Colori e Temperature delle Stelle – Domenico Licchelli e Francesco Strafella



Entrando in una stanza scarsamente illuminata ognuno di noi si accorge di una istantanea perdita di sensibilità visiva. La spiegazione di questo fenomeno sta nella struttura dell’occhio umano. Quando la radiazione luminosa arriva sulla retina stimola le terminazioni nervose in essa contenute: i CONI e BASTONCELLI.
I Coni, i quali sono maggiormente concentrati in una zona centrale della retina (detta, Fovea), operano solo in presenza di alti livelli d’illuminazione. Essi inoltre consentono di discriminare i colori e di avere una buona risoluzione dei dettagli.
I Bastoncelli sono la stragrande maggioranza di recettori luminosi presenti nella retina, circa 120 milioni contro i 7 dei coni, e si trovano soprattutto in periferia. Essi operano in condizioni di bassa luminosità e sono insensibili ai colori; per questo motivo nel caso in cui si è in ambiente scotopico (scarsamente illuminato) l’occhio umano non percepisce i colori ma solo sfumature di grigio.
Da questo si capisce che in visione notturna il nostro sistema visivo può fare affidamento solo sui bastoncelli. Questi ultimi per un completo adattamento a condizioni di bassa illuminazione necessitano in genere di un periodo compreso tra i 45 e i 60 minuti.
Trascorso questo intervallo, con il sistema completamente adattato si può notare che:
• La visibilità degli oggetti è maggiore nella zona centrale che in quella periferica del campo visivo questo perché la minima distanza angolare per distinguere separati due oggetti è rappresentata dalla stimolazione di almeno tre campi recettivi. Nella zona centrale della retina i campi recettivi sono formati da un solo fotorecettore, perciò stimolando due coni e lasciando un terzo non stimolato si potrebbe distinguere due oggetti separati. In caso di visione notturna la massima sensibilità si ha nei campi recettivi perifèrici, che però sono molto grandi (formati anche da milioni di bastoncelli) quindi il potere risolutivo è notevolmente più basso
• I colori sono percepiti solo come diverse tonalità di grigio in quanto i bastoncelli (fotorecettori deputati alla visione notturna ) sono insensibili ai colori. Quando l’occhio si è adattato all’oscurità , la sensibilità massima si sposta verso lunghezze d’onda più corte. Mentre i 555 nanometri della visione fotopica corrispondono al colore giallo-verde, i 510 della visione scotopica corrispondono al blu-verde. Al diminuire della luminosità generale dell’ambiente l’occhio perde la sensibilità per le tonalità del rosso e però distingue ancora bene i verdi, gli azzurri e i blu. Al calare delle tenebre , secondo il tipico comportamento dell’occhio umano chiamato “effetto Purkinje”, il rosso appare nero, mentre il verde mantiene ancora la sua cromaticità.
La sensibilità dell’occhio umano in visione notturna è influenzata da diversi fattori quali:
• Età: in genere la visione notturna dei giovani è più acuta di quella degli anziani
• Dieta: una alimentazione ricca di vitamina A migliora la visione crepuscolare, in quanto si comporta da enzima nella produzione di rodopsina.
• Condizioni fisiche: l’adattamento è favorito da buone condizioni di salute generale e in particolare dallo stato di salute dell’occhio
• Ereditarietà: un singolo gene può trasmettere una buona o cattiva capacità d’adattamento

Come si traduce tutto ciò nell’osservazione delle stelle? Ad occhio nudo si riesce a distinguere abbastanza bene il colore di pochissime stelle, le più luminose e generalmente di colore rosso, arancio o giallo. Quelle blu le percepiamo come bianche con qualche sfumatura sull’azzurro. In realtà molto dipende dalla trasparenza del cielo, dal tasso di umidità e dalla presenza di polveri in atmosfera. Quest’ultima componente, in particolare, tende a diventare dominante sotto cieli cittadini e/o vicini ad impianti industriali. In questo caso si assiste ad un generale arrossamento, come avviene per esempio col sole al tramonto.
Passando all’osservazione con telescopi più o meno potenti, riusciamo ad apprezzare meglio i colori ma subentrano alcuni effetti, ottici e di elaborazione del cervello, che possono fuorviare. Se lo strumento non è perfettamente apocromatico (dall’ottica principale agli oculari), il colore è fortemente influenzato dallo spettro secondario, generalmente blu-viola che rende difficile valutare il reale colore della stella. Osservando stelle doppie strette, a tutto ciò si aggiunge un eccessivo “zelo” del cervello che tende a farci vedere la compagna, solitamente un po’ più debole, del colore complementare, anche se per esempio la stella è in realtà bianca (principale gialla, secondaria blu, oppure rossa-verdastra etc.). Come si fa quindi a capire il vero colore della stella?

Breve digressione sui colori dell’arcobaleno

Molte informazioni sulla natura di una sorgente luminosa sono codificate nel cosiddetto “spettro” della luce che, nel caso del Sole, possiamo vedere anche ad occhio nudo quando osserviamo il fenomeno dell’arcobaleno che dimostra in maniera evidente che la luce del Sole, che a noi appare di un unico colore bianco, nelle particolari condizioni che si verificano dopo un temporale, quando ci sono ancora goccioline d’acqua in sospensione in atmosfera ed il Sole è basso, si può scomporre nelle sue componenti che si mostrano come una sequenza di archi contigui proiettati in cielo con colori ed intensità diversi.

Genesi dell’arcobaleno – Cortesia Livio Ruggiero

Alaska. Denali NP. Alaska Range. Rainbow above Muldrow Glacier.

Un fenomeno simile lo possiamo osservare anche se facciamo passare la luce di una lampada ad incandescenza attraverso un prisma: dopo l’attraversamento del prisma la luce bianca, inizialmente collimata in un sottile fascio, uscirà scomposta nelle sue componenti in direzioni diverse e con colori diversi. Un modo per capire cosa succede è di pensare che la nostra lampada in realtà emette una luce che è una mescolanza di radiazioni di vari colori. Nel suo passaggio attraverso il prisma le differenze tra vari colori si evidenziano perché la radiazione, entrando nel prisma, viene rifratta (come fosse “piegata”) ad angoli diversi a seconda della lunghezza d’onda, ovvero a seconda del colore. All’uscita dal prisma si noterà che la radiazione blu viene “piegata” più della rossa in modo che i vari colori emergano ad angoli diversi formando così una specie di arcobaleno.

Rifrazione di un fascio di luce bianca con un prisma

Notiamo ora che abbiamo introdotto il termine “lunghezza d’onda” in associazione al “colore della luce” e quindi abbiamo implicitamente adottato l’idea che la nostra percezione del colore sia legata alla lunghezza d’onda della radiazione o, meglio, alla combinazione di radiazioni di diversa lunghezza d’onda che mescolandosi compongono la luce emessa da una sorgente luminosa.

Siamo più pronti ora ad usare l’espressione “spettro della luce” per indicare la sequenza di intensità e di lunghezze d’onda (e quindi di colori) emesse da una data sorgente luminosa, tenendo presente che le lunghezze d’onda delle radiazioni che producono un colore blu sono tipicamente più piccole di quelle che invece producono il rosso.

Oltre che a scaldare e fornire energia, quale altra informazione porta con sé la luce del Sole?

Per rispondere a questa domanda ci può guidare un’analogia con un pezzo di ferro scaldato da un fabbro: osserviamo che all’aumentare della temperatura il colore del metallo ci appare prima nero, poi rosso, giallo ed infine, alla temperatura più alta, diventa bianco. Il fabbro può usare allora il colore come un termometro per valutare la temperatura del metallo, cosa che effettivamente fa.

Possiamo ripetere questa esperienza in casa osservando come cambia il colore del filamento di una lampada a luminosità variabile. Ci rendiamo conto facilmente che la luce è minima quando il filamento è più freddo e rosso, mentre aumenta man mano che il filamento si riscalda e tende al colore bianco.

Date queste osservazioni possiamo fare due considerazioni:

  1. un corpo emette più radiazione quando è caldo rispetto a quando è freddo;

  1. un corpo caldo appare più bianco di uno freddo, che invece tende più al rosso.

Siccome le stelle sono corpi caldi che emettono luce con modalità analoghe a quelle del filamento della nostra lampada, useremo le considerazioni fatte poc’anzi per dire che il colore delle stelle può essere usato come indicatore della temperatura di superficie, cioè della regione da cui proviene la luce stellare. Assumendo che le stelle si comportino come corpi neri, il massimo della loro emissione, e quindi il loro colore, è funzione della temperatura (Legge di Wien), così come le righe degli elementi presenti, facilmente individuabili proprio con lo spettroscopio.



Spettri di emissione del corpo nero a diverse temperature. Si nota come al crescere di T il massimo di emissione si sposta verso le lunghezze d’onda inferiori, ossia verso il blu, come previsto dalla Legge di Wien (lambdamax*T = costante)

Come valutare la temperatura misurando il colore

Dalle precedenti osservazioni potremmo già dire che le stelle blu hanno superfici più calde delle stelle rosse, ma per passare all’effettiva valutazione della temperatura delle superfici bisogna fare ancora un passo in più. Per questo abbiamo bisogno di riprendere il concetto di “spettro della radiazione” che abbiamo introdotto a proposito della luce dell’arcobaleno e che misura l’andamento della intensità dell’emissione (la brillanza) al cambiare della lunghezza d’onda (il colore).

Nella figura seguente sono rappresentati gli spettri emessi da una sorgente a tre temperature diverse; si nota che, se misuriamo le intensità a due diverse lunghezze d’onda, troviamo valori differenti al variare della temperatura dello spettro. In altre parole il rapporto delle intensità della luce a due diverse lunghezze d’onda cambia al cambiare della temperatura e quindi è una quantità che può essere utilizzata per ricavare la temperatura quando non possiamo porre un termometro a contatto con la nostra sorgente luminosa ma ne possiamo solo osservare lo spettro.

Grafico esplicativo del concetto di Temperatura di colore. Per chiarire le differenze con la Fig.1 precedente si noti che, per evidenziare meglio il comportamento dello spettro al variare della temperatura, abbiamo usato scale logaritmiche. Inoltre le lunghezze d’onda sono state espresse come frequenze usando la relazione: lunghezza d’onda x frequenza = velocità della luce.

Il gioco è fatto: basandoci sull’esperienza acquisita studiando il comportamento della luce di una piccola sorgente nei nostri laboratori abbiamo individuato un metodo applicabile alla luce in generale, e quindi anche alla luce proveniente dalle stelle. Possiamo quindi dire di poter valutare le temperature delle superfici stellari misurando la brillanza di una stella a due diverse lunghezze d’onda della luce, evitando in questo modo di fare un viaggio fino alla stella per mettere un termometro a contatto con la sua superficie! Le temperature valutate con il metodo appena descritto vengono indicate spesso con il nome di “temperature di colore”.

Operativamente si utilizza la fotometria per misurare l’intensità della luce che passa attraverso diversi filtri. Ciascun filtro consente il passaggio solo di una parte specifica dello spettro della luce, respingendo tutte le altre. Un sistema fotometrico ampiamente utilizzato è chiamato sistema Johnson-Cousin UBVRI. Impiega filtri passa banda: U (“Ultravioletto”), B (“Blu”), V (“Visibile”), R (Rosso) e I (infrarosso); ciascuno seleziona diverse regioni dello spettro elettromagnetico.

Il processo di fotometria UBVRI prevede l’utilizzo di dispositivi sensibili alla luce come i CCD accoppiati ad un telescopio puntato verso una stella di cui si misura l’intensità della luce che passa attraverso ciascuno dei filtri individualmente. Questa procedura, per esempio con i filtri UBV, fornisce tre luminosità o flussi apparenti (quantità di energia per cm2 al secondo) designati da Fu, Fb e Fv. Il rapporto dei flussi Fu/Fb e Fb/Fv è una misura quantitativa del “colore” della stella, e questi rapporti possono essere usati per stabilire una scala di temperatura per le stelle. In generale, quanto più grandi sono i rapporti Fu/Fb e Fb/Fv di una stella, tanto più calda è la sua temperatura superficiale.

Imaged from ESO’s La Silla Observatory, this photograph brilliantly captures the full Orion constellation and arcs of gas and dust weaving through the constellation. Just to the left of the the Hunter’s three-star belt is the bright Orion Nebula, one of the most well known star-forming regions.

Ad esempio, Bellatrix in Orione ha Fb/Fv = 1,22, indicando che è più luminosa attraverso il filtro B che attraverso il filtro V. inoltre il suo rapporto Fu/Fb è 2,22, quindi risulta più luminoso attraverso il filtro U. Ciò indica che la stella deve essere davvero molto calda, poiché la posizione del suo picco spettrale deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro U, o ad una lunghezza d’onda ancora più corta. La temperatura superficiale di Bellatrix (determinata confrontando il suo spettro con modelli dettagliati che tengono conto delle sue linee di assorbimento) è di circa 25.000 Kelvin.

Possiamo ripetere questa analisi per Betelgeuse. I suoi rapporti Fb/Fv e Fu/Fb sono rispettivamente 0,15 e 0,18, quindi è più luminosa in V e più fioca in U. Quindi, il picco spettrale di Betelgeuse deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro V, o ad un valore maggiore di lunghezza d’onda. La temperatura superficiale di Betelgeuse è di soli 2.400 Kelvin.

Gli astronomi preferiscono esprimere i colori delle stelle in termini di differenza di magnitudine, piuttosto che di rapporto di flussi. Pertanto, tornando alla blu Bellatrix abbiamo un indice di colore pari a

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (1,22) = -0,22,

Allo stesso modo, l’indice di colore per la rossa Betelgeuse è

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (0,18) = 1,85

Gli indici di colore, come la scala delle magnitudini, vanno all’indietro. Le stelle calde e blu hanno valori B-V più piccoli e negativi rispetto alle stelle più fredde e rosse.

Un astronomo può quindi utilizzare gli indici di colore di una stella, dopo aver corretto l’arrossamento e l’estinzione interstellare, per ottenere una temperatura accurata di quella stella.

Il Sole con una temperatura superficiale di 5.800 K ha un indice BV di 0,62.

Domenico Licchelli e Francesco Strafella