante la pesca dei coralli i pescatori si immergono portando sul naso gli occhiali a stringinaso, che sarebbero stati di nessun giovamento sott’acqua.

Death of the Virgin, M. Schongauer

Ci furono però anche studiosi che indagarono a fondo sul comportamento della luce attraverso le lenti, riconoscendone l’utilità per la correzione dei difetti visivi, gettando le basi per lo studio scientifico del loro funzionamento.

Di particolare importanza sono i contributi dati da Leonardo da Vinci, Francesco Maurolico, Giovan Battista Della Porta, Giovanni Kepler. Leonardo da Vinci (1452-1519) diede fondamentali contributi allo sviluppo dell’ottica e pare abbia fabbricato personalmente delle lenti, con l’intenzione di costruire degli occhiali “da vedere la luna grande”. Il benedettino Francesco Maurolico (1494-1575) si interessò in maniera molto approfondita delle lenti, sottolineandone l’importanza per correggere i difetti della vista. I suoi scritti sono forse i primi in cui vengano trattate le lenti divergenti:

“… i raggi visivi fatti passare attraverso un corpo trasparente convesso da ambedue le parti convergono presto in un piccolo spazio; così passando attraverso un corpo trasparente concavo da ambedue le parti divergono …”

Giovan Battista Della Porta (1535-1615), dalla personalità fantasiosa e sempre preoccupato di mettersi in mostra, fu il primo a tentare di costruire una teoria organica sulle lenti:

“La trattazione delle lenti è cosa difficile, meravigliosa, utile, piacevole, mai da alcuno finora tentata: è immenso il beneficio di coloro che sono quasi privi della vista e che, per mezzo delle lenti, allungano la vista a distanza grandissima, di tutto ciò non conoscendo la causa. Noi, essendoci procurata questa conoscenza, abbiamo raggiunto effetti così meravigliosi da poter distinguere anche cose minutissime portate a notevole distanza.”

Quando Galileo rese pubblica la descrizione del suo cannocchiale, Della Porta, in una lettera al presidente dell’Accademia dei Lincei Federico Cesi, lo accusò immediatamente di avergli rubato l’idea, prendendola da uno dei suoi libri.

La storia del cannocchiale è piuttosto tormentata, la sua invenzione non può essere attribuita interamente a Galileo, dal momento che le idee di uno strumento per vedere gli oggetti lontani sono databili fin dal XIII secolo (Ruggero Bacone) e alcuni suggerimenti per realizzarlo si trovano già a metà del Cinquecento in scritti di studiosi italiani (Giovan Battista Della Porta, fra Paolo Sarpi, Ettore Ausonio) e inglesi (John Dee, Thomas Digges, William Bourne).

Il primo cannocchiale presentato da Galileo al Senato Veneto nell’estate del 1609, con un potere di ingrandimento di 9 volte, era il miglioramento di un “occhiale” olandese, con solo tre ingrandimenti, che era pervenuto a Galileo l’anno precedente.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

Galileo presenta al Doge e al Senato Veneto il suo cannocchiale. Affresco di Luigi Sabatelli.

D’altro canto pare che lo strumento olandese fosse in realtà una copia di uno inventato in Italia nel 1590 e poi arrivato in Francia. Contemporaneamente in Inghilterra Thomas Harriott utilizzava un cannocchiale da sei ingrandimenti.

Ma qual è allora l’importanza del ruolo svolto in tutta la storia da Galileo, che oltretutto non era neanche, per fortuna, uno studioso di ottica? Il “per fortuna” si deve agli storici della Scienza (per es. Vasco Ronchi), per i quali Galileo poté costruire e utilizzare il suo cannocchiale senza essere impedito dai preconcetti e dalle prevenzioni che erano propri di tutti gli studiosi di ottica del tempo. Preconcetti e prevenzioni che non avrebbero mai portato alla realizzazione dello strumento e, soprattutto, non avrebbero mai consentito di dare valore scientifico alle osservazioni fatte con esso.

Galileo affrontò quelli che erano i problemi centrali della costruzione dello strumento: la qualità del vetro e la fabbricazione di lenti con ridotte aberrazioni e sufficiente potere di ingrandimento. Galileo stimolò le vetrerie di Venezia e di Firenze a realizzare vetri migliori e curò personalmente la fabbricazione delle lenti, con l’aiuto anche del suo grande allievo Evangelista Torricelli. Alla fine del 1609 Galileo realizzò un cannocchiale con un potere di ingrandimento di 20 volte, che gli consentì di “allungare lo sguardo” ben al di là della Luna.

Era iniziata un’era di spettacolari progressi non solo nell’Astronomia ma in tutte le scienze.

Nel marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius, che può essere considerato lo scritto fondante dell’Astronomia moderna. L’opera si apre con la descrizione dell’invenzione del cannocchiale, cui fanno seguito le prime scoperte meravigliose effettuate mediante il suo uso.

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All’osservazione della superficie lunare e a quelle della costellazione di Orione e delle Pleiadi, fanno seguito quelle della Via Lattea e delle nebulose. Ma la più meravigliosa delle scoperte, fatta con l’ausilio dell’affascinante strumento, è quella dei quattro satelliti di Giove, quattro punti luminosi che Galileo chiamò “Pianeti Medicei”, in onore della famiglia di Cosimo II.

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

M24, la grande nube stellare immersa nella Via Lattea col suo contorno di nebulose ed ammassi stellari

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La Luna attorno al primo quarto

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La pubblicazione del Sidereus nuncius ebbe l’effetto di un grosso sasso lanciato in uno stagno (quello dell’Ottica) in quiete da 20 secoli. Nel giro di poche settimane circolarono tra le Corti, le Ambasciate e gli ambienti universitari di tutta Europa decine e decine di lettere, poche a favore di quanto scriveva Galileo e molte, anche con toni violenti e decisamente offensivi, contro le meraviglie che egli descriveva di aver visto attraverso il suo cannocchiale, qualificate come illusioni e inganni visivi causati da uno strumento che, molti dicevano, era stato da lui copiato da altri costruiti in precedenza. Un fatto sorprendente considerando il tempo che occorreva all’epoca perché quelle lettere, spesso addirittura stampate in più esemplari, viaggiassero non solo tra Venezia, Firenze, Roma, Padova, Perugia, Pisa e Napoli, ma anche tra Italia, Francia, Germania, Polonia, Paesi Bassi e Inghilterra.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo.

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm
Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Per conoscere in maniera avvincente e dettagliata il “polverone” suscitato da Galileo negli ambienti scientifici e filosofici dell’epoca si può leggere il bel libro di Vasco Ronchi “Galileo e il suo cannocchiale” (Einaudi, 1964).

Il vero contributo allo sviluppo dell’ottica moderna dato da Galileo con il suo cannocchiale è stato l’aver affermato e provato che quanto si vedeva attraverso di esso era reale, spazzando così via tutti i preconcetti e le prevenzioni sull’uso delle lenti, che costituivano la caratteristica saliente dell’ottica che si era consolidata fino ad allora.

Con il cannocchiale di Galileo si apre l’era dell’uso delle tecnologie ottiche per la costruzione di strumenti per uso scientifico.

L’Astronomia compie un balzo in avanti, che verrà potenziato ulteriormente dal telescopio di Newton, ma sono anche le Scienze Naturali e le Scienze Mediche ad imboccare, con la costruzione del microscopio, una strada che le porterà nel giro di due secoli agli sviluppi che conosciamo.

Giovanni Keplero (1571-1630), oltre che astronomo, fu uno studioso profondo di ottica, i cui contributi allo sviluppo di questa scienza sono ancora validi oggi. Partecipò in modo determinante al dibattito sulle scoperte di Galileo e sull’uso del suo cannocchiale, in modo critico all’inizio ma sviluppando la teoria scientifica dello strumento decretando alla fine la piena vittoria del Fiorentino sulle idee del passato. A lui si deve la denominazione di “fuoco”, per il punto in cui converge un fascio di raggi paralleli che attraversi una sfera di vetro, e lo studio della combinazione di più lenti, che lo portò a ideare un cannocchiale che, a differenza di quello di Galileo, fornisce immagini rovesciate.

Il cannocchiale di Keplero pare sia stato costruito da Christoph Scheiner nel 1630, ma la priorità della sua costruzione fu rivendicata dal napoletano Francesco Fontana (1580 ca.-1656), che affermò di esser giunto alla sua realizzazione nel 1608. Ma le sue considerazioni sono contenute in uno scritto apparso solo nel 1645, un po’ tardi per avvalorare il diritto di priorità!

I cannocchiali costruiti da Galileo rimasero i migliori per i venti anni successivi alla pubblicazione del Sidereus Nuncius. La qualità venne rapidamente migliorando raggiungendo livelli molto elevati ad opera del già citato Francesco Fontana, i cui cannocchiali pare suscitassero la gelosia di Torricelli, che aveva ricevuto direttamente dal suo maestro i consigli per la lavorazione delle lenti, che gli avevano consentito di costruire ottimi strumenti. Iniziarono rapidamente a migliorare le tecniche di fabbricazione delle lenti, utilizzando macchine sempre più raffinate e vetro sempre più omogeneo ed esente da bolle d’aria.

Gli occhiali furono senz’altro i primi strumenti a beneficiare di questa rivoluzione tecnologica, che già nella seconda metà del Settecento vedrà l’invenzione degli occhiali bifocali ad opera di Beniamino Franklin (1706 – 1790), uomo politico e scienziato di grande fama. Si dovrà aspettare, però, fino alla metà dell’Ottocento perché la medicina oculistica diventi pienamente l’unico mezzo per determinarne l’uso scientificamente corretto. L’ultimo “grido” in fatto di lenti saranno le lenti a contatto, realizzate nel Novecento.

Ai cannocchiali di Galileo e di Keplero, utilizzati in una grande varietà di strumenti ottici, si aggiunse un secolo dopo il telescopio di Newton, spalancando all’Uomo una finestra sull’Universo che si sarebbe rapidamente ampliata, arrivando in 300 anni a portare il punto di osservazione fuori dalla Terra con i telescopi spaziali.

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

Telescopio in configurazione Newton utilizzato principalmente per ricerche fotometriche

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Il telescopio spaziale Hubble

Insieme alla possibilità di lanciare lo sguardo molto lontano cominciò a svilupparsi contemporaneamente anche quella di dirigerlo verso oggetti tanto piccoli da dover essere avvicinati a distanze “impossibili” per l’occhio. Si deve forse allo stesso Galileo la costruzione di un “occhialino” per vedere ingrandite le cose piccole, ma si ritiene che i primi efficaci “microscopi semplici”, costituiti cioè da una sola lente, siano stati costruiti da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723).

A differenza di cannocchiali e telescopi, che ebbero un perfezionamento a partire dal Settecento, il microscopio dovette attendere fino all’inizio dell’Ottocento per veder migliorate le sue prestazioni, ma da quel momento il miglioramento fu vertiginoso, fino ad arrivare, nel secolo successivo all’invenzione del microscopio elettronico, che invece della luce utilizza fasci di elettroni, e del microscopio a forza atomica che permette di localizzare le molecole e gli atomi.

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Sezione longitudinale di un apice vegetativo in falsi colori ripresa al microscopio ottico. L’apice appuntito mostra numerose cellule in attiva divisione. Le strutture a mezzaluna sono abbozzi fogliari. I due nuclei tondi ai lati al centro sono primordi di gemme ascellari.

Non si può parlare di sviluppo tecnologico dell’ottica senza considerare un altro strumento di fondamentale importanza anche dal punto di vista sociale: la macchina fotografica.

La si può considerare la pronipote della camera oscura, una stanza buia con un piccolo foro in una parete attraverso il quale la luce va a formare, sulla parete opposta, un’immagine capovolta del paesaggio esterno, che può essere trasferita col disegno su un foglio di carta. Il fenomeno pare fosse noto fin dai tempi di Aristotele, che doveva aver capito che le macchie luminose che si vedono a terra sotto un albero sono le immagini del sole, formate dalla luce che filtra attraverso gli interstizi tra le foglie.

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Lo studio della camera oscura da parte di scienziati arabi ed europei condusse alla realizzazione anche di strumenti portatili, il cui funzionamento fu migliorato inserendo nel foro una lente convessa. Nella prima metà dell’Ottocento l’immagine fu fissata su un supporto mediante un processo chimico (dagherrotipia) e nella seconda metà vennero costruiti i primi apparecchi con pellicola, che diventarono rapidamente le macchine fotografiche che conosciamo. La sostituzione della pellicola con supporti informatici per la registrazione dell’immagine ha aperto la recentissima era della fotografia digitale.

Livio Ruggiero – 2014

Per saperne di più:

  • G. Abetti, Storia dell’Astronomia, Vallecchi 1949
  • V. Ronchi, Galileo e il suo cannocchiale, Boringhieri 1964
  • V. Ronchi, Storia della Luce. Da Euclide a Einstein, Laterza 1983
  • C. Abati, E. Borchi, A. de Cola, Storia dell’Ottica per immagini, Fabiano Editore 1997

Road – Claudio Bottari

E’ la strada delle meraviglie e delle mille cascate e degli immensi ghiacciai e dei fiordi scoscesi a picco sull’Atlantico. E’ la linea del viaggio attraverso paure, smarrimenti e tante scoperte. Intorno a distese sconfinate di lave e detriti la malinconia danza sfrenata, ma presto diviene bellezza struggente, liberata dalla natura dei quattro elementi. Non mi ero mai reso così conto della mia fisicità e della sua perfetta fusione con l’aria dei venti del Nord, il fuoco vomitato dalle oscure viscere del Pianeta, l’acqua rabbiosa e cristallina e la terra grigia, tormentata, punteggiata da strani fiori di seta bianca. Bellissimi e primordiali. I minuscoli villaggi sono colorati di rosso e di blu per sfidare il tedio dei lunghi e oscuri giorni d’inverno, li abitano pochi uomini e molti animali o avventurosi pescatori con i volti rugosi e gli occhi protesi oltre le antiche leggende nordiche. Prevale l’essenzialità delle cose: poche, ciò che veramente serve per vivere, ma tutte le case offrono immagini e storie di famiglie segnate da sorrisi e pianti, da allegrie tinte da cieli azzurri e nuvole minacciose, piccole finestre ornate con muschi e licheni, tetti di torba, profumo di tundra e di zolfo e l’oceano misterioso e profondo che schiaffeggia spiagge solitarie di ciotoli neri. Lì respiri il nulla, su quelle distese dove solo le onde si fanno sentire e regalano al nulla loro compagno legni bianchi levigati da tanti mari e intrisi di altri cieli stellati. Siamo vicini al Circolo Polare Artico, intorno ai 66°N, ed una strana sensazione mi pervade: mi siedo su una roccia deformata dalla potenza del fuoco e incorruttibile al tempo. L’orizzonte è pieno di coni vulcanici, il suolo ha i colori dell’inferno e il sole, bassissimo, cerca di spargere la sua diafana luce senza calore sull’intero paesaggio, preceduto da lunghissimi cirri stirati da correnti impetuose. Solo i geyser avvertono che tutto vive, ma sembra davvero un mondo alieno, surreale. Guardo a Sud e sento di essere in cima al mondo di sempre: rivedo vicende e persone che conosco, le storie dette e quelle mai dette, amici, città, alberi e mari d’estate, voci di strada e lamenti di giorni qualsiasi, amori, litigi, sprazzi di luci e di gioia capitate per caso, corse di bambini e urla di rabbia, e le mie stelle affogate nella nebbia e… Silenzio…un interminabile, infinito, liberatorio Silenzio… Solo i venti, appena sbrigliati dalle catene celesti, prima di impazzire e precipitare verso il resto del mondo, accompagnano i lievi sussulti della mia anima nuda. Follia e quiete.

Non tornare più indietro…

Claudio Bottari – 2014

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Vista parziale del ghiacciaio Vatnajokull

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La grande cascata Gulfoss a salti multipli

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Il canyon scavato dall’immensa cascata Dettifoss, la più grande d’Europa, abbellito dagli arcobaleni

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Le colonne di basalto sulla penisola di Vik

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Pozze di acqua bollente

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Superbolla del geyser Stokkur alto fino a 30 m

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Alcuni iceberg della laguna glaciale Jokulsarlon

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L’austera e fragorosa cascata Skogafoss

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Laghi azzurri di acqua bollente nei pressi della Laguna Blu

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Paesaggi desolati tra vulcani, nuvole e cieli meravigliosi lungo la Ring Road…il silenzio regna sovrano…sembra di attraversare un mondo alieno.

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Enorme vulcano nei pressi di Myvatn

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Tipiche casette con i tetti coperti dalla torba

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Fronte di acqua impetuosa prima del grande salto della cascata Dettifoss; il Sole a mezzogiorno era molto basso

 

Tsunami sul Ciolo – Domenico Licchelli

Ci sono luoghi che hanno la staordinaria capacità di raccontare storie fantastiche non appena li si guarda sotto la giusta luce e con gli strumenti mentali adatti. Luoghi in cui la bellezza regna sovrana nonostante l’incessante lavorio del tempo. Nel Salento c’è l’imbarazzo della scelta ma per me, non foss’altro che per ragioni biografiche, in cima a tutti c’è il tratto di costa da Novaglie a Leuca. Durante una delle innumerevoli scorribande tardo-adolescenziali su quelle rocce, spesso a strapiombo sul mare, mi imbattei in un posto stranissimo. Rocce bianchissime e levigate, che peraltro avevo già notato in un altro luogo, enormi massi accatastati in maniera caotica ma allo stesso tempo con un ordine sottostante, evidenti anomalie rispetto al quadro geologico circostante. Le mie conoscenze allora erano sostanzialmente scolastiche per cui non ero in grado di formulare nessuna ipotesi attendibile. Da fotografo mi colpì subito la qualità della luce in certi momenti della giornata ma anche la grande difficoltà nel gestirla con le mitiche diapositive Ektachrome che utilizzavo in quel periodo. Era un paradosso incredibile. Finì col considerarlo un piccolo tesoro e come tale da mostrare solo in casi eccezionali.P2020326t

Nessun indizio all’epoca mi faceva supporre che una decina di anni dopo lo studio di quelle rocce carbonatiche, delle retrostanti lagune e dei relativi fossili sarebbe diventata una parte importante della mia ricerca scientifica in ambito planetologico. Centinaia e centinaia di ore trascorse setacciando le rocce palmo a palmo alla ricerca degli indizi più interessanti, accompagnato solo dal sibilo del vento e dal frangersi delle onde su quelle pareti vecchie di milioni di anni.

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articolo spettroscopia carbonati marte

Concentrato ormai sulle barriere coralline fossili, perchè questo è in pratica buona parte di quel tratto di costa, complice anche la grande passione per la biologia marina e la fotografia subacquea, trascurai l’indagine su quello che era diventato una sorta di spettacolare pensatoio dove tornare periodicamente per riordinare le idee.

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Coralli fossili sulla costa attorno al Ciolo

Colonia di Madreporari (Cladocora caespitosa)

Colonia di Madreporari (Cladocora caespitosa) attuale fotografata a pochi metri di profondità

Un bel giorno però, durante una delle solite ricerche nella letteratura scientifica, mi imbattei in un lavoro pubblicato sulla rivista Quaternary International il cui titolo recitava: Large boulder accumulations by extreme waves along the Adriatic coast of southern Apulia (Italy) di Giuseppe Mastronuzzi e Paolo Sansò. Appena cominciai a leggere l’abstract si accese una lampadina in testa, un Eureka alla Archimede maniera. Recuperai molti altri lavori collegati e li studiai con la crescente consapevolezza che forse avevo imbroccato una strada interessante. E’ una sensazione difficile da spiegare ma è sicuramente uno dei momenti più entusiasmanti per chi si occupa di ricerca scientifica. Alla luce di quello che stavo imparando, il mio posto “strano” diventava improvvisamente chiarissimo da leggere.

Quello che avevo trovato poteva essere la prova evidente che uno tsunami aveva colpito la zona attorno al Ciolo in epoca abbastanza recente. Una scoperta sconvolgente per me perchè era evidente a questo punto che doveva essersi trattato di un evento terrificante.

Ma procediamo con ordine. Come si genera uno tsunami? Tutto parte da un brusco movimento sottomarino della crosta terrestre indotto da un terremoto, da una frana, un’eruzione vulcanica, etc. L’onda che si genera in superficie, inizialmente modesta, inizia a propagarsi con una velocità che al largo, in oceano, può raggiungere i 500-1000km/h. Quando l’onda comincia a sentire il fondo in prossimità della costa, per attrito comincia a rallentare fino a circa 90km/h e ad innalzarsi diventando alta da pochi cm a diverse decine di metri a seconda dell’energia che possiede. Contrariamente alle onde generate dal vento durante le mareggiate, che coinvolgono solo le masse d’acqua superficiali, quelle associate ad uno tsunami possono trasportare una tale quantità di acqua che sono in grado di inoltrarsi nell’entroterra anche per diversi km, con effetti devastanti, come nel caso del recente tsunami dell’11 Marzo 2011 che si è abbattuto sul Giappone.

Ma in Puglia può succedere qualcosa di analogo o comunque di potenza tale da seminare distruzione? La risposta purtroppo è sì, come dimostra la tabella seguente che elenca gli tsunami documentati che hanno colpito la nostra regione negli ultimi 700 anni, tratta dal lavoro riportato in basso a cui rimando per una trattazione più esaustiva.

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Evidenziato in rosso c’è il probabile candidato che riguarda il Ciolo, come mi confermò il Prof. Sansò dell’Università del Salento, uno dei maggiori esperti in circolazione sull’argomento, a cui mandai un piccolo reportage fotografico:
Caro Domenico, è probabile si tratti di blocchi trasportati da un maremoto, forse quello del 20 febbraio 1743 che ha prodotto l’accumulo di Torre S.Emiliano. L’epicentro del terremoto è situato 50 km a SE di Otranto per cui non ci sarebbe niente di cui stupirsi: il maremoto avrà sicuramente investito tutta la costa orientale del Salento.
Un caro saluto, Paolo

Il terremoto del 20 febbraio 1743 raggiunse il IX grado della Scala Mercalli e rase al suolo quasi completamente Nardò, Francavilla Fontana e Amaxichi sull’isola di Lefkada, in Grecia. I morti furono diverse centinaia, soprattutto bambini. L’epicentro in mare scatenò almeno due onde di tsunami provenienti da SSE che si abbatterono sulla costa con un run-up, ossia un’altezza massima delle onde, di 11 metri. Blocchi di decine di tonnellate furono letteralmente sradicati dalla zona intertidale (ce n’è uno di più di 70 tonnellate a Torre S.Emiliano), sollevati a parecchi metri di altezza e trasportati verso l’interno, decine di massi accatastati neanche fossero stati di gommapiuma, blocchi levigatissimi che originariamente si trovavano sul fondo del mare ai piedi della falesia, scagliati e riordinati lungo precise direzioni sulla costa. Un’apocalisse che non si trasformò in tragedia solo perchè molto probabilmente all’epoca la zona era disabitata e di difficile accesso (Gagliano del Capo era relativamente lontano e riparato essendo in cima ad una piccola altura).

A questo proposito invito gli storici a spulciare un po’ negli archivi. Potrebbero scoprire qualche testimonianza importante al riguardo.

Le tracce più evidenti si trovano poco prima di raggiungere le Grotte delle Cipolliane seguendo l’omonimo sentiero, ma c’è un secondo ammasso di bianchi massi levigati noto probabilmente a tutti coloro che frequentano la zona della Chiancareddha, di cui adesso conosceranno l’origine.

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Grosso masso accompagnato da una corte di altri più piccoli all’imboccatura di una grotta sommersa

I blocchi qui ripresi sono accatastati appena a sud del Porto Vecchio di Novaglie

Il lento ed inarrestabile arretramento della falesia provoca il distacco ed il crollo di numerose porzioni di parete rocciosa che si accumulano sul fondo del mare al piede della stessa. I blocchi qui ripresi sono accatastati appena a sud del Porto Vecchio di Novaglie

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Munte Lagnune, il nome locale della falesia del Ciolo, visto dalla Chiancareddha. In primo piano i massi strappati dal mare e accatastati sulla costa dalle onde di tsunami

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Giunti a questo punto, proviamo a visualizzare, seppur in maniera molto approssimativa con un fotomontaggio, cosa significherebbe un’onda di tsunami di 10 metri di altezza diretta verso l’insenatura del Ciolo, prendendo come riferimento il ponte che è a circa 25 metri sul livello del mare.

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Per rendere l’idea, immaginiamo che una persona sul ponte si accorga dell’onda che avanza quando è ancora ad 1km di distanza. Supponiamo in prima approssimazione che la velocità sia costante e di 90km/h, cioè 25 metri al secondo. L’onda raggiunge la costa in soli 40 secondi dopo l’avvistamento. Di fatto è fisicamente impossibile attuare qualunque strategia di messa in sicurezza.

Adesso riflettete un attimo. Se nel caso dello tsunami del 1743 alla fine si è ridotto tutto ad una devastazione e ridefinizione di alcuni tratti di costa rocciosa, provate ad immaginare cosa significherebbe un evento di tale portata oggi, soprattutto in estate, quando in prossimità del mare vivono o villeggiano decine, se non centinaia, di migliaia di residenti e turisti. Si potrebbe pensare che con le attuali tecnologie saremmo in grado di gestire una situazione di questo tipo, ma non è così. Nessuno è in grado di prevedere quando ci sarà il prossimo spaventoso terremoto nel Canale d’Otranto in grado di generare uno tsunami. L’unico strumento che abbiamo a disposizione è essere consci del pericolo ed adoperarci per ridurre al minimo i rischi conseguenti.

Domenico Licchelli – 2014

Per saperne di più:

  • Boulder accumulations produced by the 20th of February, 1743 tsunami along the coast of southeastern Salento (Apulia region, Italy) G. Mastronuzzi, C. Pignatelli, P. Sansò, G. Selleri – Marine Geology 242 (2007)

Un passo indietro per salvare il Ciolo – Paolo Sansò

La bellezza del paesaggio è sicuramente la risorsa che sostiene l’industria turistica salentina. Lo dimostra un’indagine promossa dalla Amministrazione Provinciale nel 2005: l’85% dei turisti che ogni estate si riversano nel Salento sono attratti dalla bellezza delle sue coste. Questo vuol dire che qualsiasi intervento venga realizzato sul territorio salentino per incentivare il turismo dovrebbe quanto meno lasciare inalterato il paesaggio o, meglio, aumentarne la qualità.

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Tra i luoghi più suggestivi del perimetro costiero salentino merita un posto speciale l’insenatura del Ciolo, posta nel territorio amministrativo di Gagliano del Capo. Probabilmente 220 mila anni fa, un corso d’acqua ha inciso, lungo questo tratto di costa, il substrato roccioso, modellando una stretta forra delimitata da pareti subverticali. Il corso d’acqua è scomparso, inghiottito dall’abisso del tempo geologico, ma quella stretta e profonda incisione è rimasta come una cicatrice indelebile nel paesaggio della regione. Un luogo suggestivo ed interessante perché su quelle pareti ripide si svela un prezioso libro geologico che racconta la storia di una scogliera corallina sviluppatasi oltre 5 milioni di anni fa, unica nell’area adriatica, l’ultima prima che il Mediterraneo si prosciugasse per lasciare il posto ad una enorme piana salata. Un luogo bellissimo e interessante ma purtroppo pericoloso.

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coralli fossili ciolo

Osservando attentamente le rocce, sono evidenti le vestigia delle antiche barriere coralline di epoca Oligocenica e Messiniana

Negli ultimi 10.000 anni i processi carsici hanno lentamente ampliato la fitta rete di fratture presenti nel substrato roccioso, isolando lungo le pareti dei blocchi rocciosi di grosse dimensioni che sotto l’azione della gravità finiscono per cadere sul fondo della stretta incisione. Non è un caso che questa sia ingombra di blocchi rocciosi di grosse dimensioni. Un processo naturale, lento ma inesorabile. La pericolosità del luogo è stata scoperta recentemente anche dalle Istituzioni che ne hanno sancito l’elevata pericolosità sia geomorfologica che idraulica, cioè l’elevata probabilità che il crollo di blocchi o di una improvvisa riattivazione del corso d’acqua possa potenzialmente produrre danni a persone e cose.

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Insomma, la stretta forra (o gola) del Ciolo è pericolosa come tanti altri luoghi suggestivi del Salento, la falesia di Porto Miggiano (Comune di Santa Cesarea Terme), quella di Sant’Andrea (Comune di Melendugno), quella di Punta Ristola (Comune di Castrignano del Capo), solo per citarne alcuni.

Un luogo pericoloso va rispettato per evitare che si trasformi in un luogo a rischio, cioè in un luogo in cui nel caso di un evento naturale (nel nostro caso una frana o una inondazione) vengano a prodursi realmente dei danni a persone e cose. Al Ciolo questa semplice regola di buon senso non è stata rispettata. Incuranti o incoscienti del pericolo, i nostri nonni hanno realizzato delle abitazioni al piede delle alte pareti rocciose come altrettanto incuranti o incoscienti del pericolo, numerosi turisti e persone locali frequentano da sempre la piccola insenatura del Ciolo. Il risultato è drammatico: mettete persone e cose in una zona ad elevata pericolosità ed otterrete una zona ad elevato rischio!

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Si potrebbe obiettare che i tempi geologici con cui si svolge la naturale evoluzione geomorfologica del paesaggio rende i fenomeni di crollo e/o di eventuale inondazione molto rari e che tutto sommato il rischio è cosi basso da poter essere trascurato. Di certo i fenomeni di crollo lungo le ripide pareti che delimitano la forra del Ciolo sono rari e probabilmente si sono verificati in prevalenza durante terremoti.

Anche in questo caso molti tireranno un sospiro di sollievo pensando al basso grado di sismicità della regione magari ignorando che a poche decine di chilometri, sulla costa orientale del Canale d’Otranto, si trova una delle maggiori zone sismiche del Mediterraneo e ignorando ancora che un ultimo terremoto disastroso con epicentro a soli 50 km a SSE di Otranto si è verificato solo tre secoli fa, il 20 febbraio del 1743.

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Terremoti di magnitudine maggiore di 3 nel periodo 1973–2007 (USGS–NEIC)

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Terremoto del 26 Gennaio 2014, chiaramente avvertito in molte località salentine (Gagliano del Capo compreso), del Brindisino e su fino alla provincia di Bari

Mettiamola così: la frequentazione e l’urbanizzazione nell’area del Ciolo è come una pistola con il colpo in canna in attesa che qualcuno prema il grilletto. Una gigantesca roulette russa che ha come teatro il tempo geologico!

Informati ora della situazione di rischio presente nella forra del Ciolo siamo al momento delle scelte. Che fare? Quali strategie mettere in campo per mitigare o meglio annullare il rischio geologico in quest’area? La risposta tradizionale a questi problemi è semplice: utilizziamo la nostra tecnica per bloccare la naturale evoluzione del paesaggio che contrasta in maniera palese con la nostra volontà di usufruire della bellezza di quel luogo così suggestivo. Imbrigliamo allora i ripidi versanti in frana avvolgendoli in robuste reti metalliche, inchiodiamo i blocchi in equilibrio precario ed il gioco è presto fatto: avremo stabilizzato i versanti per un tempo sufficientemente lungo da garantire una sicura fruizione dei luoghi alla nostra generazione ed a quelle a venire.

In realtà questa soluzione non è del tutto indolore. Prima di tutto la collettività si deve far carico di un impegno economico di certo non trascurabile (per il Ciolo le opere previste per la mitigazione del rischio ammontano a 1.500.000 euro) e poi si deve in qualche modo accettare il rischio che gli interventi possano deturpare in maniera pesante la bellezza del paesaggio.

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E qui si entra in un circolo infernale: gli interventi che vengono realizzati perché si possa godere in sicurezza di un luogo di eccezionale bellezza naturalistica rendono il luogo sicuro ma brutto, e quindi non più frequentato dai turisti che andranno altrove a godersi luoghi di altrettanta incomparabile bellezza!

A dirla proprio tutta gli interventi progettati per il Ciolo non ridurranno a zero il rischio geologico. Sarà infatti praticamente impossibile ammantare di reti tutti i versanti e si opererà solo sulle situazioni che i tecnici hanno ritenuto di maggiore instabilità. Il rischio idraulico sul fondo della forra rimarrà tale e quale: in caso di un rovescio improvviso nulla impedirà all’onda di piena di portare via tutto e tutti. E da appassionato studioso degli effetti morfologici di maremoti storici lungo la costa pugliese ci aggiungerei il potere devastante di un maremoto, anche di piccola entità, in una insenatura così stretta e incassata come quella del Ciolo. Possibilità questa tutt’altro che remota. (Per saperne di più essendo il Ciolo una delle località già colpite in passato)

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Mareggiata di Scirocco nell’insenatura del Ciolo. Nonostante l’aspetto inquietante, queste onde sono ben poca cosa rispetto ad un’onda di maremoto che molto probabilmente scavalcherebbe le rocce sullo sfondo

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L’insenatura del Ciolo e lo stretto passaggio sullo sfondo trasformerebbero, per Effetto Venturi, un’eventuale onda di maremoto, già di suo mostruosa, in un micidiale e devastante muro d’acqua che si abbatterebbe sulla costa con velocità superiore ai 90km/h . L’intera spiaggetta del Ciolo diventerebbe una trappola mortale senza alcuna possibilità di fuga

Rimangono, inoltre, tutti i rischi legati alla presenza dell’immenso ponte stradale da cui possono essere lanciate per gioco pietre e bottiglie di birra, possono saltare fortuitamente pezzi di automobile e, come purtroppo la storia recente insegna, precipitarsi interi pullman turistici. Eventi sempre rari ma forse statisticamente più rilevanti di terremoti, alluvioni e maremoti.

Insomma, la risposta tradizionale al problema del rischio geologico del Ciolo, pur costosa, da una parte non mitigherà significativamente la situazione di rischio, dall’altra minaccerà inesorabilmente la bellezza naturale dei luoghi.

Alla luce di queste considerazioni mi permetto quindi di avanzare una proposta alternativa: facciamo un passo indietro per andare con sicurezza in avanti. Rispettiamo l’evoluzione naturale del paesaggio facendo divenire il Ciolo un luogo ancor più bello e solo pericoloso. Utilizziamo le risorse economiche a disposizione per azzerare il rischio geologico facendo un passo indietro, riparando cioè agli errori del passato.

Se i nostri antenati incoscienti e/o incuranti del pericolo hanno costruito delle abitazioni ai piedi di un’alta parete interessata da fenomeni di crollo, noi figli illuminati del terzo millennio acquistiamo le case per poi demolirle e ripristinare l’ambiente naturale. Il prossimo blocco crollerà su di un cespuglio di timo liberando un’esplosione di pungente profumo nell’aria.

Se nei mesi estivi le persone locali e i turisti, in maniera inconsciente e/o incurante, frequentano la piccola insenatura sotto il ponte o peggio si inoltrano all’interno della forra, noi figli illuminati di questa terra li prenderemo per mano invitandoli a fare il bagno un po’ più avanti, oltre il ponte, dove avremo preparato una comoda discesa al mare e un’area di sosta confortevole. E durante il breve tragitto potremo raccontare loro le affascinanti vicende di un corso d’acqua inghiottito dal tempo geologico e della meravigliosa storia geologica scritta su quelle pareti pericolosamente in frana. Giunti sulla piazzola, mentre si prepareranno a gustare l’abbraccio con le acque cristalline al sicuro di blocchi che franano, acque che scorrono, bottiglie che volano, li saluteremo con il sorriso orgoglioso di un popolo che ha salvato con intelligenza, coraggio ed amore la propria bellissima terra.

Paolo Sansò – 2014