Marte, il quarto pianeta a partire dal Sole, è dopo Venere il pianeta più vicino alla Terra. Anche noto come Pianeta Rosso per la sua caratteristica colorazione, Marte orbita alla distanza media di 1.524 u.a. dal Sole, con un periodo di rivoluzione di 1.88 anni terrestri e presenta un moto di rotazione attorno al suo asse della durata di 24h37m22.6s, molto vicino al valore terrestre di 23h56m04s. Un’ulteriore analogia tra Marte e Terra riguarda l’asse di rotazione dei due pianeti. Per il Pianeta Rosso tale asse presenta un’inclinazione sul piano orbitale di 25.19°, valore di poco superiore rispetto a quello terrestre pari a 23.45°. Ciò determina la presenza su Marte di un ciclo stagionale analogo a quello terrestre, anche se le stagioni marziane hanno una durata doppia rispetto alle nostre a causa del maggiore periodo orbitale rispetto a quello terrestre. A differenza degli altri pianeti del Sistema Solare Marte ha quindi molte caratteristiche in comune con la Terra, motivo per il quale è stato sempre associato agli extra-terresti, in questo caso meglio noti come marziani.
Il mito dei marziani è nato in seguito alle osservazioni dell’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli che studiò Marte dall’osservatorio di Brera negli anni tra il 1877 e il 1881. Egli si accorse della presenza di una serie di linee scure sulla superficie del pianeta che chiamò “canali” interpretandoli come mari. In determinati periodi i “canali” sembravano sdoppiarsi e la superficie del pianeta pareva cambiare il suo colore. inoltre, il termine canali utilizzato da Schiapparelli venne tradotto in inglese come “canals”, termine che indica opere artificiali e non “channels”, che invece denota strutture naturali. Queste due osservazioni alimentarono l’immaginazione dell’uomo portando alcuni astronomi a pensare che si trattasse appunto di canali artificiali creati da ipotetici abitanti del pianeta con lo scopo di irrigare i loro campi. Tutti iniziarono così a credere che Marte fosse realmente abitato. Nel frattempo Vincenzo Cerulli, un altro astronomo italiano, dal suo osservatorio privato di Teramo scoprì la vera origine dei “canali”. Cerulli si accorse che si trattava di semplici illusioni prodotte dalla mente dell’uomo proprio come accade quando guardando le nuvole scorgiamo in esse forme e figure particolari frutto della nostra immaginazione. D’altra parte se i canali visti da Schiaparelli fossero stati reali si sarebbero dovuti vedere meglio all’avvicinarsi del pianeta cosa che invece non accadeva. Grazie all’utilizzo di sonde orbitanti attorno al Pianeta Rosso le osservazioni di Cerulli furono confermate.
Mars Map 1890 Giovanni Schiaparelli
Marte non presenta canali artificiali ne’ ospita forme di vita evolute. Tuttavia l’interesse per il Pianeta Rosso continua, citando Schiaparelli “Vi è in Marte un mondo intiero di cose nuove da studiare, eminentemente proprie a destare la curiosità degli osservatori e dei filosofi, le quali daranno da lavorare a molti telescopi per molti anni.” Vediamo quali sono le caratteristiche di questo affascinante pianeta. Nonostante le analogie elencate, esistono anche diverse differenze tra Marte e il nostro pianeta. Il Pianeta Rosso risulta essere più piccolo e meno denso della Terra. La sua densità media di 3.93 g/cm^3 è inferiore al valore terrestre di 5.52g/cm3 e la sua massa pari a 6,4185 ×1023kg è un decimo di quella terrestre. Da tali valori scaturisce che Marte ha una percentuale di ferro inferiore a quella della Terra e quindi un nucleo più piccolo. inoltre, a causa della sua piccola massa, l’accelerazione di gravità sul pianeta è di 3.71m/s2 e la velocità di fuga è pari a 5.03km/s. Il valore di questa velocità, non sufficientemente elevata per impedire ai gas atmosferici di abbandonare il pianeta, ci permette di spiegare la rarefazione dell’atmosfera marziana (Carbognani, 1999).
Marte non è perfettamente sferico: il suo appiattimento è maggiore di quello della Terra. La differenza di 20 km circa tra raggio polare e raggio equatoriale dipende principalmente dalla rotazione del pianeta. inoltre, Marte non è dotato di campo magnetico globale di tipo dipolare come la Terra, ma sono stati osservati (principalmente nell’emisfero sud del pianeta) campi magnetici locali che per certi aspetti costituiscono l’analogo delle anomalie magnetiche terrestri. Tali campi, rilevati sulla superficie di Marte, si pensa siano il frutto di una magnetizzazione residua che risale al periodo di raffreddamento della crosta, quando il nucleo del pianeta era ancora in grado di generare un campo magnetico per effetto dinamo (Carbognani, 1999). Marte ruota attorno al Sole con un’eccentricità orbitale di 0.0934 che fa sì che la distanza Terra – Marte vari in modo significativo da un valore di d ~ 55 × 106 km, quando l’opposizione avviene al perielio, fino ad un valore di d ~ 92 × 106 km, quando l’opposizione avviene all’afelio (Bakouline et al., 1975). Gli astronomi chiamano questi eventi opposizione perché Marte e il Sole vengono a trovarsi su lati opposti del cielo. Essi rappresentano inoltre, i momenti migliori per osservare il Pianeta Rosso che da puntino rosso man mano che si avvicina inizia a svelare i dettagli della sua superficie che risultano visibili anche da piccoli telescopi. Proprio in questi giorni Marte si è avvicinato sempre di più alla Terra, riducendo la sua distanza di 300 km ogni minuto fino a raggiungere la distanza minima di circa 92 × 106 km il 14 Aprile. E’ quindi il momento giusto per osservare Marte.
Figura 1 – Immagini del Pianeta Rosso nel mese di Marzo 2014. Si può notare l’aumento delle dimensioni del pianeta e dei dettagli visibili della sua superficie. All with the same equipment set-up. (LX200ACF 12 in. OTA, CGE mount, Flea3 Ccd, TeleVue 3x barlows, Astronomik RGB filter set.)
Non sarà difficile trovare Marte in cielo in queste notti. Il Pianeta Rosso sarà nella costellazione della Vergine poco distante da Spica. Osservando il pianeta Rosso in questi giorni possiamo notare come esso sia estremamente variegato; l’osservazione al telescopio rileva la presenza sulla sua superficie di:
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Calotte polari – macchie bianche che si formano attorno ai poli in autunno e scompaiono all’inizio dell’estate;
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Continenti (anche detti Deserti) – sono delle distese omogenee di un caratteristico colore arancione chiaro che ricoprono i 2/3 della superficie marziana. Tali zone sono formate da un terreno relativamente liscio su cui si è depositata una spessa coltre di polvere. Al contrario delle calotte polari i continenti non sono soggetti a variazioni stagionali ma possono subire cambiamenti nel corso dei secoli;
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Mari – regioni scure che presentano un colore ocra – marrone che si estendono per un 1/3 della superficie del pianeta e corrispondono ad aree piene di crateri dove il ricoprimento di polvere non è continuo. Ciò lascia intravedere il colore scuro della roccia sottostante. Anche i mari, così come le calotte polari, variano con il passare delle stagioni. Risulta infatti che il contrasto tra regioni chiare e scure sia minimo durante l’inverno. Tali variazioni sono legate allo spostamento delle polveri generato dall’azione meccanica dei venti. Si nota una sorprendente disparità tra l’emisfero settentrionale e quello meridionale. Quest’ultimo è a quota elevata, predominano infatti gli altopiani (highlands), ed è fortemente craterizzato (indizio di una superficie antica). L’emisfero settentrionale è invece costituito da bassipiani (lowlands) ed è caratterizzato da pianure che costituiscono la parte più giovane del pianeta. Le lowlands sono di origine vulcanica e presentano uno scarso numero di crateri d’impatto, probabilmente dovuto al fatto che parte di tali crateri sono stati successivamente ricoperti da materiale magmatico.
Marte possiede il più grande vulcano del sistema solare con un diametro pari a 700 km ed un’altezza di ~ 25 km rispetto alle pianure circostanti. Tale vulcano è noto con il nome di Olympus Mons. Attraverso uno studio statistico dei crateri d’impatto congiunto ad un’ analisi di tipo stratigrafico della superficie marziana, i geologi hanno potuto ricostruire la storia del Pianeta Rosso. Vi sono differenti modelli che descrivono la storia geologica marziana. Il modello qui illustrato e attualmente utilizzato è quello di Hartmann et al. (1981) accoppiato alla classificazione di Tanaka (1986) che si basa sulla regola generale in base alle quale le zone che presentano un maggior numero crateri sono le più antiche. Tale modello prevede la divisione della storia geologica di Marte in tre ere:
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Era Noachiana – dal nome della regione della Noachis Terra che si estende nelle antiche regioni delle highlands. Tale periodo è infatti relativo alla formazione dei più antichi materiali esposti sulla superficie del pianeta. L’era Noachiana è datata, secondo Hartmann et al. (1981), dalla formazione del pianeta, avvenuta 4,5 miliardi di anni fa, fino a 3,5 miliardi di anni fa e comprende il periodo dell’intenso bombardamento meteorico di Marte.
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Era Esperiana – dal nome di Hesperia Planitia, il migliore esempio dei territori che si formarono in quel tempo (Tanaka et al., 1992). L’era Esperiana, che comprende l’età intermedia della storia marziana, è datata, secondo Hartmann e colleghi (1981), da circa 3,5 a 1,8 miliardi di anni fa) e inizia dalla fine del periodo dell’intenso bombardamento meteorico.
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Era Amazzoniana – dal nome di Amazonis Planitia. Ha inizio dal periodo di formazione di queste pianure di origine vulcaniche e passando attraverso la formazione dei territori dei depositi stratificati e delle distese di dune intorno ai poli arriva fino all’attuale periodo della storia marziana.
L’atmosfera di Marte è caratterizzata da dettagli temporanei chiamati nuvole che si distinguono in nubi bianche, composte soprattutto da cristalli di ghiaccio e nubi giallastre, costituite da particelle di sabbia e polvere. Queste ultime derivano dal fatto che il pianeta è caratterizzato da frequenti tempeste di polvere estese a tutto il globo e colossali turbini e valanghe di polvere: tutti fenomeni generati dal vento (Albee, 2003). Le tempeste più intense iniziano per lo più nel corso della primavera australe, quando il pianeta si riscalda rapidamente. Durante queste tempeste periodiche i venti sollevano fino ad altezze di 10-15 km la polvere che ricopre il suolo marziano e che, una volta cessata la tempesta, torna a depositarsi sulla superficie del pianeta, conferendogli il caratteristico colore rosso (Orofino, 1998). Studi sull’evoluzione delle tempeste di polvere hanno dimostrato che la superficie di Marte durante e dopo la tempesta è più fredda del normale (Murphy et al., 1990).
Figura 2 – Immagine della superficie di Marte prima e durante una tempesta di polvere (HST)
In termini di particelle per unità di volume l’atmosfera marziana risulta così costituita: 95.3% anidride carbonica, 2.7% azoto, 1.6% argon, 0.13% ossigeno molecolare, 0.07% monossido di carbonio mentre solo lo 0.03% è costituito da molecole d’acqua (Carr, 1981). Tale atmosfera, come già riportato, è molto tenue ed esercita al suolo una pressione totale minore di 1/100 rispetto a quella terrestre. Anche la pressione parziale del vapore acqueo, pari circa a 0,002 mbar, è di gran lunga inferiore a quella terrestre. Come conseguenza di ciò, se si considerano le basse temperature del pianeta (intorno a -55°), si ha che l’acqua non può esistere allo stato liquido ma solo nello stato solido o gassoso. Essa infatti solidifica e sublima velocemente. Il basso contenuto di ossigeno molecolare comporta uno strato di ozono quasi inesistente: ciò fa sì che la radiazione ultravioletta giunga direttamente sul suolo marziano.
Anche l’effetto serra esercitato dall’atmosfera di Marte è molto debole. Tutto ciò spiega le forti escursioni termiche, dovute appunto alla mancanza di un’efficace azione equilibratrice dell’atmosfera. Le temperature possono infatti raggiungere i 25° durante una giornata estiva ma cadono di 100° o più durante la notte. Questo brusco calo delle temperature è anche dovuto alla mancanza di un’azione equilibratrice da parte degli oceani. Come conseguenza di ciò l’acqua allo stato liquido non può esistere sulla superficie marziana. Benché le condizioni fredde e aride del pianeta siano documentate in maniera inequivocabile, l’idea di Marte come mondo perpetuamente congelato è andata sempre più perdendo credito da quando le sonde hanno inviato i primi dati. Nei primi anni del ’70, durante la missione americana Mariner 9, furono identificate sulla superficie marziana delle strutture geologiche che hanno suscitato un notevole interesse dal punto di vista paleoclimatico. Si tratta di solchi incisi nel terreno indicati con il termine canali. Tuttavia questo nominativo risulta spesso improprio perché ciò che effettivamente si osserva, nelle immagini inviate sulla Terra dalle sonde, è l’intera valle fluviale in fondo alla quale si trova il canale vero e proprio (Irwin et al., 2005). Dal punto di vista morfologico i canali vengono suddivisi in tre gruppi:
Canali di deflusso – Solitamente sono molto grandi dal momento che possono raggiungere una larghezza massima pari circa a 100 km e una lunghezza compresa fra i 1000 e i 2000 km. La loro profondità è in genere maggiore di un chilometro (Malin, 1976). Questi canali si dipartono dai così detti terreni caotici, regioni di rocce fratturate e ammucchiate le quali sarebbero collassate quando le acque sotterranee eruppero improvvisamente in superficie per effetto della fusione del permafrost (strato di terreno permanentemente ghiacciato presente al di sotto della superficie del pianeta). Tale processo si ritiene sia stato indotto dal calore rilasciato durante l’attività vulcanica (Masursky et al., 1977). Questi terreni caotici sono caratteristici delle highlands. I canali di deflusso partendo da tali zone si estendono verso l’emisfero settentrionale. Generalmente non possiedono tributari e hanno un’ampiezza iniziale maggiore o uguale a quella della parte finale del loro corso (Malin, 1976). inoltre, la geometria di questi canali sembra indicare velocità elevatissime dei corsi d’acqua. Esempi di canali di deflusso sono la Mangala Vallis, l’Ares Vallis e la Kasei Vallis (vedi figura 3);
Figura 3– Immagine di un tipico canale di deflusso, la Kasei Vallis. L’acqua che ha scavato il canale proveniva dalla regione in basso a sinistra e fluiva verso l’area in alto a destra con un andamento dettato dalla pendenza del terreno. Si noti l’isola dalla caratteristica forma allungata. L’immagine centrata a 20° Nord e 68° Ovest, ha dimensioni di 1130 km x 650 km ed è stata ottenuta mediante l’utilizzo del programma JMARS.
Valli longitudinali (o valli sinuose) – Sono strette e sinuose e hanno lunghezze di centinaia di chilometri e ampiezze di una decina di chilometri (Baker et al., 1992). Questo tipo di valli non si generano mai in terreni caotici. Circa la loro origine sono state avanzate diverse ipotesi. Alcuni ricercatori ritengono che questi canali siano stati scavati dallo scorrimento di acqua superficiale, processo noto come runoff, derivante da piogge (Masursky, 1973), oppure da acque sotterranee risalite in superficie. Molti altri autori, invece, sostengono che queste valli siano state generate da processi di basal sapping, ossia collasso del terreno prodotto dall’affioramento di ghiacci o acque sotterranei (Baker et al., 1992). Il basal sapping si suddivide in ground-ice sapping o ground-water sapping. Quest’ultimo si osserva quando il collasso del terreno è stato provocato dall’affioramento di acque che avrebbero gradualmente eroso il terreno sovrastante fino a causarne il crollo (Craddock e Maxwell, 1993). Nel processo di ground-ice sapping la sublimazione del ghiaccio avrebbe generato il collasso del terreno. In genere le valli originate da processi di runoff hanno una tipica sezione a “V” mentre quelle generate da ground-water sapping mostrano una sezione a “U”. Una tipica valle longitudinale è la Ma’adim Vallis. La figura 4 mostra un altro esempio di valle longitudinale, la Nirgal Vallis. Figura 4 – Valle longitudinale, denominata Nirgal Vallis, che scorre da Nord-Ovest a Sud-Est negli altipiani meridionali marziani, andando a sfociare nel grande canale di deflusso Uzboi Vallis, parzialmente visibile a destra. Si estende per circa 420 km e il fondo della valle è parzialmente coperto da dune e increspature. L’immagine, centrata 29° Sud e 41° Ovest, copre un’area di 500 km x 350 km ed è stata ottenuta grazie al programma JMARS.
Valli dendritiche – Si tratta di sistemi ramificati con un certo numero di affluenti, che vanno a confluire in un unico ramo principale. Sistemi che mostrano affluenti fino al settimo ordine prendono più specificatamente il nome valley networks (Ansan e Mangold, 2006). Solitamente il ramo principale ha un’ampiezza che va aumentano lungo il suo corso. Generalmente queste valli hanno lunghezze inferiori ai 200 km (Carr, 2006), mentre le ampiezze dei rami principali sono dell’ordine del chilometro e le profondità variano dai 50 ai 400 metri (Williams e Phillips, 2001; Kereszturi, 2005). Anche la genesi di questi canali è riconducibile a processi di runoff o ground-water sapping. inoltre, è probabile che la morfologia delle valli così come noi la osserviamo oggi non sia quella originaria. In seguito alla loro incisione nel terreno, tali strutture potrebbero infatti essere state modificate da processi di mass wasting, ovvero cedimento delle pareti laterali della valle, che hanno dato origine a una morfologia tipica del processo di ground-water sapping (Gulick e Baker, 1990). Di fatto le valli dendritiche sono le più simili alle valli fluviali terrestri. Esemplare di questa categoria è il sistema denominato Warrego Valles (vedi figura 5);
Figura 5 – Sistema ben sviluppato di canali dendritici, denominato Warrego Valles, posto negli altopiani meridionali (43° Sud, 93° Ovest). Secondo alcuni ricercatori, questi canali dendritici hanno avuto un’origine principalmente dovuta a precipitazioni atmosferiche e quindi presuppongono un clima più caldo e umido rispetto a quello attuale (Ansan e Mangold, 2006). Immagine ottenuta tramite JMARS, copre un’area di 170 km x 95 km.
Oltre alle valli dendritiche esistono poi un gran numero di canali più piccoli detti gullies (vedi figura 6), molto spesso privi di affluenti, che tendono a disporsi parallelamente su terreni caratterizzati da pendenze molto ripide (Clow, 1987). Tali canali sfociano in aree più basse che probabilmente un tempo erano la sede di laghi o mari.
Figura 6 – Immagine tridimensionale che mostra delle gullies poste all’interno di un cratere d’impatto nei pressi della regione dei Nereidum Montes. L’immagine ha le dimensioni di 90 km x 52 km (dal sito http://mars.jpl.nasa.gov/mars3d/).
Vi sono inoltre, diverse tracce che sembrano suggerire la presenza di un antico oceano (definito come Oceanus Borealis) che avrebbe ricoperto le lowlands dell’emisfero settentrionale (Parker et al., 1989; Helfer, 1990; Schaefer, 1990; Baker et al., 1991; Parker et al., 1993; Di Achille e Hynek, 2010). Prima di tutto, i bassopiani settentrionali sono straordinariamente piatti, e questa caratteristica ha portato a ipotizzare che siano stati fondali marini rivestiti da sedimenti per un periodo significativo della storia marziana. inoltre, grazie all’altimetro laser MOLA della sonda Mars Global Surveyor è stato possibile rilevare che le probabili linee di costa del presunto oceano presentano la stessa altezza (Di Achille e Hynek, 2010). Due strutture geologiche particolarmente significative in questo contesto sono le scarpate che circondano l’Olympus Mons e l’Apollinaris Patera, due dei più importanti vulcani del pianeta. Si ritiene che il primo si sia trovato nelle vicinanze della linea costiera dell’Oceano Boreale, mentre il secondo sia stato completamente circondato delle acque dell’oceano (Guaita, 2000). inoltre, l’altimetro MOLA ha permesso di notare che i punti in cui sei dei principali fiumi marziani spariscono nei piani settentrionali si trovano allo stesso livello (Ivanov e Head, 1999; Di Achille e Hynek, 2010).
Non esistono dubbi sul fatto che le valli siano state generate dallo scorrere di acqua liquida. Ciò ha portato molti ricercatori ad intuire che probabilmente al tempo della loro formazione le condizioni di pressione atmosferica e temperatura superficiale del pianeta dovevano essere differenti rispetto a quelle attuali (Hynek et al., 2010). In particolare alcuni autori ritengono che l’era Noachiana sia stata caratterizzata da una clima molto più caldo e umido grazie all’intensa attività vulcanica che ha reso l’atmosfera più densa. Ciò ha indotto un effetto serra sufficiente a riscaldare il pianeta. In seguito però tale effetto sarebbe diminuito e l’atmosfera sarebbe diventata rarefatta a causa della progressiva riduzione dell’attività vulcanica, non più in grado i compensare le perdite di anidride carbonica verso l’esterno del pianeta (dovute alla bassa gravità). Da un punto di vista paleoclimatico risulta interessante studiare la durata del flusso d’acqua all’interno delle valli fluviali. Per quanto riguarda i canali di deflusso, tale tempo di permanenza deve essere stato dell’ordine di alcuni giorni o al massimo di qualche settimana. Questi canali sono stati infatti caratterizzati da una portata elevatissima, pertanto in essi la permanenza dell’acqua è stata del tutto effimera. L’ingente quantità d’acqua coinvolta nel processo è giunta alla fine del corso prima di ghiacciare in tempi estremamente brevi (Squyres, 1989).
Di maggiore interesse paleoclimatico sono invece le valli longitudinali e quelle dendritiche di grandi dimensioni dove l’acqua sarebbe circolata per diversi milioni di anni. Queste valli si sarebbero generate durante l’era Noachiana. (Pieri, 1976, 1980; Fassett e Haed, 2008). Anche le valli dendritiche di piccole dimensioni hanno richiesto un tempo di formazione abbastanza lungo. L’analisi della loro morfologia rivela, infatti, una modesta portata dalla quale si deduce che per produrre il volume di erosione osservato sono stati impiegati tempi almeno dell’ordine di 105 anni (Gulick e Baker, 1989; Hoke et al., 2011). È probabile che durante l’era Noachiana il pianeta sia stato caratterizzato da periodi in cui le condizioni climatiche sono tornate ad essere temperate o localmente, in seguito a grandi eruzioni vulcaniche, o su scala globale. In quest’ambito estremi stagionali di temperatura possono essere stati provocati dalla tendenza dell’asse di rotazione a variare in modo drastico la propria inclinazione (Kargel e Strom, 1997).
Tuttavia non tutti i ricercatori sono concordi sul fatto che Marte abbia avuto un clima più caldo e umido rispetto a quello che si osserva oggi. Per questi studiosi i canali di cui abbiamo ampliamente discusso si sarebbero generati in condizioni analoghe a quelle attuali, in seguito allo scorrimento di acqua coperta in superficie da ghiaccio (ipotesi originariamente proposta da Wallace e Sagan (1979) e poi ripresa da Carr (1983) e da diversi ricercatori). Questa ipotesi non sembra però tener conto dei processi di congelamento dei corsi d’acqua che si osservano in natura (Carr, 1996). Gulick and Baker (1989, 1993), Clifford (1996) e Squyres e Kasting (1994) ritengono invece che i sistemi vallivi si siano generati per processi di runoff e ground-water sapping generati da acque sotterranee riscaldate da intrusioni magmatiche e sgorgate in superficie. Questi ricercatori sostengono che tutto ciò sia avvenuto in condizioni climatiche simili alle attuali. La loro idea riesce a spiegare l’origine di diversi canali marziani ma non è adattabile alla genesi di molti altri. La superficie del pianeta mostra, infatti, diversi canali dendritici in terreni nei quali non vi è alcuna traccia di presente o passata attività vulcanica. inoltre, la morfologia di questi canali sembra richiedere un flusso d’acqua abbastanza lungo che nelle attuali condizioni non è possibile (Squyres, 1989; Wharton et al., 1995).
Per quanto riguarda i canali che si trovano in prossimità dei crateri d’impatto si ritiene che la loro origine sia dovuta al calore liberato durante l’urto che ha causato lo scioglimento del ghiaccio sotterraneo (Brakenridge et al., 1985). Se così fosse, ogni cratere avrebbe dovuto ospitare un lago ma questo non accade. E’ stato dimostrato inoltre, che il calore liberato dall’impatto di crateri di diametro inferiore a 100 km non è sufficiente a far sciogliere il ghiaccio sotterraneo (Gulick, 1998). Tutto ciò sembra suggerire che i canali, situati in prossimità dei crateri d’impatto, abbiano un’origine dovuta a precipitazioni e lo stesso si pensa riguardo alla genesi di molte altre valli fluviali che non si trovano nelle vicinanze di crateri o in aree vulcaniche. Siccome attualmente le uniche precipitazioni possibili sul Pianeta Rosso sono quelle di anidride carbonica allo stato solido, questo va a sostegno della tesi in base alla quale Marte abbia sperimentato in passato condizioni climatiche differenti rispetto a quelle che si osservano oggi. Per verificare tale tesi numerose sonde orbitano attorno al pianeta e lander passeggiano sulla sua superficie.
Le sonde attualmente in orbita operativa sono la Mars Odissey, partita nel 2001, la Mars Express, lanciata dall’ESA il 4 Giugno 2003, entrata in orbita attorno a Marte il 25 Dicembre 2003 e al cui progetto ha partecipato anche il gruppo di Astrofisica dell’Università di Lecce. Attorno al Pianeta Rosso orbita inoltre, il Mars Reconnaissance Orbiter, una sonda spaziale polifunzionale della NASA lanciata il 12 agosto 2005. Tutti questi orbiter hanno permesso di mappare la superficie del pianeta e determinare la sua composizione. Di notevole importanza è stato inoltre, il contributo dei rover che hanno permesso di delineare la storia geologica marziana, come Spirit e Opportunity, i due rover americani della missione MER 2003 della NASA, atterrati sul pianeta nel Gennaio 2004. Questo è il momento del rover Curiosity della NASA, che ha toccato la superficie del pianeta il 6 Agosto 2012. L’ipotesi che sta alla base di questa missione è che un tempo Marte sia stato abitabile. Il rover trasporta un vero e proprio laboratorio di analisi per verificare questa ipotesi e capire come il clima abbia apparentemente avuto un cambiamento così drastico portando Marte a quel gelido deserto che oggi lo caratterizza.
Gli obiettivi principali del rover Curiosity sono:
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Indagare sul clima marziano e sulla sua geologia;
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Valutare la possibilità che il luogo analizzato abbia ospitato vita microbica;
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Studi di abilità planetaria in preparazione ad una possibile missione umana su Marte.
Le analisi di Curiosity partono dall’utilizzo di una telecamera ad alta risoluzione al fine di ricercare le zone della superficie di particolare interesse. Curiosity può poi vaporizzare una porzione di tale superficie con un laser a infrarosso ed esaminare la struttura spettrale che ne deriva al fine di determinare caratteristiche e composizione della roccia sotto esame. Se il risultato di tale analisi è particolarmente interessante il rover può utilizzare il suo braccio robotico dotato di uno spettrometro a raggi x per osservare la zone interessata più da vicino. Infine Curiosity può perforare il masso e portare il campione al SAM (Sample Analysis at Mars) o al CheMin (Chemistry and Mineralogy), due laboratori di analisi presenti all’interno del rover. Il SAM analizza elementi organici e gas appartenenti sia al campione che all’atmosfera, mentre il CheMin ha lo scopo di identificare e quantificare i minerali presenti nel campione di roccia, valutando il coinvolgimento dell’acqua nella loro formazione. Analisi dettagliate di alcune rocce da parte del rover hanno confermato l’iniziale ipotesi di alcuni ricercatori in base alla quale quest’ultime contengono ghiaia di origine marina. La forma e le dimensioni della ghiaia incorporata in queste rocce ha permesso ai ricercatori di calcolare la profondità e la velocità dell’acqua che scorreva in questa zona. inoltre, è stato notato che i ciottoli più grandi non sono distribuiti uniformemente nel conglomerato della roccia ma quest’ultimo presenta diversi strati di sabbia. Questo è comune a molti depositi di ruscelli presenti sulla Terra ed è quindi un’ulteriore prova della presenza di un antico ruscello su Marte. Ma siamo ad un punto di svolta della missione di Curiosity su Marte. Ad un anno dal suo atterraggio, dopo aver studiato una zona più piccola di un campo di calcio, il rover si sta spostando ai piedi del Monte Sharp a circa 8 km di distanza dal suo sito attuale, dove è prevista un’ulteriore trivellazione. Ciò ha lo scopo di fare un confronto con i risultati ottenuti fino ad ora. Curiosity guiderà verso sud-ovest per diversi mesi prima di raggiungere il Monte. Jim Erickson, del Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha affermato: “ Non sappiamo quando raggiungeremo il Monte Sharp. Questa è davvero una missione di esplorazione, solo perché il nostro obiettivo finale è il Monte Sharp non vuol dire che non troveremo caratteristiche interessanti lungo la strada”.