Il mare del paradosso – Rossella Baldacconi

Sorvolando dall’alto la città di Taranto, il Mar Piccolo appare come un otto rovesciato, il simbolo dell’infinito. Non a caso, nonostante il feroce inquinamento ambientale, il piccolo mare interno racchiude ancora un patrimonio naturalistico unico nel suo genere. Come in un paradosso, l’inquinamento che ha avvelenato i sedimenti dei suoi fondi molli, non ha ucciso le innumerevoli forme di vita che lo popolano.

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Generalità
Il Mar Piccolo è una laguna costiera che si estende per poco più di 20 km², a nord della città di Taranto. È suddiviso in due seni di forma ellittica, il primo in comunicazione con il Mar Grande attraverso due varchi, il canale navigabile e il canale di Porta Napoli, e il secondo poco più grande e più interno.

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ponte-punta-penna-dal-secondo-senoTNel bacino sfociano brevi corsi d’acqua costeggiati da preziosi ambienti umidi, come il fiume Galeso decantato da Orazio e Marziale, e rifugio di numerose specie di uccelli acquatici.

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Da depressioni imbutiformi dei fondali di entrambi i seni, inoltre, sgorgano sorgenti sottomarine di acqua ipogea, chiamate citri, in greco caldaie ribollenti. Le sorgenti oltre ad assumere un ruolo fondamentale nel regolare la temperatura delle acque dell’intero bacino, influenzano anche la salinità, che è di poco inferiore a quella del mare aperto. L’abbondanza di sali di azoto e fosforo apportati dai corsi d’acqua, la bassa profondità e il ridotto idrodinamismo, rappresentano alcune delle peculiarità che rendono il Mar Piccolo un ambiente particolarmente produttivo in grado di sostenere considerevoli masse biologiche, dai microscopici organismi planctonici alla base delle reti alimentari, fino ai grandi predatori.

Sugli inquinanti
Il dramma ambientale di Taranto e dei suoi mari, iniziò nel lontano 1889 quando fu inaugurato l’Arsenale Militare costruito sulla sponda meridionale del primo seno del Mar Piccolo, al posto di una parte della necropoli greco-romana e di preziose ville settecentesche. All’Arsenale Militare seguì la costruzione della Stazione Torpedinieri, dell’Idroscalo sul secondo seno, dei Cantieri Navali, della polveriera di Buffoluto, destinando il Mar Piccolo a divenire una sede strategica dell’industria bellica nazionale. Oltre ad aver completamente stravolto l’assetto costiero del mare interno con moli, banchine, tombamenti e bacini di carenaggio, queste opere scellerate hanno implicato la cementificazione di chilometri di sponde con la conseguente distruzione del fragile ecosistema mesolitorale, al confine tra la terra e il mare. Ma l’enorme impatto ambientale non si è limitato all’alterazione irreversibile del paesaggio costiero. Alle attività dell’Arsenale Militare e dei Cantieri Navali è imputato in parte il grave inquinamento dei sedimenti marini del primo seno, contaminati da concentrazioni elevatissime di PCB (PoliCloroBifenili), ben al di sopra dei limiti di intervento, da metalli pesanti (mercurio, arsenico, cadmio, piombo, rame e zinco) e da altri pericolosi inquinanti come i composti organostannici utilizzati nelle vernici antifouling.
La violenza inflitta sui mari di Taranto, sulla città e su tutto il territorio circostante raggiunse l’apice con la costruzione dell’Italsider che sancì l’inizio della catastrofe ambientale. Dal 1965, anno in cui l’industria fu inaugurata, ogni comparto dell’ecosfera, dall’aria all’acqua, dalla terra a tutti gli esseri viventi è stato gradualmente contaminato da una lunga serie di inquinanti cancerogeni, come le temutissime diossine. Anche il Mar Piccolo ha subito direttamente o indirettamente l’impatto prodotto dalla vicina area industriale che negli anni si è sempre più ampliata e ha visto sorgere, tra l’altro, il cementificio e la grande raffineria dell’Eni.
La contaminazione del bacino è avvenuta attraverso la ricaduta degli inquinanti adsorbiti a polveri sottili e precipitati dal cielo (fall out), il dilavamento di suoli contaminati (run off), l’apporto degli inquinanti attraverso i corsi d’acqua. Inoltre, l’Idrovora dell’ILVA sulla sponda nord-occidentale del primo seno, ha stravolto le correnti del Mar Piccolo e ha provocato un aumento della salinità richiamando un’enorme quantità d’acqua salata dal Mar Grande (fino a 4 milioni di metri cubi al giorno!) e di inquinanti provenienti dalla zona portuale e dagli scarichi industriali. Recenti studi effettuati dal Politecnico di Bari, hanno dimostrato che bastano soltanto 15 giorni perché le acque inquinate della zona antistante gli scarichi dell’ILVA giungano nel primo seno, contaminandolo con altre sostanze tossiche, come gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici).

ilva-primo-senoTL’impatto delle attività industriali sul Mar Piccolo è avvenuto anche in modo indiretto per mezzo dei citri, le sorgenti sottomarine che apportano acque ipogee. Il percolato proveniente da una gigantesca discarica di scarti di lavorazione industriale e di sostanze tossiche, ha col tempo raggiunto e contaminato la falda profonda che alimenta le sorgenti, contribuendo all’inquinamento continuo e generalizzato.
Tutto ciò ha prodotto danni gravissimi alla secolare mitilicoltura tarantina soprattutto nel primo seno del Mar Piccolo, un ambiente così contaminato che i mitili posti in allevamento accumulano sostanze altamente cancerogene come diossine e PCB in concentrazioni tali da vietarne il consumo alimentare. Tonnellate e tonnellate di mitili sono stati negli ultimi anni etichettati come rifiuti speciali e smaltiti in inceneritore che con le sue emissioni contribuisce ad avvelenare l’ambiente.
In confronto, gli scarichi civili di ben otto comuni del circondario (e potrebbero anche aumentare!) che sfociano attraverso il Canale d’Aiedda nel secondo seno sembrano un’inezia. Producono, in realtà, un rilevante arricchimento organico della porzione più interna del Mar Piccolo. Il surplus di materia organica combinato ad alte concentrazioni di nitrati e fosfati lisciviati dalle circostanti terre coltivate, innesca soprattutto nei mesi estivi, impressionanti fioriture algali che destabilizzano il delicato sistema marino e provocano gravi crisi anossiche e diffuse morie di massa.

Il patrimonio sommerso del Mar Piccolo
Un quadro del genere indurrebbe chiunque a supporre che il Mar Piccolo sia ormai ridotto a un deserto abiotico, un mare privo di ogni forma di vita. Questo è quello di cui sono convinti molti tarantini che considerano il piccolo mare un posto degradato, altamente inquinato, da evitare. Non sanno però che celato sotto le acque del bacino, esiste un tesoro di inestimabile valore naturalistico e dalle caratteristiche uniche. L’elevata biodiversità del Mar Piccolo, ovvero il numero complessivo di specie diverse che costituiscono la comunità marina, è sicuramente la qualità più sorprendente che cozza fortemente con l’alto grado di inquinamento ambientale.
Già a pochi centimetri di profondità, il paesaggio sottomarino appare straordinario. Grovigli giganteschi di alghe verdi filamentose si alternano a rigogliose praterie di piante marine.

Prateria della pianta marina Cymodocea nodosa

Prateria della pianta marina Cymodocea nodosa

Ogni tallo o fronda vegetale ospita miriadi di organismi, piccoli anemoni screziati, gasteropodi dalla conchiglia a forma di trottola, idrozoi urticanti, ascidie colorate, briozoi frondosi e tanti altri ancora.

Un piccolo anemone, Paranemonia cinerea, su una fronda della pianta

Un piccolo anemone, Paranemonia cinerea, su una fronda della pianta

Tra i vegetali si nascondono innumerevoli seppie, tordi variopinti, granchi giganteschi e ghiozzi boccarossa.

La seppia, Sepia officinalis, cefalopode molto diffuso nel Mar Piccolo

La seppia, Sepia officinalis, cefalopode molto diffuso nel Mar Piccolo

Dove non crescono i vegetali, il fondale incoerente è impreziosito da tappeti di conchiglie vuote tra cui sporgono i polipi di grandi cerianti dalle folte chiome tentacolari e le inconfondibili valve della Pinna nobile, il più grande mollusco del Mediterraneo, un tempo molto abbondante nel Mar Piccolo tanto da essere pescato in gran numero per prelevarne il bisso, utilizzato dall’animale per ancorarsi al substrato. Il bisso, dopo lungo trattamento, era lavorato da pochi abili artigiani per tessere stoffe preziose.

Il grande polipo del cerianto, Cerianthus membranaceus

Il grande polipo del cerianto, Cerianthus membranaceus

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Un esemplare adulto di Pinna nobilis ricoperto da molti organismi marini

L’habitat più caratteristico del Mar Piccolo è senza dubbio quello che si viene a creare sulle superfici dei pali dei vecchi impianti di mitilicoltura. Il subacqueo che visita per la prima volta i lunghi pali sommersi resta impressionato dalla complessità delle aggregazioni di organismi, dall’abbondanza e dalla ricchezza delle incalcolabili forme di vita. Ogni superficie metallica è ricoperta da denti di cane acuminati, da inestricabili intrecci di tubi calcarei abitati da vermi, da alghe frondose, laminari o coralline, da mitili, pettini e ostriche simili a tridacne in miniatura. Cespugli di briozoi semitrasparenti, attinie dai lunghi tentacoli, spugne soffici e digitate, colonie di ascidie dorate, tutti questi organismi lottano con tenacia per la conquista del poco spazio disponibile e si ricoprono vicendevolmente, soffocandosi o avvelenandosi a colpi di metaboliti tossici in una invisibile e silenziosa guerra chimica.

Vecchio palo della mitilicoltura ricoperto da un numero impressionante di gigli di mare, Antedon mediterranea

Vecchio palo della mitilicoltura ricoperto da un numero impressionante di gigli di mare, Antedon mediterranea

Sporgono come fiori marini dai pali che sembrano le colonne di un meraviglioso tempio sommerso, moltitudini di spirografi, insospettabili vermi dal bellissimo apparato filtratore avvolto a spirale, e colonie ramificate di briozoi rosso sangue simili a bizzarri candelabri.

Uno spirografo, Sabella spallanzanii, con la vistosa corona branchiale bianca striata di viola

Uno spirografo, Sabella spallanzanii, con la vistosa corona branchiale bianca striata di viola

Grappoli di ascidie grigiastre o verdastre pendono dai pali e ondeggiano lievemente nella debole corrente.

Un bouquet di graziosi ascidie semitrasparenti, Clavelina lepadiformis

Un bouquet di graziosi ascidie semitrasparenti, Clavelina lepadiformis

Altre ascidie coriacee come pietre, chiamate microcosmi (in tarantino spuénzele) sono raccolte dai pescatori, tagliate in due e succhiate. La polpa giallastra che fuoriesce dall’involucro odora di iodio, intenso concentrato di mare.

Sull’enorme assembramento colorato vivono altrettanti animali tra cui granchi, paguri e porcellane, ricci verdi e gigli di mare, vermi piatti e stelle gibbose, gasteropodi con conchiglia, soprattutto murici (in tarantino cuèccele), e moltissimi nudibranchi, piccoli gioielli del mare dalle eccezionali livree variopinte.

La stella marina più comune del Mar Piccolo, Asterina gibbosa

La stella marina più comune del Mar Piccolo, Asterina gibbosa

Il bellissimo nudibranchio, Felimida luteorosea

Il bellissimo nudibranchio, Felimida luteorosea

Si nascondono tra gli innumerevoli organismi sessili anche molti pesci bentonici. I più comuni sono il pesce ago di Rio, il ghiozzo nero e la bavosa pavone dall’inconfondibile elmetto giallo in testa.

Un maschietto di bavosa pavone, Salaria pavo, custodisce le uova deposte dalla femmina all’interno di un guscio di cozza

Un maschietto di bavosa pavone, Salaria pavo, custodisce le uova deposte dalla femmina all’interno di un guscio di cozza

Ma il tesoro più prezioso del Mar Piccolo è il cavalluccio marino, il paradossale simbolo del mare pulito e incontaminato. I meravigliosi cavallucci marini somigliano a piccoli draghi in miniatura con una lunga coda prensile ed espansioni filiformi sul capo.

Il cavalluccio marino, Hippocampus guttulatus

Il cavalluccio marino, Hippocampus guttulatus

Gli affascinanti pesciolini sono rigorosamente protetti dalla legislazione vigente poiché in declino in tutto il Mediterraneo a causa del degrado ambientale, della cattura accidentale nelle reti e della raccolta indiscriminata per l’acquariologia. La loro presenza, accresce enormemente il valore naturalistico e conservazionistico del mare interno tarantino.
Un’altra particolarità del Mar Piccolo è la presenza di molte specie aliene giunte da ogni angolo del pianeta trasportate nelle acque di zavorra o incrostate sugli scafi delle innumerevoli navi che solcano i mari di Taranto, o ancora introdotte con gli animali da allevare in acquacoltura. Ascidie peruviane ricoprono rapidamente corde e altri manufatti, colorati vermi tropicali competono per lo spazio con gli spirografi nostrani, spugne brasiliane crescono al posto degli organismi indigeni.

Il verme alieno di origine tropicale Branchiomma luctuosum

Il verme alieno di origine tropicale Branchiomma luctuosum

La spugna Paraleucilla magna, proveniente dalle lontane coste brasiliane

La spugna Paraleucilla magna, proveniente dalle lontane coste brasiliane

E nudibranchi bitorzoluti provenienti dal Mar Rosso, alghe laminarie importate con stock di ostriche giapponesi, minuscoli mitili asiatici. Tutti questi organismi convivono forzatamente con quelli autoctoni, mostrando in alcuni casi carattere invasivo e destando non poche preoccupazioni.
Infine, di notevole importanza sono le segnalazioni nel Mar Piccolo di grandi animali pelagici, che penetrano nel bacino dal Mar Grande, probabilmente in cerca di cibo. Si tratta della tartaruga Caretta caretta e dello squalo elefante Cetorhinus maximus.

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Gli emozionanti avvistamenti inducono a riflettere sullo splendore del Mar Piccolo, mare tanto oltraggiato dall’uomo quanto premiato dalla Natura.

Rossella Baldacconi – 2015

I portatori di pori – Rossella Baldacconi

Biologia delle spugne
Da oltre 500 milioni di anni, i poriferi, comunemente conosciuti con il nome di spugne, popolano i mari del pianeta, arricchendoli con una varietà illimitata di forme e colori. Questi antichissimi animali pluricellulari vivono attaccati al substrato e posseggono un’organizzazione del corpo molto semplice, priva di tessuti, organi e apparati, ma altamente specializzata nel filtrare l’acqua del mare. E proprio dall’acqua, le spugne ricavano tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere: l’ossigeno per respirare e minuscole particelle di cibo per alimentarsi.

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Le esili digitazioni della spugna Halichondria semitubulosa

Ogni spugna funziona come un potente ed efficientissimo biofiltro in grado di depurare fino a un litro d’acqua all’ora per ogni centimetro cubo di volume corporeo. Ciò implica che un esemplare di medie dimensioni, con un volume corporeo di un litro, può filtrare nei periodi di massima attività fino a 1000 litri d’acqua in un’ora!

L’osculo di Petrosia ficiformis

L’osculo di Petrosia ficiformis

La considerevole quantità d’acqua attraversa il corpo delle spugne fluendo all’interno di una vera e propria rete idrica in miniatura, un labirinto di migliaia e migliaia di camere e canali. L’acqua penetra all’interno di questo complesso sistema acquifero da innumerevoli piccoli pori, gli ostii, e fuoriesce da altri pori di maggiori dimensioni, gli osculi. La superficie di una spugna appare, quindi, completamente bucherellata da un’infinità di pori più o meno grandi. Non a caso spugna è sinonimo di porifero, il termine scientifico di origine latina che significa “portatore di pori”.

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Esistono tre differenti organizzazioni del sistema acquifero di un porifero. Il tipo più primitivo, chiamato Ascon, consiste di un’unica cavità interna, lo spongocele. La semplice struttura a sacco è priva di canali acquiferi, per cui l’acqua giunge direttamente dagli ostii allo spongocele e da qui fuoriesce attraverso un solo osculo posto in posizione apicale. Nel tipo denominato Sycon, la parete dello spongocele si ripiega più volte incrementando in tal modo la superficie filtrante. L’acqua fluisce dagli ostii in una serie di canali inalanti, penetra nello spongocele e fuoriesce dall’osculo apicale. Più complessa è la struttura di tipo Leucon contraddistinta dalla comparsa di numerose camere specializzate per la filtrazione e da un articolato sistema di canali inalanti che conducono l’acqua in entrata dagli ostii alle camere e canali esalanti che convogliano l’acqua in uscita dalle camere agli osculi. Tale struttura è tipica della maggior parte delle specie viventi di spugne e consente un notevole ampliamento della superficie filtrante a parità di volume corporeo.

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

Il corpo delle spugne è estremamente semplice ed è costituito soltanto da poche tipologie cellulari.
La superficie esterna è rivestita da numerose cellule appiattite e affiancate, i pinacociti, che hanno la funzione di proteggere la spugna da traumi esterni. Le pareti interne del sistema acquifero sono, invece, tappezzate da moltitudini di cellule flagellate, i coanociti, che producono una corrente d’acqua continua grazie all’incessante movimento del loro lungo flagello, e trattengono le particelle di cibo presenti nell’acqua con prolungamenti simili a sottilissimi peli, i microvilli. Tra la superficie esterna e le pareti interne, esiste uno strato intermedio, il mesoilo, che contiene le strutture di sostegno della spugna e in cui si trovano gli archeociti, cellule indifferenziate implicate nella digestione delle particelle alimentari, nella riproduzione e nella rigenerazione di porzioni di spugna danneggiate. Nel mesoilo sono presenti anche cellule che accumulano sostanze di riserva, cellule che provvedono all’escrezione dei prodotti di rifiuto, cellule riproduttive e cellule che elaborano gli elementi che costituiscono lo scheletro della spugna.

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Il corpo delle spugne è sostenuto dal collagene, la principale proteina strutturale del regno animale, che può trovarsi sotto forma di fibrille disperse nella matrice intercellulare o come spongina, quest’ultima arrangiata in fibre o filamenti. La maggior parte delle spugne possiede anche uno scheletro minerale costituito da microscopici “ossicini” di natura calcarea o silicea, le spicole. Esistono moltissime morfologie spicolari: spicole lisce o spinose, dritte o curve, con le estremità smussate o a punta, spicole a forma di bastoncino, spillo o stuzzicadenti, a forma di stella, sfera, chela, e tante altre ancora.

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

Le spugne sono organismi modulari, ovvero costituiti da numerose unità funzionali. Diversamente da quanto accade negli organismi coloniali, come nei briozoi e nelle ascidie, le unità funzionali non possono essere distinte l’una dall’altra.
Si riproducono per via sessuale o, più raramente, asessuale. La prima modalità implica l’elaborazione di gameti femminili, gli ovociti, e gameti maschili, gli spermi, racchiusi in gran numero all’interno delle cisti spermatiche. I gameti derivano dal differenziamento di coanociti o archeociti, e possono essere prodotti da individui separati nelle specie gonocoriche o dallo stesso individuo nelle specie ermafrodite. Molte spugne sono vivipare con fecondazione interna, altre ovipare con rilascio di gameti maschili e femminili direttamente nel mezzo acqueo e fecondazione esterna. Nella fecondazione interna, molto più comune, lo spermio emesso in acqua da una spugna, penetra attraverso gli ostii all’interno di un’altra spugna, e viene condotto ad un ovocita da una cellula coanocitaria trasformata all’occorrenza in cellula di trasporto. In seguito alla fecondazione, l’embrione va incontro ad una serie di divisioni cellulari fino alla formazione della larva. In alcune spugne, come in Spongia officinalis, la lenta maturazione degli embrioni si protrae per quasi un anno intero, iniziando in autunno con la fecondazione e terminando all’inizio dell’estate con il rilascio delle larve. Esistono differenti tipologie larvali a seconda della classe di spugne considerata, ma tutte vengono emesse dagli osculi della “mamma” spugna nell’ambiente marino e restano nel plancton per poche ore o per uno/due giorni. In questa fase planctonica, la minuscola larva non più grande di mezzo millimetro, si nutre delle proprie riserve e nuota alla ricerca di un substrato adatto su cui fissarsi, sfidando gli innumerevoli predatori e l’immensità del mare.
Infine, la riproduzione asessuale nelle spugne può essere di tre tipi: la frammentazione e la produzione di gemme o gemmule. La frammentazione è un processo che consiste nella produzione di nuovi individui a partire da frammenti del corpo di un organismo adulto. Spesso avviene per colamento di porzioni di spugna che sfruttano la forza di gravità per colare lentamente dall’organismo genitore fino a staccarsi e a cadere sul substrato dove originano nuove spugne perfettamente funzionali.

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

Le gemme sono protuberanze sferiche di qualche millimetro, che vengono elaborate da poche specie di spugne come quelle appartenenti al genere Tethya. Le gemme restano attaccate al corpo della spugna adulta attraverso una specie di sottilissimo cordone ombelicale finché si staccano e rotolano giù sviluppandosi autonomamente.

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Infine, le gemmule sono corpi di resistenza sferici, grandi qualche centinaio di micron, costituiti da archeociti contenuti in una capsula di collagene. In genere, le gemmule sono elaborate dalle spugne che vivono in ambienti d’acqua dolce, spesso effimeri e soggetti ad essiccamento o congelamento. Gli archeociti delle gemmule restano inattivi per tutto il periodo sfavorevole e si moltiplicano e differenziano soltanto con il miglioramento delle condizioni ambientali.

Ecologia delle spugne

Nel Mar Mediterraneo sono state finora descritte oltre 600 specie appartenenti al phylum Porifera. Questa cifra non è definitiva ma tende ad aumentare di anno in anno. Molte delle spugne mediterranee sono specie endemiche, cioè esclusive del Mare Nostrum.
Le spugne dominano gli ambienti bentonici e colonizzano in gran numero ogni tipo di substrato. Crescono sulle rocce verticali o orizzontali, in ambienti illuminati o oscuri, sopra e sotto le pietre, ricoprono alghe e conchiglie, avvolgono i rizomi delle piante marine, incrostano con mille colori i relitti sommersi e persino i rifiuti gettati sul fondo del mare.

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

La loro caratteristica sessilità non ostacola nemmeno le poche specie che crescono sugli instabili fondi molli delle lagune o degli inospitali ambienti profondi. Insomma, le spugne crescono dappertutto, favorite dall’abbondanza del loro alimento che è presente naturalmente nell’acqua del mare.
La dieta dei poriferi comprende minuscole particelle di materia organica, molti batteri, alghe unicellulari e, raramente, piccoli protozoi del plancton. Tutti questi microscopici alimenti vengono in continuazione trattenuti durante la filtrazione dell’acqua del mare.
La filtrazione non è, però, la sola modalità di alimentazione. Alcune specie tipiche di ambienti estremi come le grotte oscure e i fondi batiali, appartenenti alla famiglia Cladorhizidae, si sono trasformate da innocue filtratrici a spugne carnivore che catturano le loro prede con filamenti armati di spicole dalla particolare forma ad uncino.
In molti casi, le spugne ricavano nutrimento anche dai microrganismi fotosintetici che ospitano all’interno del loro corpo, e con cui instaurano uno stretto rapporto simbiotico simile a quello che si stabilisce tra le madrepore e le zooxantelle nei mari tropicali. I simbionti fotosintetici sono per lo più cianobatteri, che forniscono alla spugna i prodotti della fotosintesi e l’ossigeno. In cambio, essa offre protezione, l’anidride carbonica necessaria alla fotosintesi e i prodotti di rifiuto, che vengono completamente riutilizzati dai microrganismi. I cianobatteri, inoltre, sono responsabili delle differenti colorazioni assunte da molte spugne che vivono in ambienti illuminati, e le proteggono da un eccessivo e dannoso irraggiamento solare. L’associazione tra spugna e simbionte è talvolta così stretta che gli esemplari adulti trasmettono negli embrioni un piccolo numero di microrganismi, cosicché i nuovi giovani esemplari siano già dotati dei loro fidati piccoli collaboratori.
All’interno delle spugne non si trovano solo organismi fotosintetici. Spesso il mesoilo di alcune specie è letteralmente imbottito da innumerevoli batteri eterotrofi che, in questo caso, vengono mangiati dalla spugna e costituiscono una riserva alimentare alternativa.
L’alimento fornisce l’energia necessaria per vivere e per sviluppare una forma corporea che spesso risulta strettamente correlata alle caratteristiche dell’ambiente. A volte, la stessa specie può mostrare forma completamente diversa a seconda che si trovi in acque calme o mosse. Nei luoghi caratterizzati da rilevante moto ondoso o da forti correnti, le spugne assumono per lo più forme incrostanti o creano placche spesse pochi centimetri, aderenti al substrato. Mancano del tutto le forme erette o ramificate, che verrebbero in breve strappate via dalle forze idrodinamiche. Dove le acque sono calme, invece, le spugne possono accrescersi in altezza, generando forme complesse e articolate con prolungamenti di vario genere, che le rendono particolarmente appariscenti.
Le spugne sono organismi sciafili, amanti dell’ombra, e prediligono vivere nelle grotte e negli anfratti della biocenosi del coralligeno. In questi ambienti, il nutrimento non manca ma lo spazio tende subito a scarseggiare divenendo l’unico fattore limitante. Ed è così che ha inizio una feroce competizione che coinvolge le varie specie di spugne ma anche altri organismi sessili come alghe, madrepore, ascidie e briozoi. La guerra silenziosa è combattuta a colpi di metaboliti tossici prodotti per fronteggiare i tanti competitori. Spesso, però, i composti chimici non bastano e le spugne vengono ricoperte da altri animali sessili o dagli stoloni di alghe particolarmente aggressive come la specie aliena Caulerpa cylindracea. Ma per loro fortuna gli antichi invertebrati tollerano gli organismi epibionti e sono molto plastiche riuscendo a frammentarsi a piacimento e a riunire i pezzi come fossero quelli di un puzzle.

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

Alcune spugne, dette perforanti, vivono all’interno della roccia o dentro conchiglie, talli di alghe coralline, scheletri di madrepore, coralli e briozoi, dove scavano articolati labirinti rimuovendo meccanicamente microscopiche scaglie e sciogliendo lentamente il carbonato di calcio con secrezioni altamente acide. Dalla roccia perforata sbucano solo le papille colorate in cui sono concentrati gli ostii e gli osculi. A volte, alcune specie perforanti tendono a fuoriuscire dalla roccia in cui vivono e a ricoprirla completamente fino ad assumere una forma dapprima incrostante e poi massiva. Nel corso della loro vita si trasformano, quindi, da demolitrici a spugne costruttrici che inglobano all’interno del loro corpo una grande quantità di sedimento, contribuendo a consolidare il substrato che ricoprono.

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

Alla morte delle spugne perforanti, i labirinti di microcavità scavati con così tanta solerzia, non restano disabitati ma vengono subito occupati da altre piccole spugne, chiamate insinuanti, che riempiono i buchi nella roccia impedendo che si disgreghi, proprio come le radici degli alberi stabilizzano i versanti dei rilievi particolarmente instabili.
Sebbene piene di spicole spinose e di metaboliti tossici, le spugne vengono mangiate da molti animali marini, primi fra tutti i molluschi gasteropodi. La bellissima ciprea Luria lurida integra la sua dieta con la spugna nocciolina Chondrilla nucula e il rognone di mare Chondrosia reniformis, mentre il notaspideo Tylodina perversa mangia solo la gialla Aplysina aerophoba. Sulla sua preda, il piccolo mollusco passa gran parte della sua esistenza, nascondendosi dai predatori e deponendo le uova raccolte in lunghi nastri, anch’essi gialli. Innumerevoli sono i nudibranchi che mangiano spugne, come la vacchetta di mare che preferisce la durissima Petrosia ficiformis da cui gratta con la radula lo strato superficiale ricco di nutrienti cianobatteri simbionti, o Phyllidia flava che scala lentamente le altissime ramificazioni di Axinella cannabina per poi mangiarle a pezzetti.

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Molti nudibranchi frequentano le spugne perché trovano sulla loro superficie colonie di minuscole prede di cui vanno particolarmente ghiotti, come gli idrozoi e gli entoprocti. E sempre sopra le spugne sono spesso visibili le fragili braccia pelose delle stelle serpentine o i lunghi tentacoli colorati dei vermi terebellidi, organismi commensali sempre in cerca di piccole particelle di cibo.

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

Le spugne vengono mangiate anche da alcuni anellidi, crostacei, stelle marine come la rossa Echinaster sepositus, ricci, varie specie di pesci e dalle tartarughe che possono arricchire la dieta a base di meduse con le morbide masse spongine. I morsi inferti dai vari predatori non sono in genere mortali per gli esemplari colpiti, che riescono ad isolare e cicatrizzare le porzioni danneggiate.
Le spugne instaurano un’infinità di relazioni più o meno strette con altri organismi marini.
Forse una delle più conosciute è la simbiosi mutualistica tra la spugna rossa Crambe crambe e alcune specie di molluschi, in modo particolare Arca noae e Spondylus gaederopus. La spugna cresce sopra le conchiglie e sfrutta le correnti respiratorie dei molluschi ricche di residui di cibo. In cambio, mimetizza i molluschi e li protegge dai predatori perché diffonde composti tossici e repellenti.
Molte spugne crescono sulle valve della grande Pinna nobilis, su varie specie di pectinidi, sui mitili, sulle conchiglie dei murici e persino attorno ai tubi dei vermetidi.
Un’altra stretta associazione lega la specie Suberites domuncula a vari paguri. La spugna avvolge completamente le conchiglie in cui risiedono i piccoli crostacei che non sono più costretti a trovarsi una nuova dimora e ad esporre il molle addome ai tanti predatori. Ricambiano la cortesia trasportando la loro protettrice gratuitamente sul fondo del mare.
Altri crostacei portano a spasso frammenti di spugna che ritagliano accuratamente con le chele e si pongono sul carapace per mimetizzarsi. È questo il caso del granchio facchino Dromia personata, che stacca grosse porzioni spongine, a volta anche più grandi di lui, le trattiene con due arti specializzati per tale funzione, e le trasporta su di sé. I frammenti di spugna non degenerano ma continuano ad accrescersi insieme al crostaceo. Anche le granceole e i granchi decorati mascherano il loro carapace con pezzetti di spugne che rendono i crostacei simili a piccole rocce in movimento.

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

Ulteriori relazioni interspecifiche riguardano gli animali che sfruttano il corpo delle spugne come substrato o come rifugio. I polipi gialli delle margherite di mare, Parazoanthus axinellae, preferiscono crescere sulle ramificazioni di alcune specie del genere Axinella sviluppandosi in posizione più elevata rispetto al substrato, e più vantaggiosa per catturare i piccoli organismi del plancton di cui si cibano.

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Anche la medusa delle spugne, Nausithoe punctata, sceglie di trascorrere la fase di polipo del suo ciclo vitale, ospitata all’interno del corpo di varie specie di spugne.

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

Esemplari giganteschi di Geodia cydonium o Sarcotragus foetidus rappresentano, invece, il rifugio di moltitudini di inquilini nascosti nei canali del loro sistema acquifero. In queste spugne “condominio” possono svilupparsi intere comunità di piccoli invertebrati, molte specie diverse di anellidi policheti, molluschi e crostacei.
Ogni spugna, quindi, rappresenta a seconda dei casi, un’importante componente del benthos, un filtratore in grado di depurare l’acqua del mare, un animale capace di modificare l’ambiente in cui vive, un organismo estremamente plastico, un abile competitore, una preda ed un predatore, un rifugio e un substrato dove attecchire, un fedele compagno di vita e un nucleo di biodiversità.
Nel Mar Mediterraneo, le spugne sono minacciate dal degrado degli ambienti marini in cui vivono. L’inquinamento e l’incessante intorbidamento delle acque, la devastazione dei fondi coralligeni e delle praterie di piante marine attuata dalla pesca con reti a strascico, la distruzione di substrato roccioso o di biocostruzioni ad opera dei pescatori di datteri. Non meno importanti sono i rischi legati alla competizione con un sempre maggior numero di alghe ed invertebrati alieni particolarmente aggressivi, e allo sfruttamento commerciale attuato dall’uomo in modo sconsiderato a partire dal XIX secolo. Infine, numerose anomalie termiche hanno provocato negli ultimi decenni estesi eventi di moria, che hanno interessato molte specie di spugne e di altri animali bentonici.

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Per tutti questi motivi, alcune specie di spugne particolarmente vulnerabili e oggetto di raccolta indiscriminata, sono state inserite negli allegati II e III della Convenzione di Berna e nel protocollo SPA/BIO (Specially Protected Areas and Biological Diversity in the Mediterranean) della Convenzione di Barcellona.

tabella specie protette

Specie di Poriferi protette in Italia

Rossella Baldacconi – 2014

Per saperne di più: Spugne del Mediterraneo, di Rossella Baldacconi e Egidio Trainito

Il Genio di Martano e le farfalle del mare – Omaggio a Salvatore Trinchese – Domenico Licchelli

Gli appassionati di documentari sulla vita nel mare e, soprattutto, quanti si dedicano all’attività subacquea per osservarla e fotografarla rimangono senz’altro affascinati dall’incontro con degli strani animaletti, che assomigliano alle lumache senza conchiglia dei giardini, ma a differenza di queste hanno disegni e colorazioni fantastiche, ancora di più messe in evidenza dalla presenza, sui fianchi o sul dorso, di ciuffi di appendici che fluttuano nell’acqua contribuendo alla straordinaria eleganza di movimento dei loro proprietari.

Sono i nudibranchi, “lumache” marine come i Murici, le Cipree e i Coni che, a differenza di questi, hanno rinunciato alla conchiglia e respirano anche attraverso i ciuffi di appendici, dette papille.

I nudibranchi fanno parte dei molluschi Opistobranchi (da opisten = posteriore e branchion = branchie), una sottoclasse dei Molluschi Gasteropodi, cui appartengono appunto Murici, Cipree e Coni oltre a tanti altri dotati di conchiglia, che a loro volta costituiscono una delle classi del grande tipo dei Molluschi, che comprende anche i più noti Polpi, Calamari e Seppie.

Gli Opistobranchi hanno suscitato l’interesse scientifico di alcuni tra i più famosi biologi dell’Ottocento, anche italiani e tra questi due di particolare interesse per il nostro spigolare nel patrimonio scientifico salentino: Achille Costa, figlio di Oronzo Gabriele di cui abbiamo già parlato, e Salvatore Trinchese.

Salvatore Trinchese

Salvatore Trinchese

La biografia di Salvatore Trinchese, nato a Martano, in provincia di Lecce, nel 1836 e morto a Napoli nel 1897, è quella di un grande nel panorama della biologia ottocentesca. Infatti subito dopo la laurea in medicina, conseguita nel 1860 a Pisa dopo aver concluso brillantemente gli studi presso il Collegio S. Giuseppe di Lecce, egli ottenne una borsa di studio per il perfezionamento all’estero in scienze naturali che portò a termine a Parigi frequentando i più prestigiosi laboratori del momento.

Durante quel periodo egli definì i campi di ricerca cui avrebbe dedicato la sua attività futura e tra questi un posto preminente avrebbero avuto gli studi sulla struttura e la fisiologia dei Molluschi Gasteropodi con particolare attenzione agli Opistobranchi, tanto che Riccardo Cattaneo-Vietti così scrive nel volume celebrativo pubblicato nel 1989 a cura di Guido Cimino per conto della Biblioteca Civica di Martano:

“La ricerca scientifica di Salvatore Trinchese si intreccia indissolubilmente con la storia naturale di un poco conosciuto, ma interessante, gruppo di Molluschi: i Gasteropodi opistobranchi.

Chiamato alla direzione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Genova nel 1865 in qualità di professore straordinario, inizia in questa città ad occuparsi di questi Molluschi marini che, con la collaborazione di Clemente Biasi, raccoglie lungo le scogliere della costa genovese. Trasferitosi prima a Bologna e successivamente presso l’Università napoletana, continua a studiare questo gruppo praticamente fino alla morte…

L’attenzione di Trinchese si rivolge a quegli Opistobranchi che presentano sul dorso una serie di papille, chiamate cerata, nelle quali spesso si inseriscono i diverticoli epatici e che talvolta hanno anche funzione respiratoria. Questo sottogruppo, allora genericamente riunito sotto il nome di Eolididi, è formato da almeno due diversi ordini di Opistobranchi, gli Ascoglossa e i Nudibranchia.”

Nelle sue ricerche sulla struttura dei vari organi dei molluschi e sulle loro funzioni Trinchese sfrutta sapientemente la sue notevoli doti di microscopista, ma non trascura i problemi riguardanti la classificazione, giungendo a proporre nuovi generi e nuove specie, alcuni dei quali hanno ricevuto conferma dagli studi successivi.

Per sottolineare la grande importanza degli studi condotti da Trinchese così continua Cattaneo-Vietti:

“In alcuni suoi lavori vengono anche riportate informazioni sulla frequenza delle varie specie in determinate aree (ad esempio lungo il litorale genovese); e ciò è molto importante per comprendere come si è modificata la situazione ambientale negli ultimi cent’anni lungo le coste mediterranee per effetto dell’antropizzazione del litorale. Molte specie segnalate da Trinchese sono diventate oggi rare, probabilmente a causa delle modificazioni avvenute nell’orizzonte superiore del piano infralitorale, come già mise in evidenza Haefelfinger (1963).…

Purtroppo il fatto che abbia pubblicato in lingua italiana è stato un serio impedimento alla diffusione e comprensione della sua opera.”

I risultati di 25 anni di ricerche condotte da Trinchese sui molluschi tra Genova e Napoli sono contenuti in 46 pubblicazioni, e l’opera principale porta il titolo Aeolididae e famiglie affini del porto di Genova, illustrata con 115 tavole prevalentemente a colori fatte di sua mano, pubblicata in due parti nel 1877 e nel 1881, che conseguì il premio reale dell’Accademia dei Lincei (alcune sono riportate di seguito).

Per comprendere la passione da lui posta nello studio di questi Molluschi basta leggere come lui si rivolge al lettore della sua opera:

“I naturalisti che studiarono prima di me l’interessante famiglia delle Aeolididae, o non si curarono di rappresentarle o le rappresentarono in modo rozzo e infedele. Se si eccettuano alcuni schizzi veramente belli di C. Semper e di Alder e Hanckoc, si può affermare, senza pericolo di dare nell’esagerato, che tutte le figure di Aeolididae pubblicate dai miei predecessori sono affatto inutili. Si desiderano in esse quei caratteri di forma e di colore che guidano con sicurezza il naturalista nel riconoscere le specie. Per mettere in evidenza siffatti caratteri, ho rappresentato uno o due individui di ogni specie come li vedevo osservandoli col microscopio binoculare di Nachet. Tenendo presenti le mie figure, il mio inserviente determina le specie colla sicurezza d’un zoologo provetto. Ciò nonostante, esse non si possono dire veramente belle, poiché non ritraggono con pari fedeltà i colori. L’azzurro di queste creature è zaffiro orientale, il giallo è oro di coppella e il bianco neve intatta ripercossa dai raggi del sole. I loro colori hanno un non so che di vivo, di animato, di luminoso che noi non possiamo ritrarre fedelmente colle smorte tinte delle nostre tavolozze. I colori delle farfalle e delle paradisee sono certamente splendidi, ma non hanno il fascino di quelli veduti attraverso un velo d’acqua salata.

Le Aeolididae pur ora tolte dal mare, sono una delle più splendide manifestazioni del bello; ma tenute in cattività negli acquari, perdono in breve la vivacità dei loro colori.”……..

(estratto da Non solo Barocco)

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

Ai giorni nostri la possibilità di portare sott’acqua attrezzature fotografiche sofisticate, corredate di obiettivi e lenti specifiche, consente ai fotografi subacquei la documentazione fedele della straordinaria bellezza delle varie specie di nudibranchi presenti nei siti di immersione. Abbiamo perciò la possibilità di comprendere ed apprezzare lo straordinario lavoro di Salvatore Trinchese direttamente sul campo.

Nel Mediterraneo si conoscono 272 specie di nudibranchi, molte delle quali descritte solo negli ultimi decenni. Ancora oggi se ne scoprono di nuove e si rivedono le classificazioni grazie soprattutto all’utilizzo delle tecniche di analisi molecolare.

La ricerca e la documentazione degli opistobranchi salentini sta diventando sempre più una delle attività preferite dai membri dell’Associazione Culturale Salento Sommerso. Negli anni abbiamo documentato la presenza di parecchie decine di specie già note e segnalato altre di cui non se conosceva ancora la presenza nelle nostre acque (sono in preparazione alcuni lavori al riguardo che pubblicheremo a breve su riviste specializzate del settore).

Ma quali sono le caratteristiche che rendono così affascinanti questi straordinari animaletti?

T.E.Thompson scrisse che “Gli opistobranchi stanno ai molluschi come le orchidee alle angiosperme e le farfalle agli artropodi”

A differenza di molti dei loro viscidi omologhi terrestri i nudibranchi sono creature incredibilmente belle! Se si ha la fortuna di avvistarne uno mentre striscia sul fondo o abbarbicato su qualche cespuglio di idrozoi, basta osservarlo per qualche minuto per capire perché molti scienziati e fotografi subacquei sono affascinati da queste creature delicate e graziose, non a caso definite le farfalle del mare.

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

I nudibranchi sono molluschi gasteropodi, appartengono cioè allo stesso phylum che comprende molte conchiglie che si possono rinvenire lungo le spiaggie dopo una mareggiata. Contrariamente a queste, però, i nudibranchi hanno evoluto un aspetto del corpo molto diverso in quanto il loro stile di vita non richiede più di circondarsi di un guscio protettivo, come vedremo più avanti. Il corpo è morbido e carnoso, si muovono facendo leva su un lungo piede muscolare (in modo simile alle lumache di terra) ed hanno delle appendici cefaliche dette rinofori che usano con funzione tattile e per percepire segnali chimici dall’ambiente circostante.

 Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Alcuni nudibranchi hanno sulla schiena, verso la zona posteriore del corpo, un folto gruppo di branchie che usano per la respirazione e che possono essere ritratte (Doridini). Altri hanno strutture tentacolari su tutto il corpo, sempre esposte, dette cerata, che sono utilizzate sia per la respirazione che per la difesa e che contengono anche rami del tratto digestivo (Aeolidini).

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Coppia di Coryphella pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium

Coppia di Flabellina pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium. Gli evidenti cerata terminano con le punte bianche

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Splendido esemplare di Dondice banyulensis in atteggiamento difensivo con i cerata sollevati

Bell'esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e lapertura genitale

Bell’esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e l’apertura genitale

Vivono sui fondali di tutto il mondo sotto la zona intertidale, da pochi centimetri dalla superficie fino a 15-20 metri ed oltre. Scivolano usando il loro piede muscolare su sedimenti, alghe, rocce, spugne, coralli e altri substrati, spesso adottando colorazioni e textures simili a quelle di tali substrati al fine di ottenere una mimetizzazione molto efficace. Se si tiene conto poi che per quasi tutte le specie mediterranee le dimensioni sono dell’ordine del cm, è evidente che si richiede al fotografo ed al naturalista che li cercano un grande spirito di osservazione ed una pazienza infinita.

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

I nudibranchi sono carnivori e si nutrono di ogni sorta di creature (idroidi, tunicati, spugne, anemoni, solo per citarne alcuni) e talvolta anche di altri nudibranchi. All’interno dell’apparato boccale hanno una particolare struttura dentata, chiamata radula, specializzata per un certo tipo di alimento, che ne costituisce un importante elemento di differenziazione (anche se a volte non sufficiente per una corretta classificazione tassonomica).

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Poiché i nudibranchi non hanno guscio protettivo, hanno bisogno di altri tipi di protezione dai potenziali predatori. Essi adottano varie strategie: alcuni si mimetizzano perfettamente con il substrato, altri al contrario esibiscono colori molto vivaci e ben visibili ai predatori per avvertirli della loro tossicità (colorazione aposematica). Quest’ultima è così efficiente che viene adottata anche da molti vermi piatti come i Platelminti che, ad una prima occhiata, possono essere scambiati per nudibranchi (la forma del corpo però svela immediatamente che si tratta di un travestimento).

 Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco sacoglosso

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco che appartiene all’ordine dei sacoglossi

Alcuni nudibranchi possono anche secernere sostanze chimiche tossiche o acide quando sono disturbati. Gli Aeolidini poi, che si nutrono di cnidari, un gruppo che comprende anemoni, coralli e idroidi, hanno sviluppato un’altra incredibile abilità. Gli cnidari posseggono speciali cellule urticanti a forma di arpione, dette nematocisti, che utilizzano a scopo difensivo. I nudibranchi Aeolidini riescono a cibarsene senza causare l’attivazione delle nematocisti per poi trasferirle fino alle punte dei cerata dove, conservandole in apposite strutture dette cnidosacchi, diventano un efficace meccanismo di difesa acquisito.

I nudibranchi sono tutti ermafroditi simultanei, possiedono cioè sia gli organi riproduttivi maschili che femminili, con le aperture genitali sul lato destro. In certi periodi non è raro assistere a fecondazioni incrociate che portano al rilascio di masse di uova, di solito a forma di spirale o di nastri arrotolati, generalmente deposte in prossimità o direttamente sull’animale di cui si nutrono.

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

I loro cicli vitali sono legati a vari fattori ambientali tra cui la temperatura dell’acqua e, ovviamente, la disponibilità del loro alimento preferito ma, seppur con una grande variabilità, è possibile incontrare qualche esemplare delle varie specie durante tutto l’anno. II titolo di presenzialista spetta alla Peltodoris atromaculata o vacchetta di mare, facilmente visibile sulla spugna Petrosia ficiformis di cui si nutre avidamente. Nel coralligeno, in grotta e in tutti gli ambienti in cui vi è la spugna ospite, questo nudibranco è una presenza pressochè costante.

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell'ovopositura

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell’ovopositura. Notare la superficie biancastra della spugna Petrosia ficiformis messa a nudo dai nudibranchi con la loro radula

Per individuare buona parte degli altri nudibranchi è indispensabile adottare una filosofia di immersione da naturalisti, in cui l’osservazione minuziosa di ogni centimetro quadrato di fondale è il modus operandi più consono ed efficace. Il premio che si riceve, però, è l’osservazione nel loro habitat di alcune delle più spettacolari ed intriganti creature del mare, che non mancheranno di affascinare il subacqueo attento. E anche quando il manometro  imperiosamente lo costringerà a risalire in superficie, non vedrà l’ora di tornare sott’acqua per godere ancora una volta di una delle più splendide manifestazioni del bello, per dirla con le parole del grande Salvatore Trinchese.

Domenico Licchelli, Livio Ruggiero – 2014

Per saperne di più:

La voce del mare, ovvero io e le balene – Vincenzo Zappalà

La terra e il mare: due entità fisiche percepite in modo nettamente diverso dalla maggior parte degli esseri umani. La prima è qualcosa di tattile, di investigabile, di manipolabile. Ha anch’essa lati oscuri, misteriosi, a volte terribili e a volte affascinanti, ma è lì a portata di mano (e di piede). In altre parole, è il nostro mondo, parla la nostra lingua.

Il mare no. Esso non sembra voler comunicare con noi. Sia che si presenti con un confine distensivo e tranquillo, sia che si mostri con la rabbia delle sue onde, esso è un “diverso”, sempre impenetrabile e incomprensibile. Sì, possiamo anche immergerci e vedere cosa contiene. Possiamo, anche studiarlo attraverso svariate tecnologie, ma  rimane qualcosa di estraneo, di alieno. Non esistono parole tra di noi o -quanto meno- parliamo due linguaggi troppo distanti tra loro. Questa è la prima impressione che mi colpisce quando mi affaccio da un’altura verso il mare. Una gran voglia di conoscere e di interagire, ma un senso di frustrazione nel non esserne capace.

Almeno, queste erano le mie sensazioni fino al recente viaggio alle Hawaii.  Adesso tutto è cambiato. La voce del mare è risultata improvvisamente udibile e comprensibile in tutte le sue sfumature. Vi racconto come è successo.

Isola di Maui, temperatura del mare estremamente piacevole, profondità non troppo elevata. Un luogo perfetto perché i giganti del mare possano mettere alla luce i loro piccoli. Vale la pena percorrere migliaia di chilometri dall’Alaska per approdare in una “nursery” di livello eccezionale. Come dargli torto? Anche noi cerchiamo di fare lo stesso per i nostri neonati.

Astronaut photograph ISS038-E-32755 was acquired on January 18, 2014 is provided by the ISS Crew Earth Observations experiment and Image Science & Analysis Laboratory, Johnson Space Center

Maui Island – Astronaut photograph ISS038-E-32755 was acquired on January 18, 2014 is provided by the ISS Crew Earth Observations experiment and Image Science & Analysis Laboratory, Johnson Space Center

I giganti del mare, le balene, enormi creature che potrebbero comunque nascondersi tranquillamente al di sotto di quel confine invalicabile di cui dicevo prima. Basta un attimo per respirare e tornare nel mondo dell’incognito e del mistero. E invece non lo fanno. Le balene vogliono comunicare con la terra e usano tutti i sistemi di cui sono capaci.  Per loro quel confine è superabile e leggero. In fondo, basterebbe immergere un dispositivo acustico per sentire il loro canto dolce e variegato, che ci racconta di avventure, di speranze e di drammi. Ma non lo capiremmo comunque e il loro mondo resterebbe nascosto e inviolabile. Hanno, perciò, scelto di apparire direttamente agli abitanti della terra e di farlo con una costanza e una passione che noi non riusciremmo mai a possedere.

Mi sono fermato per pochi minuti su un promontorio a guardare quella distesa liquida che sentivo ancora lontana e insuperabile. Bella, limpida, colorata, ma invalicabile. Improvvisamente, il mare ha parlato e si è fatto capire. Uno sbuffo altissimo, poi un altro. Una coda che si erge dritta contro il cielo blu e che percuote le onde. Un gesto ripetuto con accanimento. “Allora… mi stai sentendo? Io sono il mare e cerco di parlarti!”. E’ un caso, un momento irripetibile che non fa storia. Il confine torna alla sua anormale normalità. No, ecco un altro sbuffo e questa volta un dorso enorme e arcuato sembra uscire ed entrare al rallentatore. Non è solo, però. Insieme a quello più grande ve ne è uno più piccolo che cerca di seguire gli insegnamenti. Sì, è un cucciolo che sta imparando dalla mamma. E continuano a volteggiare per lunghi minuti.

La coda dell’occhio, però, nota altri sbuffi a destra e poi a sinistra. Alcuni lontani, altri vicinissimi. La testa mi sta girando. No, non posso sbagliarmi: il mare mi sta parlando attraverso i suoi giganti. Comincio a capire e mi accorgo che sto sorridendo. Poi entrano in scena i maschi, un po’ prepotenti e sempre desiderosi di mettersi in mostra anche se il tempo degli amori è ancora lontano. Forse vogliono insegnare ai piccoli qualcosa che non siano solo le tecniche base di movimento e di sopravvivenza. Ogni tanto fanno uscire solo una pinna, altissima come una torre. A volte solo l’enorme testa che sembra scrutare curiosa la superficie del mare o forse la terra lontana. Non posso sbagliarmi: sto assistendo a uno spettacolo che il mare mi sta regalando attraverso i suoi attori più importanti e prestigiosi.

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Penso con disgusto e con compassione agli spettacoli artefatti che si vedono negli acquari. Com’è stupido l’uomo e come la sua ignoranza riesce facilmente a trasformarsi in cattiveria. Scaccio quel pensiero e torno agli amici del mare.

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Comincio a riconoscere i vari ruoli e le varie scene che hanno preparato. Mi accorgo che spesso dove penso di vedere una sola creatura ve ne sono invece tre, quattro o anche più. Sembrano scandire le loro parti in modo da regalarmi un colloquio continuo. Poi un primo colpo di fortuna. Una mamma (è sicuramente lei) spinge fuori dall’acqua il suo erede e lo lascia ricadere in modo abbastanza rovinoso. Deve imparare anche a saltare. Qualsiasi dubbio mi lascia. Il salto non è legato a nessun bisogno fisiologico delle balene (dicono di sì, ma sono solo le solite invenzioni umane costruite per sentirci superiori). E’ un gesto di gioia, di allegria, di partecipazione e di comunicazione. Se viene insegnato ai piccoli, vuol dire che deve far parte del repertorio degli adulti. Ne ho sentito parlare, ne ho visto anche delle foto. Ma tutt’altra cosa è assistervi direttamente in un colloquio diretto, a tu per tu. Scruto il mare che ormai mi sta chiamando da molte direzioni. Trascuro molti messaggi aspettando l’urlo liberatorio. Finalmente arriva e sento una stretta nel petto. Incredibile! Una creatura di venti metri di lunghezza esce completamente dall’acqua e compie un salto arcuato e nettissimo. Sta facendo il “ponte”, l’esercizio più entusiasmante e sicuramente “inutile” da un punto di vista logico e fisico.

Non posso che considerarlo come un grido lanciato verso di me e mi accorgo che ho risposto con un “Evviva” o -forse – con un “Bravo”. Sembra che mi abbia sentito e lo ripete tre, quattro, cinque volte in una sequenza che lascia di sasso. E ogni volta, nella ricaduta, l’urto con l’acqua è un rumore, anzi un suono, che non ha confini. Guardo l’orologio. E’ passata meno di mezz’ora e sto parlando con il mare. Tra di noi tutto è cambiato, grazie alle balene e alla loro rappresentazione sempre uguale e sempre diversa. Potrò mai ringraziarle abbastanza?

P.S.: aggiungo qualche foto personale, di bassa tecnologia. Non mi avvilisco, però, più di tanto,  dato che non si fanno foto ai suoni e alle chiacchierate personali e intime. Se ce ne fosse bisogno, servono solo a ricordare, a stuzzicare la memoria e a rivivere momenti magici.

Vincenzo Zappalà – 2014

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More….

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10^30 – Domenico Licchelli

Quasi fosse una sorta di mantra da ripetere periodicamente, quando uno scienziato è chiamato ad esprimersi sulle motivazioni che lo hanno spinto a scegliere quel mestiere, è molto probabile che ci si senta rispondere che, all’origine di tutto, c’è stata una qualche forma di Bellezza che l’ha impressionato in un certo momento della sua infanzia o adolescenza. Di solito, questa affermazione lascia alquanto sconcertati, soprattutto in quei casi in cui vengono citati improbabili, così sembra ai non addetti ai lavori, fenomeni fisici, equazioni matematiche e via discorrendo. Finchè non si posseggono i giusti strumenti mentali è, in effetti, difficile riuscire a condividere certi entusiasmi. Tuttavia, madre Natura ha inventato un sistema straordinario per permettere a tutti quantomeno di cominciare a diventare consapevoli dell’eccezionalità dello spettacolo che fluisce initerrottamente sotto ai nostri sensi. Potremmo definirla la Bellezza di scala, ossia quella particolare combinazione di forme, colori, dimensioni, significati profondi, che permea tutto il nostro Universo, a qualunque livello, dall’atomo ai super-ammassi di galassie, passando per gli organismi viventi. 10^30 è circa l’ordine di grandezza che intercorre tra un batterio e l’ammasso di galassie della Vergine. E’ un numero assolutamente folle ed inconcepibile secondo il nostro metro quotidiano, ma diventa comprensibile e perfino gestibile, se ci si dota di una visione scientifica e degli strumenti che la Scienza ha messo a disposizione.

Ciò che faremo in questo blog è proprio un esperimento volto a mostrare per immagini, mentali e fotografiche, la Bellezza che ci circonda, con l’auspicio che possa aprire nuovi orizzonti, a noi che lo elaboriamo ed eseguiamo e a voi che pazientemente ci leggete.

Visione in falsi colori al microscopio elettronico a scansione, della struttura ordinata dei cristalli di Carbonato di Calcio

Visione in falsi colori al microscopio elettronico a scansione, della struttura ordinata dei cristalli di Carbonato di Calcio che compongono le pareti di una Ampullinopsis crassatina, una conchiglia marina estinta che, nonostante la veneranda età (l’esemplare in questione è datato a circa 25 milioni di anni, nel periodo Oligocenico), conserva ancora tracce del colore originario.

Bolle di Ossigeno prodotte da una reazione chimica su un tessuto trattato con Blu di Metilene, viste al microscopio ottico

Bolle di Ossigeno prodotte da una reazione chimica su un tessuto trattato con Blu di Metilene, viste al microscopio ottico. Il fenomeno, apparentemente caotico, si sviluppa, invece, in maniera tale da creare una struttura ordinata e coerente

Cristalli osservati al microscopio ottico in luce polarizzata.

Cristalli osservati al microscopio ottico in luce polarizzata. Le proprietà ondulatorie della luce unite alla struttura tridimensionale dei cristalli generano delle spettacolari iridescenze, variabili per colorazione ed intensità secondo gli angoli di incidenza della luce

polline---microscopio

Polline osservato al microscopio ottico. Le dimensioni tipiche sono comprese tra 10 e 100 micron

ovatura-janolusT

Questa sorta di prezioso ricamo è in realtà l’ovatura di un nudibranchio. L’intera struttura, tipicamente di qualche cm al più, può contenere diversi milioni di embrioni

protula

“Sei brutto come un verme” è un’affermazione decisamente difficile da affibbiare ad un verme marino. L’esemplare qui ritratto è una Protula sp. col suo bel ciuffo branchiale dispiegato, che utilizza sia per respirare che per cibarsi filtrando l’acqua.

 Ophrys passionis var. garganica)

Questo misterioso fiore è una orchidea spontanea (probabilmente una Ophrys passionis var. garganica) ed è una delle 32 specie finora censite nel Salento

cormorani-sunset

Cirri d’alta quota, piccoli fractus e nubi stratiformi incendiate dagli ultimi raggi del Sole fanno da sfondo ad una coppia di cormorani (Phalacrocorax carbo), in volo verso il loro domicilio notturno.

rocky-monster

L’incessante carsismo e l’azione meccanica delle onde scavano la roccia sommersa e modellano animali mitologici nei friabili calcari. Una pletora di organismi marini fanno poi a gara per rivestire la nuda roccia coi colori più vivaci

black-sea STAR TRAIL

Placidamente addormentato come un enorme rettile corazzato coccolato dallo sciabordio delle onde, questo spuntone di roccia calcarea da milioni di anni assiste alle lente rotazioni del cielo sovrastante

Luna Rossa 2001

La Luna, la nostra fedele compagna, qui impreziosita dalle calde tonalità prodotte durante un’eclisse dagli strati alti della nostra atmosfera, quasi a rimarcare il profondo legame che la unisce alla Terra

La Via Lattea nel Cigno

La Via Lattea nel Cigno, una delle zone più spettacolari della nostra galassia. Deneb la stella più luminosa nell’immagine è a circa 2600 anni-luce di distanza. Le intricate volute di gas, principalmente idrogeno, e le spesse nubi di polvere disegnano fantastici paesaggi trapuntati di stelle, molte delle quali arricchite di complessi sistemi planetari

NGC5907ugr

La splendida galassia a spirale NGC5907 vista quasi di taglio, qui ripresa dal Large Binocular Telescope. La luce di questo Universo-isola ha impiegato oltre 50 milioni di anni per raggiungerci. In termini cosmologici siamo ancora dentro al cortile di casa, ma su scala umana è già vertigine pura.

Domenico Licchelli – 2014