La bella Andromeda – Giulia Alemanno e Anna Galiano

Come avrete già notato leggendo i nostri precedenti articoli, molti di quei puntini luminosi che popolano il nostro cielo ci raccontano affascinanti storie mitologiche di divinità e antichi eroi. I nostri antenati hanno, infatti, assegnato alle stelle e ad altri oggetti del nostro cielo i nomi dei protagonisti di queste storie in modo che tutti potessero un giorno conoscere le loro imprese. Così ad un insieme di stelle fu dato il nome di costellazione di Andromeda, una bella principessa che a causa della vanità della madre ebbe una vita travagliata. La costellazione di Andromeda è nota soprattutto per la presenza di una macchiolina biancastra ai suoi confini. Anch’essa è visibile ad occhio nudo poiché ha una magnitudine pari circa a 4.

Ma prima di vedere di cosa si tratta raccontiamo brevemente la storia della nostra principessa. Il racconto coinvolge altre tre costellazioni del cielo boreale poste nelle vicinanze della costellazione di Andromeda e sono Perseo, Cefeo e Cassiopeia. Re Cefeo e la regina Cassiopeia regnavano in Etiopia con la loro figlia, la principessa Andromeda. Cassiopeia era una donna molto vanitosa, passava il tempo a specchiarsi e si vantava di essere più bella delle Nereidi, bellissime ninfe marine immortali. Tra queste vi era Teti, la moglie di Nettuno nonché madre di Achille, la quale indispettita dalla vanità della regina decise di punirla chiedendo aiuto al dio del mare. Nettuno inviò il mostro marino Ceto a distruggere le coste del regno di Cefeo. Dopo aver consultato l’oracolo di Ammone, re Cefeo capì che l’unica soluzione era quella di offrire la sua figlia Andromeda in sacrificio. La principessa venne incatenata nuda ad uno scoglio e offerta in pasto al mostro marino Ceto. Ma si sa la storia di una principessa non può certo finire così. Come in tutte le storie che si rispettino l’arrivo del principe è di dovere. Ed ecco volare in cielo, con sandali alati avuti in dono dal dio Mercurio, l’eroe Perseo. Con in mano la testa di Medusa sconfitta poco prima, Perseo si precipitò dalla fanciulla e le chiese cosa stava succedendo. Affascinato dalla storia e dalla bellezza della ragazza Perseo si recò dapprima dai suoi genitori e la chiese in sposa (mentre la poverina aspettava nelle grinfie del mostro marino) e una volta ottenuto il loro consenso tornò a liberarla dalla scogliera. I due si sposarono e dopo alcune vicissitudini che coinvolsero Fineo, un giovane a cui tempo prima era stata promessa in matrimonio Andromeda, scapparono in volo raggiungendo il loro regno situato tra la Palestina e il Mar Rosso.

Dopo questa affascinante storia torniamo alla macchiolina biancastra posta nelle vicinanze della costellazione di Andromeda per vedere di cosa si tratta. Dapprima venne classificata come “piccola nube” dall’arabo Abd al-Rahman al-Sufi attorno alla metà del novecento. Dopo quasi un millennio, nel 1864, grazie allo studio spettrale, l’astrofisico William Huggins notò che lo spettro dell’oggetto in questione somigliava più a quello delle stelle piuttosto che allo spettro delle altre nebulose. Esiste, infatti, un’evidente differenza tra gli spettri delle stelle e quelli delle nebulose. Le stelle sono caratterizzate generalmente da uno spettro continuo solcato da righe scure, dette righe di assorbimento, mentre gli spettri delle nebulose presentano prevalentemente righe brillanti. Tuttavia la sua natura stellare non era stata provata del tutto e molti pensavano ancora che si trattasse di una nebulosa. Nel 1920 ci fu il Grande Dibattito fra l’australiano Harlow Shapley e Heber Curtis, astronomo statunitense, riguardante le dimensioni della Via Lattea e la natura delle nebulose e delle galassie. Quest’ultimo riteneva che la grande nebulosa osservata fosse, in realtà, una galassia e quindi un oggetto esterno alla Via Lattea ed indipendente da essa, mentre Shapley ne sosteneva l’entità nebulare ritenendo che essa facesse parte della nostra Galassia. Solo nel 1925, quando Edwin Hubble identificò alcune stelle variabili Cefeidi nella presunta galassia e le utilizzò per determinarne la distanza da noi si poté avere una risposta definitiva. Le Cefeidi sono stelle che presentano una relazione ben precisa tra periodo e luminosità, scoperta dall’astronoma Henrietta Swan Leavitt nel 1912. La luminosità delle Cefeidi cresce regolarmente all’aumentare del periodo. Poiché esse possono essere considerate tutte alla stessa distanza da noi, essendo le dimensioni della galassia in cielo molto minori della distanza da noi, si ha che magnitudine assoluta e apparente differiscono di un fattore costante tramite il quale si può ricavare la misura della distanza. Si scoprì così che si trattava di un oggetto a sé stante ben al di fuori della nostra Via Lattea, che fu chiamato Galassia di Andromeda per la sua vicinanza a tale costellazione.

Andromeda è una galassia a spirale proprio come la nostra e appartiene al Gruppo Locale. Si ha, infatti, che le stelle del nostro universo sono racchiuse in galassie, le quali a loro volta sono unite in gruppi. La forza legante è in ogni caso la gravità. Ad oggi sono conosciute 43 galassie appartenenti alla famiglia del Gruppo Locale. Tra queste vi è proprio la nostra Galassia e la galassia di Andromeda che è la più grande galassia di questa famiglia. Essa ha uno splendore pari a 25 miliardi di soli, mentre lo splendore della Via Lattea è pari circa a 8,3 miliardi di soli. La galassia di Andromeda è importante proprio per la sua vicinanza, grazie alla quale possiamo studiare le stelle che la compongono e confrontare le loro proprietà con quelle della Via Lattea. Lo stesso vale anche per le altre galassie del Gruppo Locale che sono più vicine a noi. Al Gruppo Locale appartengono poi, la Grande e la Piccola Nube di Magellano e la galassia del Triangolo. Il diametro del gruppo è circa pari a 4 milioni di anni luce, esso rappresenta pertanto una piccola famiglia di galassie se si considerano l’ammasso della Vergine o quello della Chioma di Berenice che hanno invece diametri di decine di milioni di anni luce. Dallo studio della massa e della luminosità delle stelle si possono ricavare risultati interessanti. E’ stato ottenuto che la massa totale del Gruppo Locale è pari circa a 1500 miliardi di volte la massa del Sole mentre la sua luminosità è stimata pari a 30 miliardi di volte quella del Sole. Dal rapporto tra queste due grandezze si ricava che nella nostra famiglia di galassie dominano le stelle rosse e la materia oscura poiché il rapporto massa/luminosità è circa 1 per le singole stelle ad eccezione delle stelle rosse in cui è pari circa a 50. Tutti i membri del Gruppo Locale presentano delle velocità che sembrano in contrasto con il principio dell’espansione delle galassie. In particolare la galassia di Andromeda si avvicina alla nostra Galassia sempre di più. Ma di questo parleremo tra un po’, vediamo ora com’è possibile osservare il nostro oggetto. La galassia di Andromeda è catalogata come M31 nel catalogo Messier e NGC 224 nel New General Catalogue che rappresenta un’estensione del primo. Per poter individuare questa galassia in cielo occorre prima cercare la costellazione di Andromeda. Quest’ultima è visibile verso le 21 a est in settembre come si può notare nella figura sopra riportata. Ai confini di tale costellazione possiamo osservare, ovviamente in zone lontane dall’inquinamento luminoso, la galassia di Andromeda.

La Galassia di Andromeda (M31) è l’ammasso di stelle, gas e polveri più vicino alla Via Lattea, la sede del nostro Sistema Solare, distante circa 2.5 milioni di anni luce (a.l.). Dato che la luce viaggia nello spazio con una velocità di 300000 km/s, ciò che riusciamo a intravedere anche ad occhio nudo nelle notti autunnali prive di inquinamento luminoso è in realtà una “fotografia” della bella Galassia di Andromeda risalente a più di due milioni di anni fa. Se esistesse un osservatore distante anni luce dalla M31 e dalla Via Lattea vedrebbe queste due galassie costituire un sistema doppio a causa della loro relativa vicinanza, trascurando però la presenza della Galassia del Triangolo (M33), una delle 14 galassie satelliti di Andromeda. Fino ad una decina di anni fa il diametro della M31 era stato stimato di 120000 a.l. ma osservazioni più accurate ad opera dei telescopi dell’Osservatorio Keck situato sul monte Mauna Kea alle Hawaii hanno dimostrato che nella parte periferica della galassia vi sono dei sottili filamenti stellari che fanno parte in realtà del disco galattico. In questo modo il diametro della Galassia di Andromeda raggiunge un valore di 200000 a.l., superiore al diametro della Via Lattea (130000 a.l.), anch’esso corretto al seguito di recentissime indagini. In effetti è stato scoperto un prolungamento del disco della Via Lattea al di sotto ed al di sopra del piano galattico, evidenziando così un andamento sinusoidale della nostra galassia. Anche il disco galattico della M31 non è piatto ma sembra che abbia una particolare deformazione ad S, dovuta molto probabilmente all’influenza gravitazionale della vicina galassia M33. Nonostante la Galassia di Andromeda sia più estesa della Via Lattea, quest’ultima è molto più massiva per via della grande quantità di materia oscura al suo interno. La M31 contiene, però centinaia di miliardi di stelle, raggiungendo una densità stellare più elevata. Questo rende la Galassia di Andromeda facilmente visibile nei nostri cieli notturni, con un’estensione angolare di 2°, ossia 4 volte più grande del nostro satellite naturale nella fase di luna piena. La luminosità raggiunta dalla Galassia di Andromeda è circa  2.6×1010 volte superiore alla luminosità del Sole ed è inoltre più brillante della Via Lattea.

Studi recenti hanno avanzato l’ipotesi che la galassia della bella fanciulla greca sia attualmente in una condizione di inattività dopo un lungo periodo di intensa produzione stellare. La nostra galassia invece è ancora attiva dal punto di vista di formazione delle stelle e se la situazione dovesse continuare la Via Lattea potrebbe diventare più luminosa di Andromeda. Fin dall’inizio Andromeda è apparsa come una normale galassia a spirale barrata con un rigonfiamento nel centro (bulge) ma la sua inclinazione di 77° rispetto al punto di vista della Terra, che la rende apparentemente di forma ellittica, ha reso difficile comprendere la struttura dei suoi bracci (un’inclinazione di 90° ci permetterebbe di vedere la galassia di profilo). Fra le diverse ipotesi avanzate ce n’era una che sosteneva l’esistenza di due bracci a spirale logaritmica che si dipartivano dalla barra centrale e distanti tra loro 13000 a.l., mentre un’altra suggeriva la presenza di un unico braccio. Nel 1998, però le indagini nel campo dell’infrarosso ad opera del telescopio spaziale dell’ESA hanno scoperto una disposizione ad anello delle polveri e materiale gassoso che compongono la galassia, con un anello più denso e marcato ad una distanza di 32000 a.l. da nucleo, inesistente nello spettro visibile poiché composto da polveri fredde con una temperatura di -260 °C. Questo ha permesso di avanzare l’ipotesi che in realtà la galassia sia in una condizione di transizione, alla fine della quale diverrà una galassia ad anello. Nel 2006 il telescopio Spitzer ha finalmente messo in luce la reale natura di Andromeda, riconoscendola come una struttura galattica ad anello/spirale: dal nucleo galattico barrato si estendono due bracci a spirale logaritmica e due anelli di gas e polveri circondano il nucleo, uno posto nella parte esterna della galassia, l’altro ad una distanza di 32000 a.l. dal centro galattico. Mentre i bracci non sono delle strutture continue ma composti da diversi segmenti a spirale, l’anello esterno ha una struttura circolare, tranne nella regione corrispondente alla posizione della galassia M32. Si ritiene in effetti che circa 200 milioni di anni fa la M32 abbia interagito con la M31. Simulazioni dinamiche molto accurate hanno riprodotto il fenomeno che ha generato l’attuale struttura di Andromeda: la galassia M32 molto meno massiva rispetto ad Andromeda pare abbia “attraversato” il disco galattico di quest’ultima perdendo così la metà della propria massa e producendo la struttura anulare della M31 (Figura 1). Si può paragonare questa interazione al movimento dell’acqua provocato da un sasso lanciato in uno stagno: il piccolo masso genera delle onde circolari che si allontanano dal punto di impatto, allargandosi sempre di più. La Galassia di Andromeda, dopo 200 milioni di anni, sta ancora manifestando gli effetti di quell’interazione.   

Immagine ai raggi infrarossi della struttura ad anello/spirale della Galassia di Andromeda.  

Il Telescopio Spaziale Hubble ha permesso di scoprire, nel 1991, la presenza di un doppio nucleo nel centro di Andromeda, ossia due distinte concentrazioni di stelle poste ad una distanza tra loro di 5 a.l.. La più luminosa, nominata P1 è decentrata rispetto al centro galattico, sede del denso ammasso di stelle calde di classe spettrale A, individuato con la denominazione P2. Quest’ultimo contiene inoltre un buco nero con una massa pari ad un miliardo di volte la massa del Sole. Dopo una prima ipotesi che attribuiva P1 al nucleo di una galassia assorbita da M31, la spiegazione più attendibile sembra essere quella di considerare P1 come un disco di stelle con una distribuzione fortemente eccentrica attorno al buco nero. Dopo più di 150 osservazioni avvenute in 13 anni, i dati forniti dal Chandra X-ray Observatory della NASA hanno permesso ad un gruppo di ricercatori di individuare altri 26 possibili buchi neri all’interno della Galassia di Andromeda, oltre ai 9 già scoperti precedentemente. Queste forti sorgenti di raggi X (con una massa di 5-10 volte maggiore rispetto a quella del nostro Sole) sono molto probabilmente il risultato dell’esplosione di stelle massive. Otto dei 35 buchi neri sono stati trovati in alcuni dei 300 ammassi globulari presenti nella M31, antiche concentrazioni di stelle attorno al centro galattico. Questa scoperta segna una sostanziale differenza tra Andromeda e la Via Lattea, dato che quest’ultima sembra non avere buchi neri nei suoi ammassi globulari. Inoltre, sette di queste sorgenti di raggi X sono collocate entro un raggio di 1000 a.l. dal centro galattico, un numero di gran lunga superiore rispetto a quelli che si trovano attorno al centro della Via Lattea. Una spiegazione risiede nel bulge molto più esteso di Andromeda che contiene un numero superiore di stelle e quindi si ha una maggior probabilità che si creino più buchi neri. 

Rappresentazione della “imminente” collisione tra la Galassia di Andromeda e la Via Lattea che avverrà tra circa 4 miliardi di anni.

L’alone galattico di Andromeda è ricco di stelle con scarsa presenza di materiale metallico, molto simile a quello della Via Lattea. E’ probabile che queste due abbiano subito un’evoluzione analoga nei 12 miliardi della loro vita, assimilando circa 200 galassie di massa ridotta. Studi effettuati tra il 2008 e il 2011 hanno dimostrato come le 14 galassie satelliti di Andromeda (galassie nane) non si muovono indipendentemente attorno ad essa, ma ruotano con lo stesso verso di rotazione di Andromeda, suggerendo un’unica struttura compatta a forma di disco rotante attorno alla M31. Questa nuova scoperta può aiutare a comprendere il processo di formazione delle galassie che ha ancora molte domande senza risposta. In più alcune osservazioni hanno evidenziato una particolare interazione gravitazionale tra la Galassia di Andromeda e alcune sue due galassie satelliti (galassie ellittiche nane), analogamente all’interazione esistente tra la Via Lattea e le Nubi di Magellano. Le due galassie satelliti presentano una distorsione nella direzione della M31, proprio come una delle Nubi di Magellano mostra un allungamento della propria struttura nella direzione della nostra galassia. Andromeda presenta un moto di rotazione con velocità differenti a seconda della distanza dal centro galattico. Risultati provenienti da indagini spettroscopiche hanno evidenziato una velocità di rotazione di 225 km/s ad una distanza di 1300 a.l. dal centro, mentre si ha una velocità minima a circa 6500 a.l.. Questo è dovuto alla presenza di un nucleo molto denso ed in rapida rotazione con una massa di circa  6×109 volte la massa del Sole. Attorno ai 6500 a.l. la presenza di una massa meno densa comporta una riduzione di velocità. Vi è un lineare aumento di concentrazione della massa da 13000 a.l. fino a 45000 a.l., poi lentamente si raggiunge una massa di  1.85×1011 masse solari a 80000 a.l.. A questa distanza la galassia ruota a 200 km/s. Si osserva che tutte le galassie appartenenti al Gruppo Locale presentano un moto di rotazione attorno al baricentro del sistema. Come conseguenza di questo moto la Galassia di Andromeda si sta attualmente avvicinando alla Via Lattea ad una velocità di 300 km/s. In questo modo impiegherà 4 miliardi di anni per raggiungerci e in altri 2 miliardi di anni le due galassie si fonderanno in un’unica galassia ellittica. Le stelle appartenenti alla Via Lattea e ad Andromeda continueranno a mantenere la propria individualità senza subire collisioni tra di loro dato che sono molto distanti le une dalle altre, ma adotteranno un’orbita diversa attorno al nuovo centro galattico che si verrà a formare. Alcune simulazioni hanno mostrato come il nostro Sistema Solare, al seguito di questa collisione verrà allontanato ancora di più dal centro galattico. Si ritiene inoltre che in questa interazione parteciperà anche la galassia satellite di Andromeda, la Galassia del Triangolo, con basse ma esistenti probabilità che interagisca per prima con la Via Lattea.

Mondi alieni – Giulia Alemanno

Ognuno di noi almeno una volta si è sicuramente posto questa domanda osservando l’immensità del cielo stellato o guardando uno dei tanti film di fantascienza. La possibilità di altre vite oltre la nostra ha da sempre affascinato tutti. E’ nato così il mito degli alieni dalle antenne verdi. Esseri misteriosi, molto diversi da noi. Antennine verdi a parte, la verità è che non possiamo escludere la possibilità che nell’Universo ci sia qualcun altro. Basti pensare che nella nostra Galassia esistono circa 400 miliardi di stelle e l’intero Universo contiene 100 miliardi di galassie (ad oggi conosciute). Attorno a queste miriadi di stelle orbitano pianeti più o meno simili a quelli del nostro Sistema Solare. Tali pianeti sono chiamati extra-solari o esopianeti.

File:Titan multi spectral overlay.jpg

Photograph of the Saturn moon Titan in False Color, taken by the Cassini space probe with ultraviolet and infrared camera on 26 Oct. 2004. Red and green colors represent infrared wavelengths and show areas where atmospheric methane absorbs light. Blue represents ultraviolet wavelengths and shows the high atmosphere and detached hazes.

Prima di spostare la nostra attenzione verso gli spazi siderali siamo sicuri che non ci siano altre forme di vita nel nostro sistema solare, presenti o passate? In ordine di interesse il primo posto dove cercare è Marte per la sua maggiore somiglianza alla Terra. Su Marte sono state trovate evidenti prove di antica presenza di acqua allo stato liquido, come strutture fluviali analoghe a quelle presenti sulla Terra. Inoltre sulla superficie del pianeta sono presenti depositi carbonatici che si formano appunto in presenza di acqua liquida. Ma di Marte parleremo approfonditamente in uno dei prossimi articoli. Dall’analisi delle caratteristiche generali degli altri pianeti che compongono il Sistema Solare possiamo comprendere come le loro condizioni siano così estreme e quindi inadatte allo sviluppo di forme di vita così come noi le conosciamo. Partiamo da Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Proprio tale vicinanza fa sì che Mercurio sia caratterizzato da sbalzi termici molto forti. Le temperature variano, infatti, da un massimo di 700 °K nell’emisfero esposto al Sole ad un minimo di 170 °K nell’emisfero in ombra. Procedendo in ordine di distanza crescente dalla nostra stella passiamo a Venere che ha grandi somiglianze con il nostro pianeta: più o meno stessa massa, densità e dimensioni; ma nonostante ciò è molto diverso dalla Terra. Venere ha un’atmosfera molto spessa costituita prevalentemente da anidride carbonica per circa il 90% in cui sono presenti nubi costituite prevalentemente da goccioline di acido solforico mescolate con gocce d’acqua. Queste nubi rendono impossibile osservare direttamente la superficie del pianeta. Inoltre l’anidride carbonica provoca un elevato effetto serra, cosicché al suolo si raggiungono temperature che raggiungono i 750 °K. Dopo la Terra e Marte abbiamo Giove, Saturno, Urano e Nettuno, i cosiddetti pianeti giganti. Questi ultimi sono costituiti prevalentemente da gas e presentano un nocciolo roccioso molto piccolo rispetto alle dimensioni del pianeta stesso. Quindi ad eccezione di Terra e Marte, gli altri pianeti del Sistema Sole sono di scarso interesse nell’ambito della ricerca di forme di vita. L’attenzione è rivolta, invece, verso alcuni dei maggiori satelliti di Giove e Saturno, in particolare Europa e Callisto per il primo, Titano per il secondo. Europa ha una superficie interamente ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio (circa 150 km) al di sotto della quale si suppone si estenda un nucleo roccioso. Ciò è stato ricavato in base all’analisi della densità del pianeta. Grazie all’interpretazione delle immagini inviate dalle sonde Voyager e Galileo si pensa che la coltre di ghiaccio sia separata dal nucleo roccioso da acqua liquida. Alcune immagini rilevano la presenza di iceberg mobili. L’oceano liquido viene preservato grazie alla dissipazione del calore per effetto delle forze di marea. Si ritiene che anche Callisto possa avere un oceano sotto la crosta, la cui presenza è stata rilevata sulla base di misure del campo magnetico del satellite. E’ stato osservato che tale campo magnetico è variabile in relazione alla posizione del corpo rispetto al campo magnetico di Giove. Ciò è indice della presenza di uno strato di fluido conduttivo. Abbiamo infine Titano, il maggiore satellite di Saturno. Titano presenta una densità 1,88 volte maggiore rispetto a quella dell’acqua ed è grande più o meno quanto il pianeta Mercurio. La caratteristica che rende interessante Titano è la presenza di un’atmosfera estremamente somigliante a quella della Terra. L’atmosfera di Titano è ricca di molecole organiche. Analisi della sua composizione rivelano la presenza di azoto molecolare (che costituisce circa l’90% dell’atmosfera), metano e tracce di idrocarburi, nitrili, ossido carbonio e anidride carbonica. Tuttavia su Titano non è possibile trovare acqua allo stato liquido poiché esso presenta una temperatura molto bassa pari circa a 94 °K. Nonostante ciò esso è importante perché ci permette di studiare come interagiscono le molecole organiche in assenza di acqua.

Alla luce di queste considerazioni è chiaro perché col tempo e col progresso tecnologico dei rivelatori, l’attenzione si sia spostata verso i potenziali pianeti orbitanti attorno ad altre stelle. Gli esopianeti furono scoperti per la prima volta nel 1994 grazie agli studi delle perturbazioni gravitazionali indotte da questi corpi sul moto della stella attorno alla quale orbitano. Esistono differenti metodi per poter individuare un esopianeta. Primo fra tutti è il metodo della velocità radiale che sfrutta il fenomeno dell’effetto doppler. Se la nostra stella ha un esopianeta, i due corpi costituiscono un sistema doppio e si muovono attorno al comune centro di massa. Per effetto di questo movimento noi osserviamo periodicamente un avvicinamento della stella, che si traduce in uno spostamento verso le lunghezze d’onda del blu nello spettro (blue shift), ed un allontanamento (red shift). Tale fenomeno sarà tanto più evidente quanto più grande e più vicino alla stella è il pianeta in questione. Ecco perché i primi pianeti ad essere stati scoperti sono pianeti gioviani, simili al nostro Giove, di grande massa e con orbite molto vicine alla stella madre. Le misure astrometriche permettono, invece, di determinare con estrema precisione la posizione di una stella rispetto ad altre stelle poste nelle sue vicinanze. In questo modo si è in grado di rilevare piccoli spostamenti nella posizione di una stella dovuti alle oscillazioni della stessa provocate dal pianeta orbitante al suo intorno. Grazie ad Einstein e ad uno dei suoi grandi risultati della teoria della Relatività Generale, è stato possibile sviluppare il metodo della microlente gravitazionale. Noi sappiamo che la luce si propaga in linea retta nello spazio ma Einstein ci dice che la presenza di grandi masse curva lo spazio. La luce viene così deviata. Quando un pianeta transita davanti alla sua stella lungo la linea di vista dell’osservatore la gravità del pianeta si comporta come una lente. I raggi vengono concentrati e si produce così un aumento della luminosità apparente e un cambiamento nella posizione della stella. Sebbene non sia un’impresa semplice, grazie soprattutto a sensori specializzati montati sui grandi telescopi oggi si è in grado di fotografare direttamente gli esopianeti. Si utilizzano sostanzialmente due metodi per riuscire a nascondere la luce della stella madre e realizzare una foto dell’esopianeta presente al suo intorno. Si sfrutta il metodo della coronografia che utilizza un dispositivo di mascheratura speciale per occultare la luce della stella. Oppure vi è il metodo interferometrico che utilizza delle ottiche specializzate per combinare la luce proveniente da diversi telescopi e farla interferire in modo tale che le onde di luce prodotte dalla stella si annullino. Resta così solo la luce dell’esopianeta. Abbiamo, infine, il metodo del transito. L’esopianeta viene individuato misurando la diminuzione di luminosità della sua stella durante l’eclissi, ovvero quando il corpo transita davanti alla stella. Studiando poi il periodo di oscillazione della stella si ricava il periodo di rivoluzione del pianeta, mentre la sua massa si determina studiando l’entità delle oscillazioni.  

Fu il radio astronomo Alexander Wolszczan a scoprire i primi pianeti extra solari. Studiando le variazioni regolari dei segnali radio di una pulsar egli dedusse la presenza di tre oggetti di dimensione planetarie attorno alla stella. Il primo pianeta extra-solare orbitante attorno ad una stella simile al nostro Sole fu scoperto, invece, dagli astronomi svizzeri Michel Major e Didier Queloz nel 1995 sfruttando il metodo della velocità radiale. Si tratta di un corpo su per giù grosso quanto Giove che orbita attorno alla stella 51 Pegasi. I primi pianeti extra-terrestri a essere stati scoperti sono per lo più pianeti gassosi, simili a Giove, insomma i pianeti giganti, proprio perché hanno una maggiore influenza sulla stella attorno alla quale orbitano.

Ad oggi sono stati classificati tre tipi differenti di pianeti extra-solari:
– I “Giove caldi”, esopianeti gassosi sopra citati;
– I giganti di ghiaccio;
– Pianeti Earth Like, simili cioè al nostro Pianeta

Questi ultimi sono stati scoperti per lo più grazie alla missione Kepler della NASA, il cui principale obiettivo era proprio quello di trovare pianeti simili alla nostra Terra nella zona abitabile della loro stella. Tali pianeti potrebbero, infatti, contenere acqua allo stato liquido e forse vita. Kepler sfruttava il metodo dei transiti. Se un pianeta transita davanti al disco della sua stella madre, la luminosità osservata della stella diminuisce di una piccola quantità che dipende dalle dimensioni relative della stella e del pianeta e dalla relativa geometria rispetto alla Terra.

Ad esempio, nel caso di HD209458-b riportato nell’immagine sopra, la diminuzione della luminosità della stella causata dal transito è dell’1,7%, una quantità piccola ma misurabile con precisione adottando opportune tecniche di acquisizione e riduzione dei dati fotometrici.

Kepler ha monitorato per quasi 4 anni 150000 stelle poste in una piccola regione di cielo compresa tra le costellazioni del Cigno, della Lira e del Dragone. Lavorando nello spazio ha potuto raggiungere una precisione fotometrica nettamente superiore a quella ottenibile da qualunque telescopio terrestre. Dall’inizio della missione a luglio 2013, Kepler ha scoperto 134 esopianeti confermati in 76 sistemi stellari, insieme con altri 3.277 candidati pianeti non confermati. Nel novembre 2013 gli astronomi hanno riferito che, sulla base dei dati della missione Kepler, potrebbero esistere fino a 40 miliardi di pianeti delle dimensioni della Terra che orbitano nelle zone abitabili di stelle simili al Sole e alle nane rosse all’interno della Via Lattea. 

Tra gli esopianeti individuati dalla missione Kepler vi è Kepler 78b, il pianeta più simile alla Terra mai osservato. Si tratta di un esopianeta orbitante attorno ad una stella distante circa 700 anni luce da noi. Kepler 78b è inoltre il più piccolo esopianeta di cui si è riusciti a misurare massa, raggio e densità con elevata precisione. Le misure sono state effettuate utilizzando il metodo della velocità radiale. In questo caso l’effetto doppler è accentuato dalla vicinanza tra il pianeta e la sua stella madre, pari a meno di 2 raggi stellari. Il tutto è stato reso possibile grazie allo studio delle variazioni di luce della stella madre di Kepler 78b attraverso lo spettrometro HARPS-N del Telescopio Nazionale Galileo delle Canarie e lo spettrometro Hires del Keck Observatory delle Hawaii. Secondo le misure effettuate da Francesco Pepe e colleghi, riportate sulla rivista “Nature”, Kepler 78b ha una massa pari circa a 1,86 masse terrestri e una densità di 5,3 g/cm^3. Risultati compatibili sono stati ottenuti da Andrew W. Howard e colleghi, i quali nel loro articolo pubblicato sulla stessa rivista hanno riportato una massa pari a 1,96 masse terrestri e una densità pari a 5,57 g/cm^3. Tale densità rivela una composizione di ferro e roccia, proprio come la Terra. Ma c’è una differenza sostanziale tra Kepler 78b e il nostro pianeta. Si tratta dell’elevata vicinanza dell’esopianeta alla sua stella madre. Così la superficie del pianeta raggiunge temperature molto elevate pari circa a 2000°C. Ciò rende Kepler 78b inospitale.

This illustration compares Earth with the newly confirmed scorched world of Kepler-78b. Kepler-78b is about 20 percent larger than Earth and is 70% more massive. Kepler-78b whizzes around its host star every 8.5 hours, making it a blazing inferno. Credit: David A. Aguilar (CfA)

Tuttavia la scoperta di questo esopianeta e delle sue caratteristiche ottenuta grazie ad una collaborazione internazionale a cui ha partecipato l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) rappresenta un’importante tappa nello studio degli esopianeti. Dopo la scoperta di 135 esopianeti e 3548 “candidati esopianeti”, cioè oggetti da verificare attraverso altre osservazioni, la NASA ha dichiarato la fine della missione Kepler a causa di un guasto ai giroscopi. Ma tra soli tre mesi partirà la missione GAIA il cui obiettivo è quello di misurare con estrema precisione velocità e posizione radiale di circa un miliardo di stelle nella nostra Galassia e in tutto il Gruppo Locale. GAIA traccerà una mappa tridimensionale della nostra Galassia al fine di studiarne composizione ed evoluzione. Fino ad ora sono stati scoperti 787 sistemi planetari, 1039 pianeti e 173 sistemi planetari multipli. Si può consultare la lista di questi oggetti al seguente link: http://exoplanet.eu/catalog/ .

Negli ultimi anni è stato poi ottenuto un risultato notevole: si è riuscito a rilevare per la prima volta la radiazione emessa direttamente da un esopianeta attraverso lo studio della luminosità della stella durante la cosiddetta eclissi secondaria. Quest’ultima si verifica quando l’esopianeta transita dietro alla sua stella. Durante tale eclissi la luce è prodotta solo dalla stella, quindi si sfrutta questo dato per ricavare la luce dell’esopianeta e della sua atmosfera sottraendo la luce stellare a quella totale del sistema quando il pianeta non è eclissato. Tale analisi fatta a differenti lunghezze d’onda consente di costruire lo spettro dell’atmosfera dell’esopianeta. E’ iniziato così lo studio delle atmosfere esoplanetarie. Tali studi sono stati effettuati in un primo momento solo sui cosiddetti “Giove caldi”, ovvero esopianeti molto simili a Giove, a causa delle loro maggiori dimensioni. A differenza del nostro Giove però questi esopianeti osservati hanno orbite 100 volte più vicine alla loro stella rispetto alla distanza tra Giove e il Sole. Calcoli effettuati sulla base delle osservazioni astronomiche hanno mostrato che i “Giove caldi” analizzati presentano una densità circa pari a 1 g/cm^3. E’ stato quindi, ipotizzato che il loro componente principale sia l’idrogeno e ciò fa sperare che tali atmosfere rispecchino la composizione primordiale dell’intero sistema planetario di cui fanno parte. Lo studio delle atmosfere è in sé molto complicato perché bisogna tener conto della complessità delle interazioni tra caratteristiche radiative, dinamiche e chimiche dell’atmosfera e forse anche dei campi magnetici. L’obiettivo per molti ricercatori è quello di riuscire a ottenere spettri delle atmosfere di esopianeti di tipo terrestre per riuscire a rispondere alla famosa domanda: “siamo soli?” Sono state inoltre individuate delle Super-Terre ovvero dei pianeti esterni al Sistema Solare molto simili alla Terra ma con massa e raggio maggiori rispetto ad essa. Questi pianeti orbitano attorno a nane rosse probabilmente a una distanza 10-100 volte inferiore rispetto alla distanza Terra – Sole. Essendo la temperatura delle nane rosse inferiore a quella del Sole, questi pianeti potrebbero trovarsi nelle condizioni favorevoli per avere acqua allo stato liquido sulla loro superficie. Attorno a nane rosse sono stati poi individuati i cosiddetti pianeti nettuniani, con masse pari a 10-15 volte la massa della Terra. Su uno di essi in particolare, GJ3470b, si è focalizzata l’attenzione dei ricercatori dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). Grazie ai dati ottenuti attraverso l’utilizzo dell’LBT (Large Binocular Telescope), confrontando i valori di assorbimento alle varie lunghezze d’onda è stata ricavata la composizione gassosa dell’atmosfera, rivelando come essa sia per certi aspetti simile alla nostra. L’atmosfera di GJ3470b sembra, infatti, contenere elementi più pesanti rispetto a idrogeno ed elio. Questi elementi sono mescolati a pulviscolo che fa sì che l’atmosfera sia più sensibile alla diffusione della radiazione blu. Si pensa quindi che su questo pianeta ci sia un cielo azzurro molto simile al nostro. Sono state progettate così diverse missioni allo scopo di studiare meglio le atmosfere di questi esopianeti come l’Exoplanet Characterization Observatory (EChO) e il Fast Infrared Exoplanet Spectroscopy Survey Explorer (FINESSE).

Ma esistono altri modi per cercare esseri intelligenti in altri sistemi solari? In questo contesto si colloca il programma SETI acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence. L’idea è quella di riuscire a captare eventuali segnali radio inviati da esseri che vivono su altri pianeti e che come noi sono curiosi di sapere se sono soli o meno. L’idea di utilizzare le radio-onde per la comunicazione interstellare venne da due fisici della Cornell University, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison. Questi ultimi proposero, nel 1959, di puntare i radiotelescopi verso stelle di tipo solare e di cercare segnali radio. Occorre però osservare il cielo alla giusta frequenza. Nel 1960 in West Virginia, Frank Drake, astronomo della Cornell University puntò il grande telescopio Tatel di ben 26 metri di diametro, verso le stelle Tau Ceti ed Epsilon Eridani. Iniziò così il primo moderno esperimento SETI. Drake osservò le due stelle alla frequenza di 1420 MHz, valore corrispondente alla linea di emissione dell’idrogeno neutro. Se si considera che l’idrogeno è il principale componente dell’Universo appare chiara l’importanza di tale linea di emissione. Essa viene utilizzata in radioastronomia per studiare l’estensione e il moto della nostra Galassia. Tuttavia uno dei maggiori problemi di questo progetto deriva dalla cosiddetta finestra temporale. Occorre cioè che le civiltà in questione siano sviluppate a tal punto da essere in grado ricevere e inviare messaggi nello spazio interstellare con tempistiche compatibili. Questa capacità è stata da noi acquisita da poco più di un secolo. Per cui, come spiega Margherita Hack: “Se anche il dialogo fosse possibile, il segnale partito da una stella a 100 anni luce da noi ci arriverebbe 100 anni dopo e la nostra risposta arriverebbe dopo altri 100 anni”. Nonostante l’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati, per il momento l’esito degli esperimenti condotti è negativo. Il 15 Agosto del 1977 è stato captato un forte segnale radio a banda stretta che apparentemente non proveniva né dalla Terra né dal resto del Sistema Solare. Tale segnale, a cui venne dato il nome di “Segnale Wow!”, dal commento che il dottor Jerry R. Ehman scrisse a fianco ad esso, durò 72 secondi e non si ripeté mai più. Inoltre nel 2011 il SETI ha segnalato la ricezione di due altri strani segnali captati puntando le antenne verso alcuni esopianeti scoperti dalla missione Kepler. Anche questi segnali però, non si sono più ripetuti, pertanto si ritiene siano stati prodotti da interferenze terrestri. Nonostante ciò il programma SETI continua, anche senza il sostegno della NASA e del governo degli Stati Uniti che hanno perso il loro interesse. Il progetto viene quindi finanziato da privati o portato avanti da volontari nei radio osservatori.

In Italia il referente è Stelio Montebugnoli (INAF-IRA, Direttore SETI Italia e radiotelescopi di Medicina, Bologna).

Così la ricerca di altre forme di vita fuori e all’interno del nostro Sistema Solare continua senza sosta, con nuove missioni e strumenti sempre più avanzati. Chissà forse un giorno potremo riuscire ad abbracciare un nostro amico alieno, solo il tempo potrà dirlo. Tra l’altro molte cose che un tempo si consideravano impensabili, ora sono possibili.  

La ISS, la nostra casa nello Spazio – Margherita Maglie

La ISS transita nel cielo sopra il Faro di Santa Maria di Leuca

Spesso e volentieri confusa con la casetta volante di un extraterrestre curioso, la ISS, per esteso International Space Station, non ha un gran bisogno di presentazioni per gli appassionati di astronautica, ma merita di esser raccontata, almeno in breve, anche a coloro che, come è successo a me qualche anno fa, credono che una navicella spaziale aliena sia rimasta incastrata nell’orbita terrestre. Si tratta di una sorta di “casa” orbitante a circa 360 km dalla Terra, grande quanto un campo da calcio, dedicata essenzialmente a ricerche di carattere scientifico e tecnologico, come gli esperimenti relativi alla microgravità, di cui ci occuperemo più avanti. La sua velocità media è di quasi 28.000 km/h e compie 15.72 orbite (quasi circolari) al giorno, perdendo quotidianamente, a causa dell’attrito atmosferico, 103 m di quota, che son poi recuperati una volta l’anno tramite l’ausilio di due motori principali.

Il primo modulo della Stazione Spaziale fu lanciato nel 1998, dopo che sedici Nazioni, tra cui l’Italia, si accordarono per collaborare ad un progetto grandioso, sia dal punto di vista del progresso scientifico che dal punto di vista economico, oltre che esempio mirabile di collaborazione internazionale. Quantificando “grandioso” , come ha già fatto per noi Herman Bondi, ex direttore generale dell’Organizzazione europea per la ricerca spaziale, ci accorgiamo di come l’abitudine a contare i milioni di miliardi in termini di denaro, senza percepire il peso di ciò di cui si sta parlando, sia la causa principale di alcune asserzioni insensate, prima tra tutte “Questa inutile ricerca spaziale, quanto ci costa!”. Tanto per avere un’idea, la spesa annuale pro capite dedicata al programma spaziale è di circa 20 dollari. Per avere un confronto, invece, si pensi che i soli USA investono fino a 400 dollari pro capite in armamenti militari.

La ISS è un concentrato di tecnologia. Con oltre 1000 ore di lavoro di assemblaggio e di passeggiate spaziali alle spalle, si stima che sarà operativa fino al 2028, continuando ad alimentarsi tramite i pannelli fotovoltaici posizionati esternamente sull‘ITS, Integrated Truss Structure, che convertono l’energia solare in corrente elettrica. L’abitabilità all’interno non è meno complessa da gestire: oltre ad un sistema GPS per il controllo dell’altitudine e a dei giroscopi per il controllo dell’orientamento, la Stazione è dotata di un sistema di supporto vitale che monitora le condizioni atmosferiche, la pressione, il livello di ossigeno e mantiene tali parametri su valori adeguati alla sopravvivenza degli astronauti, ricicla i fluidi provenienti dai servizi igienici e condensa il vapore acqueo. L’anidride carbonica viene rimossa dall’aria da un apposito sistema (Vozdukh), mentre tutti gli altri prodotti umani (il sudore ad esempio) sono filtrati tramite il carbone attivo; quest’ultimo infatti assorbe la maggior parte delle sostanza organiche e consente quindi la depurazione degli aeriformi. IssL’Ossigeno, invece, è prodotto tramite l’elettrolisi dell’acqua, ossia la scomposizione dell’acqua tramite il passaggio di corrente elettrica. I rifiuti solidi, trattati a parte, sono raccolti in sacchetti individuali e smaltiti nel veicolo Progress. La vita dell’astronauta è in questo senso abbastanza sacrificata: l’acqua a bordo infatti è un bene prezioso e per l’igiene quotidiana ogni passeggero ha a disposizione articoli limitati come salviette umidificate, shampoo a secco e dentifricio commestibile. Il cibo è refrigerato o in scatola e la dieta è prescritta prima della missione. Si presta molta attenzione agli alimenti friabili che potrebbero intasare i filtri con le briciole e le bevande, per lo stesso motivo, sono aspirate tramite cannuccia.

La giornata di un astronauta a bordo della ISS inizia presto: la sveglia è alle 06:00 del mattino, sincronizzata con il Coordinated Universal Time, orario del fuso di Greenwich. Si lavora circa dieci ore in un giorno feriale e cinque ore il Sabato, dedicando al riposo solo il tempo rimanente. I nostri inviati lassù si occupano principalmente di ricerca medico-biologica, di test sull’ elettromagnetismo, sulla robotica e sul comportamento di combustibili e fluidi nello spazio. Questa piattaforma scientifica, infatti, permette ai ricercatori di tutto il mondo di impiegare il proprio talento con esperimenti innovativi che non potrebbero essere realizzati in nessun altro luogo. Per quanto riguarda la medicina, ad esempio, è stato possibile studiare e comprendere  i meccanismi di alcuni processi fisiologici altrimenti mascherati dalla gravità e lo sviluppo di nuove tecnologie mediche e protocolli guidati dalla necessità di sostenere la salute degli astronauti. I progressi nella telemedicina, i sistemi di risposta allo stress psicologico, l’alimentazione, il comportamento delle cellule, e la salute ambientale sono solo alcuni esempi dei benefici che sono stati ottenuti dall’ ambiente unico offerto dalla microgravità della stazione spaziale. La microgravità sembra dunque rendere fertile il territorio all’innovazione, non solo medica. Immaginate la soddisfazione di un ingegnere che sperimenta il suo nuovo braccio robotico nell’ambiente per cui è stato progettato: un bambino con le mani piene di caramelle. Tuttavia è proprio la ZERO-G la causa dei problemi fisici più evidenti a bordo; la apparente e prolungata assenza di peso, infatti, indebolisce le ossa e i muscoli, generando atrofia e osteopenia; l’apparato circolatorio funziona in modo differente e si ha una ridistribuzione dei liquidi corporei. Per questo motivo è importante praticare costantemente attività fisica: a bordo si hanno a disposizione tapis roulant e cyclette a cui ci si vincola tramite corde elastiche. Lo stress del sistema vestibolare dell’orecchio, responsabile dell’ equilibrio, è l’ennesima causa di malessere per gli astronauti; quest’ultimo infatti provoca il famigerato senso di nausea, noto come “mal di spazio”, che tuttavia è destinato a svanire nell’arco di 72 ore.

La stazione spaziale è anche un occhio per l’osservazione globale e la diagnosi del nostro Pianeta: essa offre un punto di vista unico per osservare gli ecosistemi della Terra con apparecchiature manuali ed automatizzate. Gli equipaggi della Stazione possono osservare e riprendere con le telecamere le immagini di eventi che si svolgono in diretta e questa flessibilità rappresenta un vantaggio rispetto al supporto che possono offrire dei sensori installati su veicoli spaziali senza equipaggio, soprattutto quando si verificano eventi naturali imprevisti come eruzioni vulcaniche e terremoti. Le comunicazioni con la Terra avvengono tramite radiocollegamento, ossia tramite l’invio di segnali elettromagnetici appartenenti alle microonde dello spettro elettromagnetico, detta anche banda radio. Nelle comunicazioni essenzialmente si trasmettono i dati degli esperimenti scientifici, le procedure di aggancio con altre navette per il rifornimento o anche trasmissioni di audio e video tra astronauti e famiglie. Per questo motivo, l’ISS è dotata di molteplici sistemi di comunicazione, dei quali uno appositamente dedicato alla divulgazione scientifica per scuole e Università. La stazione spaziale, infatti, ha una capacità unica di catturare l’immaginazione di studenti e docenti di tutto il mondo e la presenza umana a bordo della stazione è stata la base per numerose attività educative volte a catturare l’interesse e accrescere la motivazione per lo studio delle scienze come per la tecnologia, l’ingegneria e la matematica. La sicurezza tuttavia non è solo questione di comunicazione: i lanci di Shuttle o in generale di moduli diretti verso la Stazione sono stati in passato il teatro preferito di incidenti mortali. Primo tra tutti, il disastro dello Space Shuttle Columbia avvenuto il 1º febbraio 2003, a cui son poi seguiti problemi legati a componenti della Stazione stessa (essenzialmente pannelli solari e sistemi di raffreddamento, questi ultimi costruiti dalla Boeing). Un’altra minaccia alla salute della nostra stazione orbitante è senz’altro l’esagerata quantità di detriti spaziali in orbita intorno alla Terra, i quali, impattando, sarebbero in grado di bucare i moduli pressurizzati e causare danni anche molto gravi. Il tutto è comunque monitorato da terra e l’equipaggio è avvertito con tempestività nel caso in cui un oggetto sia in rotta collisione; una comunicazione efficace consente infatti di intraprendere in tempo una manovra detta Debris Avoidance Manoeuvre (DAM) che utilizza dei propulsori per modificare l’altitudine orbitale della stazione ed evitare il detrito.

Dal 28 Maggio all’11 Novembre abbiamo avuto l’onore di essere rappresentati nella Missione “Volare” dal Maggiore Luca Parmitano, classe 1976. Nella sua permanenza a bordo della Stazione Spaziale, Parmitano ha orbitato intorno alla Terra ben 2656 volte, ma come ha dichiarato alla Stampa in un’intervista, al ritorno: “Ho sentito forte l’odore della terra bagnata e mi sono emozionato ai colori dell’alba”. A bordo sono stati condotti ben 30 esperimenti scientifici, mentre delle due passeggiate che erano state previste solo la prima è andata a buon fine, con una durata di poco più di sei ore. La seconda, invece,  è stata prontamente interrotta nei primi 90 minuti di operazione, a causa della presenza di acqua nel casco dell’astronauta. Il lungo addestramento e il grande autocontrollo hanno permesso a Parmitano il rientro sano e salvo all’interno della Stazione. Personalmente, trovo coraggiosa la scelta di diventare un astronauta. Da bambini attendiamo con ansia che qualcuno ci chieda “cosa vuoi fare da grande?”, da bambini non abbiamo paura dei progetti e del futuro. Poi, crescendo, dimentichiamo come si fa. Se un giorno dovessi essere un astronauta in pensione e qualcuno dovesse chiedermi “cosa vuoi fare da grande?”, vorrei rispondere ”l’astronauta.”: più felice di un bambino con le sue caramelle!