Colori e Temperature delle Stelle – Domenico Licchelli e Francesco Strafella



Entrando in una stanza scarsamente illuminata ognuno di noi si accorge di una istantanea perdita di sensibilità visiva. La spiegazione di questo fenomeno sta nella struttura dell’occhio umano. Quando la radiazione luminosa arriva sulla retina stimola le terminazioni nervose in essa contenute: i CONI e BASTONCELLI.
I Coni, i quali sono maggiormente concentrati in una zona centrale della retina (detta, Fovea), operano solo in presenza di alti livelli d’illuminazione. Essi inoltre consentono di discriminare i colori e di avere una buona risoluzione dei dettagli.
I Bastoncelli sono la stragrande maggioranza di recettori luminosi presenti nella retina, circa 120 milioni contro i 7 dei coni, e si trovano soprattutto in periferia. Essi operano in condizioni di bassa luminosità e sono insensibili ai colori; per questo motivo nel caso in cui si è in ambiente scotopico (scarsamente illuminato) l’occhio umano non percepisce i colori ma solo sfumature di grigio.
Da questo si capisce che in visione notturna il nostro sistema visivo può fare affidamento solo sui bastoncelli. Questi ultimi per un completo adattamento a condizioni di bassa illuminazione necessitano in genere di un periodo compreso tra i 45 e i 60 minuti.
Trascorso questo intervallo, con il sistema completamente adattato si può notare che:
• La visibilità degli oggetti è maggiore nella zona centrale che in quella periferica del campo visivo questo perché la minima distanza angolare per distinguere separati due oggetti è rappresentata dalla stimolazione di almeno tre campi recettivi. Nella zona centrale della retina i campi recettivi sono formati da un solo fotorecettore, perciò stimolando due coni e lasciando un terzo non stimolato si potrebbe distinguere due oggetti separati. In caso di visione notturna la massima sensibilità si ha nei campi recettivi perifèrici, che però sono molto grandi (formati anche da milioni di bastoncelli) quindi il potere risolutivo è notevolmente più basso
• I colori sono percepiti solo come diverse tonalità di grigio in quanto i bastoncelli (fotorecettori deputati alla visione notturna ) sono insensibili ai colori. Quando l’occhio si è adattato all’oscurità , la sensibilità massima si sposta verso lunghezze d’onda più corte. Mentre i 555 nanometri della visione fotopica corrispondono al colore giallo-verde, i 510 della visione scotopica corrispondono al blu-verde. Al diminuire della luminosità generale dell’ambiente l’occhio perde la sensibilità per le tonalità del rosso e però distingue ancora bene i verdi, gli azzurri e i blu. Al calare delle tenebre , secondo il tipico comportamento dell’occhio umano chiamato “effetto Purkinje”, il rosso appare nero, mentre il verde mantiene ancora la sua cromaticità.
La sensibilità dell’occhio umano in visione notturna è influenzata da diversi fattori quali:
• Età: in genere la visione notturna dei giovani è più acuta di quella degli anziani
• Dieta: una alimentazione ricca di vitamina A migliora la visione crepuscolare, in quanto si comporta da enzima nella produzione di rodopsina.
• Condizioni fisiche: l’adattamento è favorito da buone condizioni di salute generale e in particolare dallo stato di salute dell’occhio
• Ereditarietà: un singolo gene può trasmettere una buona o cattiva capacità d’adattamento

Come si traduce tutto ciò nell’osservazione delle stelle? Ad occhio nudo si riesce a distinguere abbastanza bene il colore di pochissime stelle, le più luminose e generalmente di colore rosso, arancio o giallo. Quelle blu le percepiamo come bianche con qualche sfumatura sull’azzurro. In realtà molto dipende dalla trasparenza del cielo, dal tasso di umidità e dalla presenza di polveri in atmosfera. Quest’ultima componente, in particolare, tende a diventare dominante sotto cieli cittadini e/o vicini ad impianti industriali. In questo caso si assiste ad un generale arrossamento, come avviene per esempio col sole al tramonto.
Passando all’osservazione con telescopi più o meno potenti, riusciamo ad apprezzare meglio i colori ma subentrano alcuni effetti, ottici e di elaborazione del cervello, che possono fuorviare. Se lo strumento non è perfettamente apocromatico (dall’ottica principale agli oculari), il colore è fortemente influenzato dallo spettro secondario, generalmente blu-viola che rende difficile valutare il reale colore della stella. Osservando stelle doppie strette, a tutto ciò si aggiunge un eccessivo “zelo” del cervello che tende a farci vedere la compagna, solitamente un po’ più debole, del colore complementare, anche se per esempio la stella è in realtà bianca (principale gialla, secondaria blu, oppure rossa-verdastra etc.). Come si fa quindi a capire il vero colore della stella?

Breve digressione sui colori dell’arcobaleno

Molte informazioni sulla natura di una sorgente luminosa sono codificate nel cosiddetto “spettro” della luce che, nel caso del Sole, possiamo vedere anche ad occhio nudo quando osserviamo il fenomeno dell’arcobaleno che dimostra in maniera evidente che la luce del Sole, che a noi appare di un unico colore bianco, nelle particolari condizioni che si verificano dopo un temporale, quando ci sono ancora goccioline d’acqua in sospensione in atmosfera ed il Sole è basso, si può scomporre nelle sue componenti che si mostrano come una sequenza di archi contigui proiettati in cielo con colori ed intensità diversi.

Genesi dell’arcobaleno – Cortesia Livio Ruggiero

Alaska. Denali NP. Alaska Range. Rainbow above Muldrow Glacier.

Un fenomeno simile lo possiamo osservare anche se facciamo passare la luce di una lampada ad incandescenza attraverso un prisma: dopo l’attraversamento del prisma la luce bianca, inizialmente collimata in un sottile fascio, uscirà scomposta nelle sue componenti in direzioni diverse e con colori diversi. Un modo per capire cosa succede è di pensare che la nostra lampada in realtà emette una luce che è una mescolanza di radiazioni di vari colori. Nel suo passaggio attraverso il prisma le differenze tra vari colori si evidenziano perché la radiazione, entrando nel prisma, viene rifratta (come fosse “piegata”) ad angoli diversi a seconda della lunghezza d’onda, ovvero a seconda del colore. All’uscita dal prisma si noterà che la radiazione blu viene “piegata” più della rossa in modo che i vari colori emergano ad angoli diversi formando così una specie di arcobaleno.

Rifrazione di un fascio di luce bianca con un prisma

Notiamo ora che abbiamo introdotto il termine “lunghezza d’onda” in associazione al “colore della luce” e quindi abbiamo implicitamente adottato l’idea che la nostra percezione del colore sia legata alla lunghezza d’onda della radiazione o, meglio, alla combinazione di radiazioni di diversa lunghezza d’onda che mescolandosi compongono la luce emessa da una sorgente luminosa.

Siamo più pronti ora ad usare l’espressione “spettro della luce” per indicare la sequenza di intensità e di lunghezze d’onda (e quindi di colori) emesse da una data sorgente luminosa, tenendo presente che le lunghezze d’onda delle radiazioni che producono un colore blu sono tipicamente più piccole di quelle che invece producono il rosso.

Oltre che a scaldare e fornire energia, quale altra informazione porta con sé la luce del Sole?

Per rispondere a questa domanda ci può guidare un’analogia con un pezzo di ferro scaldato da un fabbro: osserviamo che all’aumentare della temperatura il colore del metallo ci appare prima nero, poi rosso, giallo ed infine, alla temperatura più alta, diventa bianco. Il fabbro può usare allora il colore come un termometro per valutare la temperatura del metallo, cosa che effettivamente fa.

Possiamo ripetere questa esperienza in casa osservando come cambia il colore del filamento di una lampada a luminosità variabile. Ci rendiamo conto facilmente che la luce è minima quando il filamento è più freddo e rosso, mentre aumenta man mano che il filamento si riscalda e tende al colore bianco.

Date queste osservazioni possiamo fare due considerazioni:

  1. un corpo emette più radiazione quando è caldo rispetto a quando è freddo;

  1. un corpo caldo appare più bianco di uno freddo, che invece tende più al rosso.

Siccome le stelle sono corpi caldi che emettono luce con modalità analoghe a quelle del filamento della nostra lampada, useremo le considerazioni fatte poc’anzi per dire che il colore delle stelle può essere usato come indicatore della temperatura di superficie, cioè della regione da cui proviene la luce stellare. Assumendo che le stelle si comportino come corpi neri, il massimo della loro emissione, e quindi il loro colore, è funzione della temperatura (Legge di Wien), così come le righe degli elementi presenti, facilmente individuabili proprio con lo spettroscopio.



Spettri di emissione del corpo nero a diverse temperature. Si nota come al crescere di T il massimo di emissione si sposta verso le lunghezze d’onda inferiori, ossia verso il blu, come previsto dalla Legge di Wien (lambdamax*T = costante)

Come valutare la temperatura misurando il colore

Dalle precedenti osservazioni potremmo già dire che le stelle blu hanno superfici più calde delle stelle rosse, ma per passare all’effettiva valutazione della temperatura delle superfici bisogna fare ancora un passo in più. Per questo abbiamo bisogno di riprendere il concetto di “spettro della radiazione” che abbiamo introdotto a proposito della luce dell’arcobaleno e che misura l’andamento della intensità dell’emissione (la brillanza) al cambiare della lunghezza d’onda (il colore).

Nella figura seguente sono rappresentati gli spettri emessi da una sorgente a tre temperature diverse; si nota che, se misuriamo le intensità a due diverse lunghezze d’onda, troviamo valori differenti al variare della temperatura dello spettro. In altre parole il rapporto delle intensità della luce a due diverse lunghezze d’onda cambia al cambiare della temperatura e quindi è una quantità che può essere utilizzata per ricavare la temperatura quando non possiamo porre un termometro a contatto con la nostra sorgente luminosa ma ne possiamo solo osservare lo spettro.

Grafico esplicativo del concetto di Temperatura di colore. Per chiarire le differenze con la Fig.1 precedente si noti che, per evidenziare meglio il comportamento dello spettro al variare della temperatura, abbiamo usato scale logaritmiche. Inoltre le lunghezze d’onda sono state espresse come frequenze usando la relazione: lunghezza d’onda x frequenza = velocità della luce.

Il gioco è fatto: basandoci sull’esperienza acquisita studiando il comportamento della luce di una piccola sorgente nei nostri laboratori abbiamo individuato un metodo applicabile alla luce in generale, e quindi anche alla luce proveniente dalle stelle. Possiamo quindi dire di poter valutare le temperature delle superfici stellari misurando la brillanza di una stella a due diverse lunghezze d’onda della luce, evitando in questo modo di fare un viaggio fino alla stella per mettere un termometro a contatto con la sua superficie! Le temperature valutate con il metodo appena descritto vengono indicate spesso con il nome di “temperature di colore”.

Operativamente si utilizza la fotometria per misurare l’intensità della luce che passa attraverso diversi filtri. Ciascun filtro consente il passaggio solo di una parte specifica dello spettro della luce, respingendo tutte le altre. Un sistema fotometrico ampiamente utilizzato è chiamato sistema Johnson-Cousin UBVRI. Impiega filtri passa banda: U (“Ultravioletto”), B (“Blu”), V (“Visibile”), R (Rosso) e I (infrarosso); ciascuno seleziona diverse regioni dello spettro elettromagnetico.

Il processo di fotometria UBVRI prevede l’utilizzo di dispositivi sensibili alla luce come i CCD accoppiati ad un telescopio puntato verso una stella di cui si misura l’intensità della luce che passa attraverso ciascuno dei filtri individualmente. Questa procedura, per esempio con i filtri UBV, fornisce tre luminosità o flussi apparenti (quantità di energia per cm2 al secondo) designati da Fu, Fb e Fv. Il rapporto dei flussi Fu/Fb e Fb/Fv è una misura quantitativa del “colore” della stella, e questi rapporti possono essere usati per stabilire una scala di temperatura per le stelle. In generale, quanto più grandi sono i rapporti Fu/Fb e Fb/Fv di una stella, tanto più calda è la sua temperatura superficiale.

Imaged from ESO’s La Silla Observatory, this photograph brilliantly captures the full Orion constellation and arcs of gas and dust weaving through the constellation. Just to the left of the the Hunter’s three-star belt is the bright Orion Nebula, one of the most well known star-forming regions.

Ad esempio, Bellatrix in Orione ha Fb/Fv = 1,22, indicando che è più luminosa attraverso il filtro B che attraverso il filtro V. inoltre il suo rapporto Fu/Fb è 2,22, quindi risulta più luminoso attraverso il filtro U. Ciò indica che la stella deve essere davvero molto calda, poiché la posizione del suo picco spettrale deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro U, o ad una lunghezza d’onda ancora più corta. La temperatura superficiale di Bellatrix (determinata confrontando il suo spettro con modelli dettagliati che tengono conto delle sue linee di assorbimento) è di circa 25.000 Kelvin.

Possiamo ripetere questa analisi per Betelgeuse. I suoi rapporti Fb/Fv e Fu/Fb sono rispettivamente 0,15 e 0,18, quindi è più luminosa in V e più fioca in U. Quindi, il picco spettrale di Betelgeuse deve trovarsi da qualche parte nella banda spettrale del filtro V, o ad un valore maggiore di lunghezza d’onda. La temperatura superficiale di Betelgeuse è di soli 2.400 Kelvin.

Gli astronomi preferiscono esprimere i colori delle stelle in termini di differenza di magnitudine, piuttosto che di rapporto di flussi. Pertanto, tornando alla blu Bellatrix abbiamo un indice di colore pari a

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (1,22) = -0,22,

Allo stesso modo, l’indice di colore per la rossa Betelgeuse è

B – V = -2,5 log (Fb/Fv) = -2,5 log (0,18) = 1,85

Gli indici di colore, come la scala delle magnitudini, vanno all’indietro. Le stelle calde e blu hanno valori B-V più piccoli e negativi rispetto alle stelle più fredde e rosse.

Un astronomo può quindi utilizzare gli indici di colore di una stella, dopo aver corretto l’arrossamento e l’estinzione interstellare, per ottenere una temperatura accurata di quella stella.

Il Sole con una temperatura superficiale di 5.800 K ha un indice BV di 0,62.

Domenico Licchelli e Francesco Strafella

Rileggiamo il Sidereus Nuncius – I satelliti di Giove – Domenico Licchelli

Copertina_Rileggere-il-Sidereus-NunciusIn questo capitolo parleremo del Sidereus Nuncius, l’opera in cui il grande Galileo riporta le prime osservazioni eseguite con il suo perspicillum (cannocchiale). Descrive la Luna, la Via Lattea, le stelle, per concludere con la sua più importante scoperta: i satelliti di Giove. Per capire la genialità, l’entusiasmo e la freschezza del libro, ne estrarremo le parti più importanti (tradotte in italiano e scritte in corsivo); le accompagneremo con immagini riprese da telescopi moderni per mostrare la grande precisione delle osservazioni galileiane, eseguite con uno strumento oggi considerato “ridicolo”; inseriremo alcuni disegni originali; commenteremo passo dopo passo lo scritto del sommo pisano evidenziandone le conclusioni corrette (molte) e quelle errate (poche); quando necessario, aggiungeremo note più tecniche relative alle immagini. Sarà sicuramente una lettura entusiasmante e piena di sorprese, conosciuta da pochi e ricca di spunti di riflessione. Forse vi farà anche venire voglia di accostarvi maggiormente alla visione del Cielo …

Sidereus_Nuncius_1610.GalileoLa dedica
… Ecco dunque quattro stelle dedicate al vostro nome illustre, ma non scelte tra quelle fisse, numerose e servili, ma nella schiera dei pianeti. A voi ho riservato quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima, ed insieme ad essa, con mirabile concordia, compiono il giro intorno al centro del mondo, il Sole, in dodici anni. Quando le scoprii sotto i vostri auspici, serenissimo Cosimo, ancora ignote a tutti gli astronomi precedenti, con ragione decisi di insignirle con l’augusto nome della vostra Casa. Essendo stato io il primo ad averle studiate, chi mai potrà riprendermi se imporrò ad esse il nome di ASTRI MEDICEI? …
Anche Galileo doveva mangiare. Il suo dono al serenissimo Cosimo trasuda di rispetto, deferenza ed ossequio. E non dona al Signore di Firenze una “cosa” qualsiasi, ma “quelle che con movimento differente e veloce compiono l’orbita attorno a Giove, stella nobilissima …”. E’ ovvio: anche il suo dono deve essere nobile come chi lo riceve. E poi il finale: “chi mai potrà accusarmi di essere stato troppo generoso? I satelliti sono miei e ne faccio quello che voglio!” E’ quasi commovente l’umanità che se ne evince.

Le scoperte
… Grande cosa è stata aggiungere alla immensa moltitudine delle stelle fisse, visibili fino ad oggi ad occhio nudo, altre innumerevoli, mai prima osservate, il cui numero supera più di dieci volte quello delle conosciute …
… Bellissima e piacevole cosa è stato anche vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così vicino come se si trovasse a soli due raggi. In tal modo il diametro di essa appariva trenta volte, la superficie novecento, ed il volume quasi ventisettemila volte più grande di quanto non si vedesse ad occhio nudo. Attraverso questa esperienza chiunque noterebbe che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra ed ineguale e, proprio come la Terra, piena di sporgenze, cavità ed anfratti …
… Ma quello che supera ogni possibile meraviglia è stato aver scoperto quattro astri erranti, da nessuno mai visti precedentemente, che come Venere e Mercurio attorno al Sole, ruotano attorno ad un astro tra i più grandi conosciuti, ora precedendolo, ora inseguendolo, senza mai allontanarsene più di una breve distanza ben delimitata …”

Il cannocchiale
… Circa dieci mesi fa mi giunse notizia che un certo Fiammingo aveva costruito un “occhiale” attraverso il quale oggetti molto lontani e confusi si vedevano molto vicini e distinti. Questa cosa mi venne confermata dopo pochi giorni dal nobile francese Iacopo Badovere di Parigi. Ciò fu causa della mia disperata volontà di ottenere uno strumento analogo, che riuscii a costruire basandomi sulla teoria della rifrazione luminosa. Preparai un tubo di piombo alle cui estremità inserii due lenti, entrambe piane da una parte e dall’altra una convessa e una concava. Posto l’occhio dalla parte concava vidi gli oggetti tre volte più vicini e nove volte più grandi di quanto potessi fare ad occhio nudo. Poi ne costruii uno più accurato che mi permise di vedere gli oggetti ingranditi sessanta volte. Infine, senza risparmiare fatica e spese, riuscii a realizzare uno strumento eccezionale, con il quale arrivai a vedere le cose trenta volte più vicine e mille volte più grandi che viste ad occhio nudo …”

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Questo esemplare è uno degli unici due cannocchiali esistenti certamente di Galileo. Rivestito in pelle con dorature impresse a caldo, lo strumento fu donato a Cosimo II subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius (19 marzo 1610). Vetro, legno, pelle; lunghezza 92 cm, diametro 6 cm Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza

Anche se forse non fu proprio il primo a costruirlo, Galileo ama il suo gioiello quasi fisicamente. Sa che deve migliorarlo in tutti i modi e lo fa con grande fatica sia fisica che finanziaria.

I satelliti di Giove
… Descriverò adesso le osservazioni dei quattro PIANETI da me scoperti e mai visti prima d’ora dal principio del mondo e darò notizie delle loro posizioni, mutamenti, movimenti, invitando tutti gli astronomi a studiare e definire i loro periodi che finora non riuscii a stabilire per la limitatezza del tempo avuto a disposizione (due mesi soltanto). Ricordo però che per compiere queste osservazioni è necessario utilizzare un cannocchiale “esattissimo” come quello di cui parlai all’inizio …
Importantissimo brano per comprendere il carattere di Galileo e la sua emozione di fronte ad un nuovo Universo che gli si apre improvvisamente davanti agli occhi. Innanzitutto l’orgoglio non molto velato (“mai visti prima d’ora dall’inizio del mondo”), poi il suo caloroso invito a seguirlo nella conquista del Cosmo senza paure o remore (“invitando tutti gli astronomi”) ed infine la sua ammirazione per lo strumento da lui creato, ma anche la paura che le sue potenzialità non vengano adeguatamente comprese se riprodotto senza la necessaria abilità (“è necessario utilizzare un cannocchiale esattissimo”).”

La scoperta
“… Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; poiché avevo preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era accaduto per la debolezza dell’altro strumento) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime; sebbene le credessi fisse, mi destarono una certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all’eclittica, e più splendenti delle altre di grandezza uguale alla loro. Esse e Giove erano in questo ordine:

satelliti Medicei-280708_2132T

cioè due stelle erano ad oriente ed una ad occidente. La più orientale e l’occidentale apparivano un po’ maggiori dell’altra. Non mi curai minimamente della loro distanza da Giove, perché, come ho detto, le avevo credute fisse. Quando, non ne so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla medesima indagine il giorno otto, vidi una disposizione ben diversa: le tre stelle infatti erano tutte ad occidente rispetto a Giove, e più vicine tra loro che la notte antecedente e separate da eguali intervalli, come mostra il disegno seguente:

satelliti medicei-290708_2133TC’è da rimanere estasiati di fronte alla semplicità, il rigore, l’emozione che scaturisco da queste poche righe. Galileo si accorge di avere fatto una scoperta epocale, ma cerca di mantenere la calma e non rigetta subito l’ipotesi di trovarsi di fronte a delle stelle fisse (quindi niente di speciale) ma non può non esprimere il suo dubbio in proposito (“disposte esattamente lungo una linea retta e parallela all’eclittica”). Mente sicuramente quando dice: “non so nemmeno il motivo, mi rivolsi di nuovo alla stessa indagine…”. Sicuramente non vedeva l’ora di riosservare quelle strane stelle la notte dopo!

A questo punto vale la pena di fare una breve constatazione. Nel corso dei secoli sono state molte le speculazioni riguardo alle capacità osservative di Galilei. In particolare ci si è chiesti come mai le osservazioni dei satelliti medicei siano state tanto accurate mentre al contrario i disegni lunari mostravano una certa approssimazione. In realtà se si analizzano accuratamente le posizioni dei satelliti si scopre che anche queste osservazioni sono abbastanza approssimative. In diversi casi il Nostro non riuscì a vedere distinti i satelliti quando erano piuttosto vicini tra loro oppure quando qualcuno era alla massima elongazione dal pianeta. Queste limitazioni sono dovute ad almeno due grandi cause: lo scarso potere risolutivo del telescopio usato, dovuto sia al ridotto diametro, sia alle pesanti aberrazioni presenti nella lente principale e negli oculari, oltre che al modesto campo di vista. E’ facile verificare che con un moderno binocolo si riesce ad osservare una zona ampia diversi gradi, ma è sufficiente utilizzare un piccolo rifrattore a lunga focale per vederlo ridursi drasticamente. Inoltre un normale binocolo è oggi in genere di gran lunga più corretto dei cannocchiali galileiani per cui è difficile rendersi conto delle difficoltà incontrate dal grande scienziato pisano. Anzi, rileggere le sue descrizione e le sue considerazioni è tuttora uno straordinario esempio di grande Scienza ed in particolare di grandissime capacità osservative e deduttive.

satelliti Medicei-060808_2208Tsatelliti medicei-210708_2221TLo stupore
“… A questo punto, non pensando assolutamente allo spostamento delle stelle, cominciai a chiedermi in qual modo Giove si potesse trovare più ad oriente di quelle stelle fisse, quando il giorno prima era ad occidente rispetto a due di esse. Ed ebbi il dubbio che Giove si muovesse ben diversamente da quanto descritto dai calcoli astronomici, ed avesse col proprio moto oltrepassato le tre stelle. Per questo aspettai con grande ansia la notte successiva. Purtroppo il cielo coperto di nubi mi precluse l’osservazione. Ma il giorno dieci le stelle mi apparvero in questa posizione rispetto a Giove:

satelliti medicei-130808_2249T_ombra

cioè ve n’erano due soltanto, ed entrambe orientali: la terza, come immaginai subito, era nascosta da Giove.
Lo stupore c’è davvero. Ma non siamo del tutto sicuri che Galileo pensasse veramente ad un movimento imprevisto di Giove che avrebbe distrutto le teorie in cui credeva ciecamente. Sapeva già di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo ed aveva quasi paura della sua eccezionale scoperta. Voleva esserne sicuro e non illudersi troppo presto (di nuovo esce la sua grande freddezza e precisione), ma questa volta non riesce a nascondere l’impazienza di tornare al suo cannocchiale. Quando ci riesce non ha alcun problema a pensare subito che “la terza stella” non visibile sia nascosta dal pianeta. Aveva già capito tutto, ma aspettava la prova definitiva.

La spiegazione
“… Erano sempre lungo la stessa direzione rispetto a Giove, e lungo la linea dello Zodiaco. Quando mi accorsi di questo compresi che simili spostamenti non potevano in alcun modo essere attribuiti a Giove, sapendo inoltre che le stelle osservate erano sempre le stesse (non vi erano altre stelle di pari luminosità lungo un notevole tratto della linea dello Zodiaco, sia prima che dopo). Mutando la perplessità in meraviglia, compresi che l’apparente mutazione non era di Giove ma delle stelle da me scoperte; e per questo pensai di dovere da allora in poi osservare il fenomeno attentamente, scrupolosamente ed a lungo …
Ogni reticenza cade e la spiegazione fluisce senza tentennamenti. Probabilmente il cambiamento da “perplessità a meraviglia” era già avvenuto nel suo intimo. Riesplode l’orgoglio, più che giustificato: “la mutazione … era delle stelle da me scoperte”. E chi mai poteva dubitare che Galileo avesse già deciso di continuare a studiare il suo fenomeno con attenzione e per molto tempo?
… Dopo pochi giorni capii anche che le stelle che compivano i loro giri attorno a Giove non sono erano solo tre, ma quattro. Misurai anche le loro reciproche distanze, annotai tutte le ore delle osservazioni, soprattutto quando ne feci molte in una stessa notte. Infatti le rivoluzioni di questi pianeti sono così veloci che spesso si notano differenze anche orarie …
L’emozione e la gioia dell’uomo lasciano nuovamente il posto alla precisione, al rigore ed allo scrupolo dello scienziato.

satelliti medicei-120808_2214TLe conclusioni
… Queste sono le osservazioni dei quattro Astri Medicei da me scoperti recentemente e per la prima volta, sulle quali, pur non essendo ancora possibile dedurre i loro periodi, si deducono già importanti conclusioni. In primo luogo, poiché talvolta seguono e talvolta precedono Giove ad intervalli uguali e si allontanano da esso solo per un breve tratto, sia ad oriente che a occidente, accompagnandolo sia nel suo moto retrogrado che in quello diretto, a nessuno può nascer dubbio che non compiano attorno a Giove le loro rivoluzioni e, nello stesso tempo, effettuino tutti insieme il loro giro intorno al centro del mondo in un periodo di dodici anni ..”
La spiegazione è precisa, attenta ed esauriente, permeata nuovamente di orgoglio (“da me scoperti”). Ed alla fine quasi accusa di stupidità chiunque osi confutargli la sua interpretazione.

Una nuova visione dell’Universo
“… Notai anche che sono più veloci le rivoluzioni dei pianeti che descrivono orbite più strette intorno a Giove. infatti le stelle più vicine a Giove spesso si vedevano orientali mentre il giorno prima erano apparse occidentali, e viceversa, mentre invece il pianeta che descrive l’orbita maggiore, ad un accurato esame, mostrava aver periodo semimensile. Ho ottenuto quindi un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono ancora turbati dal fatto che solo la Luna giri intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, sì da ritenere per tale motivo che si debba rigettare come impossibile l’intera struttura eliocentrica dell’universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro (la Luna attorno alla Terra) mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma ben quattro stelle erranti fanno lo stesso attorno a Giove ed insieme al grande pianeta, completano la loro ampia orbita attorno al Sole in un periodo di dodici anni …”
Galileo pone l’accento sulla parte fondamentale della sua scoperta, di valenza non solo scientifica. Non solo la Terra ha un satellite, ma anche Giove, ed addirittura quattro. Questo non solo distrugge definitivamente le vecchie teorie geocentriche, ma leva ogni dubbio a chi ancora tentennava vedendo che il nostro pianeta era il solo ad avere il privilegio di una Luna tutta sua. La breve descrizione e le ferme e chiare conclusioni di Galileo fanno nascere la nuova visione dell’Universo, che aprirà in breve le porte all’astrofisica moderna.

L’atmosfera di Giove
“…Ed infine non bisogna tacere il motivo per cui gli Astri Medicei sembrano talvolta più grandi del doppio, mentre compiono attorno a Giove le loro piccolissime rivoluzioni. Certo la causa non risiede nei vapori terrestri, perché mentre essi appaiono più grandi e più piccoli Giove e le vicine stelle fisse si vedono invece immutati. Ed è anche impossibile che si allontanino così tanto dalla Terra nel loro apogeo e tanto le si avvicinino nel loro perigeo da causare un tale cambiamento: una stretta rotazione circolare non può in alcun modo produrre un simile effetto. Dato che non solo la Terra ma anche la Luna è circondata da vapori, possiamo ragionevolmente credere che la stessa cosa avvenga sugli altri pianeti, e quindi accettare che vi sia un involucro più denso del rimanente etere anche attorno a Giove. I Pianeti Medicei, con l’interposizione di questo involucro più denso, all’apogeo sembrano minori, mentre al perigeo maggiori per la mancanza o quantomeno l’attenuazione dell’involucro stesso …”
Non tutto è esatto in questa spiegazione, soprattutto nel richiamo all’atmosfera della Luna. E’ esatto invece il ragionamento che esclude la componente atmosferica terrestre ed il fatto che le orbite dei satelliti medicei devono essere molto piccole attorno a Giove rispetto alla distanza dalla Terra.

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La reale atmosfera di Giove vista oggi con un telescopio di 21 cm di apertura. Le grandi bande equatoriali sono i dettagli più appariscenti del gigante gassoso; se osservate con telescopi di elevata qualità, soprattutto sotto cieli con ottima trasparenza, rilevano una messe di particolari (gli ovali, le bande equatoriali piuttosto movimentate, i festoni e la Grande Macchia Rossa) spesso notevolmente variabili anche su scale temporali relativamente corte.

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Preistorica ripresa acquisita con una banale webcam nell’ormai lontano 2004

giove Celestron 14" @ PGR Flea3.  Damian Peach

L’enorme salto qualitativo ottenuto grazie a ottiche specializzate, nuovi rivelatori, e sofisticate tecniche di elaborazione delle immagini. Celestron 14″ @ PGR Flea3.
Damian Peach

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter. Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter's immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This NASA/ESA Hubble Space Telescope image shows a gorgeous close-up view of the planet Jupiter.
Astronomers were using Hubble to monitor changes in Jupiter’s immense Great Red Spot (GRS) storm. During the exposures, on 21 April 2014, the shadow of the Jovian moon Ganymede swept across the center of the GRS. Giving the giant planet the uncanny appearance of having a pupil in the center of a 16 000 kilometre wide eye.

This "family portrait," a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter's four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter's atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth's moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA's Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA's Voyager spacecraft.

This “family portrait,” a composite of the Jovian system, includes the edge of Jupiter with its Great Red Spot, and Jupiter’s four largest moons, known as the Galilean satellites. From top to bottom, the moons shown are Io, Europa, Ganymede and Callisto. The Great Red Spot, a storm in Jupiter’s atmosphere, is at least 300 years old. Winds blow counterclockwise around the Great Red Spot at about 400 kilometers per hour (250 miles per hour). The storm is larger than one Earth diameter from north to south, and more than two Earth diameters from east to west. In this oblique view, the Great Red Spot appears longer in the north-south direction. Europa, the smallest of the four moons, is about the size of Earth’s moon, while Ganymede is the largest moon in the solar system. North is at the top of this composite picture in which the massive planet and its largest satellites have all been scaled to a common factor of 15 kilometers (9 miles) per picture element. The Solid State Imaging (CCD) system aboard NASA’s Galileo spacecraft obtained the Jupiter, Io and Ganymede images in June 1996, while the Europa images were obtained in September 1996. Because Galileo focuses on high resolution imaging of regional areas on Callisto rather than global coverage, the portrait of Callisto is from the 1979 flyby of NASA’s Voyager spacecraft.

Conclusioni
Quale miglior regalo si poteva fare al proprio “mecenate”? Sicuramente Galileo non riusciva ancora a rendersi conto della po rtata immensa delle sue scoperte. Aveva definitivamente distrutto la visione stereotipata, immutabile e rigida dell’Universo ed aveva offerto al suo Signore ed alla conoscenza dell’uomo un bene inimmaginabile.
Le foto del presente capitolo sono state tutte eseguite da uno degli autori  attraverso strumentazione amatoriale. Eppure le immagini, sia per la moderna tecnologia sia per l’utilizzo di raffinate elaborazioni al computer, sono enormemente più nitide e precise delle lontane osservazioni galileiane. Ma cosa avrebbe saputo fare Galileo se fosse nato al giorno d’oggi?

Domenico Licchelli, Vincenzo Zappalà

Per saperne di più:

I portatori di pori – Rossella Baldacconi

Biologia delle spugne
Da oltre 500 milioni di anni, i poriferi, comunemente conosciuti con il nome di spugne, popolano i mari del pianeta, arricchendoli con una varietà illimitata di forme e colori. Questi antichissimi animali pluricellulari vivono attaccati al substrato e posseggono un’organizzazione del corpo molto semplice, priva di tessuti, organi e apparati, ma altamente specializzata nel filtrare l’acqua del mare. E proprio dall’acqua, le spugne ricavano tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere: l’ossigeno per respirare e minuscole particelle di cibo per alimentarsi.

Halichondria-semitubulosaT

Le esili digitazioni della spugna Halichondria semitubulosa

Ogni spugna funziona come un potente ed efficientissimo biofiltro in grado di depurare fino a un litro d’acqua all’ora per ogni centimetro cubo di volume corporeo. Ciò implica che un esemplare di medie dimensioni, con un volume corporeo di un litro, può filtrare nei periodi di massima attività fino a 1000 litri d’acqua in un’ora!

L’osculo di Petrosia ficiformis

L’osculo di Petrosia ficiformis

La considerevole quantità d’acqua attraversa il corpo delle spugne fluendo all’interno di una vera e propria rete idrica in miniatura, un labirinto di migliaia e migliaia di camere e canali. L’acqua penetra all’interno di questo complesso sistema acquifero da innumerevoli piccoli pori, gli ostii, e fuoriesce da altri pori di maggiori dimensioni, gli osculi. La superficie di una spugna appare, quindi, completamente bucherellata da un’infinità di pori più o meno grandi. Non a caso spugna è sinonimo di porifero, il termine scientifico di origine latina che significa “portatore di pori”.

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Sulla superficie della spugna Spirastrella cunctatrix sono ben visibili i canali esalanti che convergono negli osculi

Esistono tre differenti organizzazioni del sistema acquifero di un porifero. Il tipo più primitivo, chiamato Ascon, consiste di un’unica cavità interna, lo spongocele. La semplice struttura a sacco è priva di canali acquiferi, per cui l’acqua giunge direttamente dagli ostii allo spongocele e da qui fuoriesce attraverso un solo osculo posto in posizione apicale. Nel tipo denominato Sycon, la parete dello spongocele si ripiega più volte incrementando in tal modo la superficie filtrante. L’acqua fluisce dagli ostii in una serie di canali inalanti, penetra nello spongocele e fuoriesce dall’osculo apicale. Più complessa è la struttura di tipo Leucon contraddistinta dalla comparsa di numerose camere specializzate per la filtrazione e da un articolato sistema di canali inalanti che conducono l’acqua in entrata dagli ostii alle camere e canali esalanti che convogliano l’acqua in uscita dalle camere agli osculi. Tale struttura è tipica della maggior parte delle specie viventi di spugne e consente un notevole ampliamento della superficie filtrante a parità di volume corporeo.

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

La volta di una grotta è impreziosita dalla colorata Oscarella lobularis

Il corpo delle spugne è estremamente semplice ed è costituito soltanto da poche tipologie cellulari.
La superficie esterna è rivestita da numerose cellule appiattite e affiancate, i pinacociti, che hanno la funzione di proteggere la spugna da traumi esterni. Le pareti interne del sistema acquifero sono, invece, tappezzate da moltitudini di cellule flagellate, i coanociti, che producono una corrente d’acqua continua grazie all’incessante movimento del loro lungo flagello, e trattengono le particelle di cibo presenti nell’acqua con prolungamenti simili a sottilissimi peli, i microvilli. Tra la superficie esterna e le pareti interne, esiste uno strato intermedio, il mesoilo, che contiene le strutture di sostegno della spugna e in cui si trovano gli archeociti, cellule indifferenziate implicate nella digestione delle particelle alimentari, nella riproduzione e nella rigenerazione di porzioni di spugna danneggiate. Nel mesoilo sono presenti anche cellule che accumulano sostanze di riserva, cellule che provvedono all’escrezione dei prodotti di rifiuto, cellule riproduttive e cellule che elaborano gli elementi che costituiscono lo scheletro della spugna.

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Le digitazioni irregolari della spugna Tedania anhelans

Il corpo delle spugne è sostenuto dal collagene, la principale proteina strutturale del regno animale, che può trovarsi sotto forma di fibrille disperse nella matrice intercellulare o come spongina, quest’ultima arrangiata in fibre o filamenti. La maggior parte delle spugne possiede anche uno scheletro minerale costituito da microscopici “ossicini” di natura calcarea o silicea, le spicole. Esistono moltissime morfologie spicolari: spicole lisce o spinose, dritte o curve, con le estremità smussate o a punta, spicole a forma di bastoncino, spillo o stuzzicadenti, a forma di stella, sfera, chela, e tante altre ancora.

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

La spugna rete gialla Clathrina clathrus nella forma contratta

Le spugne sono organismi modulari, ovvero costituiti da numerose unità funzionali. Diversamente da quanto accade negli organismi coloniali, come nei briozoi e nelle ascidie, le unità funzionali non possono essere distinte l’una dall’altra.
Si riproducono per via sessuale o, più raramente, asessuale. La prima modalità implica l’elaborazione di gameti femminili, gli ovociti, e gameti maschili, gli spermi, racchiusi in gran numero all’interno delle cisti spermatiche. I gameti derivano dal differenziamento di coanociti o archeociti, e possono essere prodotti da individui separati nelle specie gonocoriche o dallo stesso individuo nelle specie ermafrodite. Molte spugne sono vivipare con fecondazione interna, altre ovipare con rilascio di gameti maschili e femminili direttamente nel mezzo acqueo e fecondazione esterna. Nella fecondazione interna, molto più comune, lo spermio emesso in acqua da una spugna, penetra attraverso gli ostii all’interno di un’altra spugna, e viene condotto ad un ovocita da una cellula coanocitaria trasformata all’occorrenza in cellula di trasporto. In seguito alla fecondazione, l’embrione va incontro ad una serie di divisioni cellulari fino alla formazione della larva. In alcune spugne, come in Spongia officinalis, la lenta maturazione degli embrioni si protrae per quasi un anno intero, iniziando in autunno con la fecondazione e terminando all’inizio dell’estate con il rilascio delle larve. Esistono differenti tipologie larvali a seconda della classe di spugne considerata, ma tutte vengono emesse dagli osculi della “mamma” spugna nell’ambiente marino e restano nel plancton per poche ore o per uno/due giorni. In questa fase planctonica, la minuscola larva non più grande di mezzo millimetro, si nutre delle proprie riserve e nuota alla ricerca di un substrato adatto su cui fissarsi, sfidando gli innumerevoli predatori e l’immensità del mare.
Infine, la riproduzione asessuale nelle spugne può essere di tre tipi: la frammentazione e la produzione di gemme o gemmule. La frammentazione è un processo che consiste nella produzione di nuovi individui a partire da frammenti del corpo di un organismo adulto. Spesso avviene per colamento di porzioni di spugna che sfruttano la forza di gravità per colare lentamente dall’organismo genitore fino a staccarsi e a cadere sul substrato dove originano nuove spugne perfettamente funzionali.

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

La riproduzione per colamento in Chondrosia reniformis

Le gemme sono protuberanze sferiche di qualche millimetro, che vengono elaborate da poche specie di spugne come quelle appartenenti al genere Tethya. Le gemme restano attaccate al corpo della spugna adulta attraverso una specie di sottilissimo cordone ombelicale finché si staccano e rotolano giù sviluppandosi autonomamente.

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Gemme sulla superficie di Tethya aurantium

Infine, le gemmule sono corpi di resistenza sferici, grandi qualche centinaio di micron, costituiti da archeociti contenuti in una capsula di collagene. In genere, le gemmule sono elaborate dalle spugne che vivono in ambienti d’acqua dolce, spesso effimeri e soggetti ad essiccamento o congelamento. Gli archeociti delle gemmule restano inattivi per tutto il periodo sfavorevole e si moltiplicano e differenziano soltanto con il miglioramento delle condizioni ambientali.

Ecologia delle spugne

Nel Mar Mediterraneo sono state finora descritte oltre 600 specie appartenenti al phylum Porifera. Questa cifra non è definitiva ma tende ad aumentare di anno in anno. Molte delle spugne mediterranee sono specie endemiche, cioè esclusive del Mare Nostrum.
Le spugne dominano gli ambienti bentonici e colonizzano in gran numero ogni tipo di substrato. Crescono sulle rocce verticali o orizzontali, in ambienti illuminati o oscuri, sopra e sotto le pietre, ricoprono alghe e conchiglie, avvolgono i rizomi delle piante marine, incrostano con mille colori i relitti sommersi e persino i rifiuti gettati sul fondo del mare.

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

Ambiente di grotta semioscura caratterizzato da numerose specie di spugne tra cui la gialla Agelas oroides

La loro caratteristica sessilità non ostacola nemmeno le poche specie che crescono sugli instabili fondi molli delle lagune o degli inospitali ambienti profondi. Insomma, le spugne crescono dappertutto, favorite dall’abbondanza del loro alimento che è presente naturalmente nell’acqua del mare.
La dieta dei poriferi comprende minuscole particelle di materia organica, molti batteri, alghe unicellulari e, raramente, piccoli protozoi del plancton. Tutti questi microscopici alimenti vengono in continuazione trattenuti durante la filtrazione dell’acqua del mare.
La filtrazione non è, però, la sola modalità di alimentazione. Alcune specie tipiche di ambienti estremi come le grotte oscure e i fondi batiali, appartenenti alla famiglia Cladorhizidae, si sono trasformate da innocue filtratrici a spugne carnivore che catturano le loro prede con filamenti armati di spicole dalla particolare forma ad uncino.
In molti casi, le spugne ricavano nutrimento anche dai microrganismi fotosintetici che ospitano all’interno del loro corpo, e con cui instaurano uno stretto rapporto simbiotico simile a quello che si stabilisce tra le madrepore e le zooxantelle nei mari tropicali. I simbionti fotosintetici sono per lo più cianobatteri, che forniscono alla spugna i prodotti della fotosintesi e l’ossigeno. In cambio, essa offre protezione, l’anidride carbonica necessaria alla fotosintesi e i prodotti di rifiuto, che vengono completamente riutilizzati dai microrganismi. I cianobatteri, inoltre, sono responsabili delle differenti colorazioni assunte da molte spugne che vivono in ambienti illuminati, e le proteggono da un eccessivo e dannoso irraggiamento solare. L’associazione tra spugna e simbionte è talvolta così stretta che gli esemplari adulti trasmettono negli embrioni un piccolo numero di microrganismi, cosicché i nuovi giovani esemplari siano già dotati dei loro fidati piccoli collaboratori.
All’interno delle spugne non si trovano solo organismi fotosintetici. Spesso il mesoilo di alcune specie è letteralmente imbottito da innumerevoli batteri eterotrofi che, in questo caso, vengono mangiati dalla spugna e costituiscono una riserva alimentare alternativa.
L’alimento fornisce l’energia necessaria per vivere e per sviluppare una forma corporea che spesso risulta strettamente correlata alle caratteristiche dell’ambiente. A volte, la stessa specie può mostrare forma completamente diversa a seconda che si trovi in acque calme o mosse. Nei luoghi caratterizzati da rilevante moto ondoso o da forti correnti, le spugne assumono per lo più forme incrostanti o creano placche spesse pochi centimetri, aderenti al substrato. Mancano del tutto le forme erette o ramificate, che verrebbero in breve strappate via dalle forze idrodinamiche. Dove le acque sono calme, invece, le spugne possono accrescersi in altezza, generando forme complesse e articolate con prolungamenti di vario genere, che le rendono particolarmente appariscenti.
Le spugne sono organismi sciafili, amanti dell’ombra, e prediligono vivere nelle grotte e negli anfratti della biocenosi del coralligeno. In questi ambienti, il nutrimento non manca ma lo spazio tende subito a scarseggiare divenendo l’unico fattore limitante. Ed è così che ha inizio una feroce competizione che coinvolge le varie specie di spugne ma anche altri organismi sessili come alghe, madrepore, ascidie e briozoi. La guerra silenziosa è combattuta a colpi di metaboliti tossici prodotti per fronteggiare i tanti competitori. Spesso, però, i composti chimici non bastano e le spugne vengono ricoperte da altri animali sessili o dagli stoloni di alghe particolarmente aggressive come la specie aliena Caulerpa cylindracea. Ma per loro fortuna gli antichi invertebrati tollerano gli organismi epibionti e sono molto plastiche riuscendo a frammentarsi a piacimento e a riunire i pezzi come fossero quelli di un puzzle.

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

L’alga verde invasiva Caulerpa cylindracea ricopre parzialmente la spugna nocciolina Chondrilla nucula

Alcune spugne, dette perforanti, vivono all’interno della roccia o dentro conchiglie, talli di alghe coralline, scheletri di madrepore, coralli e briozoi, dove scavano articolati labirinti rimuovendo meccanicamente microscopiche scaglie e sciogliendo lentamente il carbonato di calcio con secrezioni altamente acide. Dalla roccia perforata sbucano solo le papille colorate in cui sono concentrati gli ostii e gli osculi. A volte, alcune specie perforanti tendono a fuoriuscire dalla roccia in cui vivono e a ricoprirla completamente fino ad assumere una forma dapprima incrostante e poi massiva. Nel corso della loro vita si trasformano, quindi, da demolitrici a spugne costruttrici che inglobano all’interno del loro corpo una grande quantità di sedimento, contribuendo a consolidare il substrato che ricoprono.

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

I differenti stadi della vita di Cliona viridis, da spugna perforante a incrostante e massiva

Alla morte delle spugne perforanti, i labirinti di microcavità scavati con così tanta solerzia, non restano disabitati ma vengono subito occupati da altre piccole spugne, chiamate insinuanti, che riempiono i buchi nella roccia impedendo che si disgreghi, proprio come le radici degli alberi stabilizzano i versanti dei rilievi particolarmente instabili.
Sebbene piene di spicole spinose e di metaboliti tossici, le spugne vengono mangiate da molti animali marini, primi fra tutti i molluschi gasteropodi. La bellissima ciprea Luria lurida integra la sua dieta con la spugna nocciolina Chondrilla nucula e il rognone di mare Chondrosia reniformis, mentre il notaspideo Tylodina perversa mangia solo la gialla Aplysina aerophoba. Sulla sua preda, il piccolo mollusco passa gran parte della sua esistenza, nascondendosi dai predatori e deponendo le uova raccolte in lunghi nastri, anch’essi gialli. Innumerevoli sono i nudibranchi che mangiano spugne, come la vacchetta di mare che preferisce la durissima Petrosia ficiformis da cui gratta con la radula lo strato superficiale ricco di nutrienti cianobatteri simbionti, o Phyllidia flava che scala lentamente le altissime ramificazioni di Axinella cannabina per poi mangiarle a pezzetti.

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Peltodoris atromaculata all’interno dell’osculo di Petrosia ficiformis

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Il nudibranchio Phyllidia flava sulla sua preda preferita, la spugna Axinella cannabina

Molti nudibranchi frequentano le spugne perché trovano sulla loro superficie colonie di minuscole prede di cui vanno particolarmente ghiotti, come gli idrozoi e gli entoprocti. E sempre sopra le spugne sono spesso visibili le fragili braccia pelose delle stelle serpentine o i lunghi tentacoli colorati dei vermi terebellidi, organismi commensali sempre in cerca di piccole particelle di cibo.

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

Sulla spugna Ircinia variabilis stazionano le braccia piumose della stella serpentina Ophiothrix fragilis

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

L’inconfondibile Terpios fugax con una piccola stella sulla sua superficie

Le spugne vengono mangiate anche da alcuni anellidi, crostacei, stelle marine come la rossa Echinaster sepositus, ricci, varie specie di pesci e dalle tartarughe che possono arricchire la dieta a base di meduse con le morbide masse spongine. I morsi inferti dai vari predatori non sono in genere mortali per gli esemplari colpiti, che riescono ad isolare e cicatrizzare le porzioni danneggiate.
Le spugne instaurano un’infinità di relazioni più o meno strette con altri organismi marini.
Forse una delle più conosciute è la simbiosi mutualistica tra la spugna rossa Crambe crambe e alcune specie di molluschi, in modo particolare Arca noae e Spondylus gaederopus. La spugna cresce sopra le conchiglie e sfrutta le correnti respiratorie dei molluschi ricche di residui di cibo. In cambio, mimetizza i molluschi e li protegge dai predatori perché diffonde composti tossici e repellenti.
Molte spugne crescono sulle valve della grande Pinna nobilis, su varie specie di pectinidi, sui mitili, sulle conchiglie dei murici e persino attorno ai tubi dei vermetidi.
Un’altra stretta associazione lega la specie Suberites domuncula a vari paguri. La spugna avvolge completamente le conchiglie in cui risiedono i piccoli crostacei che non sono più costretti a trovarsi una nuova dimora e ad esporre il molle addome ai tanti predatori. Ricambiano la cortesia trasportando la loro protettrice gratuitamente sul fondo del mare.
Altri crostacei portano a spasso frammenti di spugna che ritagliano accuratamente con le chele e si pongono sul carapace per mimetizzarsi. È questo il caso del granchio facchino Dromia personata, che stacca grosse porzioni spongine, a volta anche più grandi di lui, le trattiene con due arti specializzati per tale funzione, e le trasporta su di sé. I frammenti di spugna non degenerano ma continuano ad accrescersi insieme al crostaceo. Anche le granceole e i granchi decorati mascherano il loro carapace con pezzetti di spugne che rendono i crostacei simili a piccole rocce in movimento.

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

La simbiosi tra il granchio facchino Dromia personata e la spugna Dysidea avara

Ulteriori relazioni interspecifiche riguardano gli animali che sfruttano il corpo delle spugne come substrato o come rifugio. I polipi gialli delle margherite di mare, Parazoanthus axinellae, preferiscono crescere sulle ramificazioni di alcune specie del genere Axinella sviluppandosi in posizione più elevata rispetto al substrato, e più vantaggiosa per catturare i piccoli organismi del plancton di cui si cibano.

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Un esemplare di Axinella damicornis completamente ricoperto dai polipi di Parazoanthus axinellae

Anche la medusa delle spugne, Nausithoe punctata, sceglie di trascorrere la fase di polipo del suo ciclo vitale, ospitata all’interno del corpo di varie specie di spugne.

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

I polipi di Nausithoe punctata cresciuti all’interno di alcune spugne

Esemplari giganteschi di Geodia cydonium o Sarcotragus foetidus rappresentano, invece, il rifugio di moltitudini di inquilini nascosti nei canali del loro sistema acquifero. In queste spugne “condominio” possono svilupparsi intere comunità di piccoli invertebrati, molte specie diverse di anellidi policheti, molluschi e crostacei.
Ogni spugna, quindi, rappresenta a seconda dei casi, un’importante componente del benthos, un filtratore in grado di depurare l’acqua del mare, un animale capace di modificare l’ambiente in cui vive, un organismo estremamente plastico, un abile competitore, una preda ed un predatore, un rifugio e un substrato dove attecchire, un fedele compagno di vita e un nucleo di biodiversità.
Nel Mar Mediterraneo, le spugne sono minacciate dal degrado degli ambienti marini in cui vivono. L’inquinamento e l’incessante intorbidamento delle acque, la devastazione dei fondi coralligeni e delle praterie di piante marine attuata dalla pesca con reti a strascico, la distruzione di substrato roccioso o di biocostruzioni ad opera dei pescatori di datteri. Non meno importanti sono i rischi legati alla competizione con un sempre maggior numero di alghe ed invertebrati alieni particolarmente aggressivi, e allo sfruttamento commerciale attuato dall’uomo in modo sconsiderato a partire dal XIX secolo. Infine, numerose anomalie termiche hanno provocato negli ultimi decenni estesi eventi di moria, che hanno interessato molte specie di spugne e di altri animali bentonici.

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un grande esemplare di Geodia cydonium , spugna protetta dalla legislazione vigente

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Un esemplare della spugna da bagno, Spongia officinalis, specie protetta dalla pesca incontrollata che ne ha ridotto drasticamente le popolazioni in tutto il Mediterraneo

Per tutti questi motivi, alcune specie di spugne particolarmente vulnerabili e oggetto di raccolta indiscriminata, sono state inserite negli allegati II e III della Convenzione di Berna e nel protocollo SPA/BIO (Specially Protected Areas and Biological Diversity in the Mediterranean) della Convenzione di Barcellona.

tabella specie protette

Specie di Poriferi protette in Italia

Rossella Baldacconi – 2014

Per saperne di più: Spugne del Mediterraneo, di Rossella Baldacconi e Egidio Trainito

Il Genio di Martano e le farfalle del mare – Omaggio a Salvatore Trinchese – Domenico Licchelli

Gli appassionati di documentari sulla vita nel mare e, soprattutto, quanti si dedicano all’attività subacquea per osservarla e fotografarla rimangono senz’altro affascinati dall’incontro con degli strani animaletti, che assomigliano alle lumache senza conchiglia dei giardini, ma a differenza di queste hanno disegni e colorazioni fantastiche, ancora di più messe in evidenza dalla presenza, sui fianchi o sul dorso, di ciuffi di appendici che fluttuano nell’acqua contribuendo alla straordinaria eleganza di movimento dei loro proprietari.

Sono i nudibranchi, “lumache” marine come i Murici, le Cipree e i Coni che, a differenza di questi, hanno rinunciato alla conchiglia e respirano anche attraverso i ciuffi di appendici, dette papille.

I nudibranchi fanno parte dei molluschi Opistobranchi (da opisten = posteriore e branchion = branchie), una sottoclasse dei Molluschi Gasteropodi, cui appartengono appunto Murici, Cipree e Coni oltre a tanti altri dotati di conchiglia, che a loro volta costituiscono una delle classi del grande tipo dei Molluschi, che comprende anche i più noti Polpi, Calamari e Seppie.

Gli Opistobranchi hanno suscitato l’interesse scientifico di alcuni tra i più famosi biologi dell’Ottocento, anche italiani e tra questi due di particolare interesse per il nostro spigolare nel patrimonio scientifico salentino: Achille Costa, figlio di Oronzo Gabriele di cui abbiamo già parlato, e Salvatore Trinchese.

Salvatore Trinchese

Salvatore Trinchese

La biografia di Salvatore Trinchese, nato a Martano, in provincia di Lecce, nel 1836 e morto a Napoli nel 1897, è quella di un grande nel panorama della biologia ottocentesca. Infatti subito dopo la laurea in medicina, conseguita nel 1860 a Pisa dopo aver concluso brillantemente gli studi presso il Collegio S. Giuseppe di Lecce, egli ottenne una borsa di studio per il perfezionamento all’estero in scienze naturali che portò a termine a Parigi frequentando i più prestigiosi laboratori del momento.

Durante quel periodo egli definì i campi di ricerca cui avrebbe dedicato la sua attività futura e tra questi un posto preminente avrebbero avuto gli studi sulla struttura e la fisiologia dei Molluschi Gasteropodi con particolare attenzione agli Opistobranchi, tanto che Riccardo Cattaneo-Vietti così scrive nel volume celebrativo pubblicato nel 1989 a cura di Guido Cimino per conto della Biblioteca Civica di Martano:

“La ricerca scientifica di Salvatore Trinchese si intreccia indissolubilmente con la storia naturale di un poco conosciuto, ma interessante, gruppo di Molluschi: i Gasteropodi opistobranchi.

Chiamato alla direzione del Museo di Storia Naturale dell’Università di Genova nel 1865 in qualità di professore straordinario, inizia in questa città ad occuparsi di questi Molluschi marini che, con la collaborazione di Clemente Biasi, raccoglie lungo le scogliere della costa genovese. Trasferitosi prima a Bologna e successivamente presso l’Università napoletana, continua a studiare questo gruppo praticamente fino alla morte…

L’attenzione di Trinchese si rivolge a quegli Opistobranchi che presentano sul dorso una serie di papille, chiamate cerata, nelle quali spesso si inseriscono i diverticoli epatici e che talvolta hanno anche funzione respiratoria. Questo sottogruppo, allora genericamente riunito sotto il nome di Eolididi, è formato da almeno due diversi ordini di Opistobranchi, gli Ascoglossa e i Nudibranchia.”

Nelle sue ricerche sulla struttura dei vari organi dei molluschi e sulle loro funzioni Trinchese sfrutta sapientemente la sue notevoli doti di microscopista, ma non trascura i problemi riguardanti la classificazione, giungendo a proporre nuovi generi e nuove specie, alcuni dei quali hanno ricevuto conferma dagli studi successivi.

Per sottolineare la grande importanza degli studi condotti da Trinchese così continua Cattaneo-Vietti:

“In alcuni suoi lavori vengono anche riportate informazioni sulla frequenza delle varie specie in determinate aree (ad esempio lungo il litorale genovese); e ciò è molto importante per comprendere come si è modificata la situazione ambientale negli ultimi cent’anni lungo le coste mediterranee per effetto dell’antropizzazione del litorale. Molte specie segnalate da Trinchese sono diventate oggi rare, probabilmente a causa delle modificazioni avvenute nell’orizzonte superiore del piano infralitorale, come già mise in evidenza Haefelfinger (1963).…

Purtroppo il fatto che abbia pubblicato in lingua italiana è stato un serio impedimento alla diffusione e comprensione della sua opera.”

I risultati di 25 anni di ricerche condotte da Trinchese sui molluschi tra Genova e Napoli sono contenuti in 46 pubblicazioni, e l’opera principale porta il titolo Aeolididae e famiglie affini del porto di Genova, illustrata con 115 tavole prevalentemente a colori fatte di sua mano, pubblicata in due parti nel 1877 e nel 1881, che conseguì il premio reale dell’Accademia dei Lincei (alcune sono riportate di seguito).

Per comprendere la passione da lui posta nello studio di questi Molluschi basta leggere come lui si rivolge al lettore della sua opera:

“I naturalisti che studiarono prima di me l’interessante famiglia delle Aeolididae, o non si curarono di rappresentarle o le rappresentarono in modo rozzo e infedele. Se si eccettuano alcuni schizzi veramente belli di C. Semper e di Alder e Hanckoc, si può affermare, senza pericolo di dare nell’esagerato, che tutte le figure di Aeolididae pubblicate dai miei predecessori sono affatto inutili. Si desiderano in esse quei caratteri di forma e di colore che guidano con sicurezza il naturalista nel riconoscere le specie. Per mettere in evidenza siffatti caratteri, ho rappresentato uno o due individui di ogni specie come li vedevo osservandoli col microscopio binoculare di Nachet. Tenendo presenti le mie figure, il mio inserviente determina le specie colla sicurezza d’un zoologo provetto. Ciò nonostante, esse non si possono dire veramente belle, poiché non ritraggono con pari fedeltà i colori. L’azzurro di queste creature è zaffiro orientale, il giallo è oro di coppella e il bianco neve intatta ripercossa dai raggi del sole. I loro colori hanno un non so che di vivo, di animato, di luminoso che noi non possiamo ritrarre fedelmente colle smorte tinte delle nostre tavolozze. I colori delle farfalle e delle paradisee sono certamente splendidi, ma non hanno il fascino di quelli veduti attraverso un velo d’acqua salata.

Le Aeolididae pur ora tolte dal mare, sono una delle più splendide manifestazioni del bello; ma tenute in cattività negli acquari, perdono in breve la vivacità dei loro colori.”……..

(estratto da Non solo Barocco)

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

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Molluschi Aeolididei del porto di Genova. Tavole opera di Salvatore Trinchese. Cortesia Dott. Lorenzo Carlino

Ai giorni nostri la possibilità di portare sott’acqua attrezzature fotografiche sofisticate, corredate di obiettivi e lenti specifiche, consente ai fotografi subacquei la documentazione fedele della straordinaria bellezza delle varie specie di nudibranchi presenti nei siti di immersione. Abbiamo perciò la possibilità di comprendere ed apprezzare lo straordinario lavoro di Salvatore Trinchese direttamente sul campo.

Nel Mediterraneo si conoscono 272 specie di nudibranchi, molte delle quali descritte solo negli ultimi decenni. Ancora oggi se ne scoprono di nuove e si rivedono le classificazioni grazie soprattutto all’utilizzo delle tecniche di analisi molecolare.

La ricerca e la documentazione degli opistobranchi salentini sta diventando sempre più una delle attività preferite dai membri dell’Associazione Culturale Salento Sommerso. Negli anni abbiamo documentato la presenza di parecchie decine di specie già note e segnalato altre di cui non se conosceva ancora la presenza nelle nostre acque (sono in preparazione alcuni lavori al riguardo che pubblicheremo a breve su riviste specializzate del settore).

Ma quali sono le caratteristiche che rendono così affascinanti questi straordinari animaletti?

T.E.Thompson scrisse che “Gli opistobranchi stanno ai molluschi come le orchidee alle angiosperme e le farfalle agli artropodi”

A differenza di molti dei loro viscidi omologhi terrestri i nudibranchi sono creature incredibilmente belle! Se si ha la fortuna di avvistarne uno mentre striscia sul fondo o abbarbicato su qualche cespuglio di idrozoi, basta osservarlo per qualche minuto per capire perché molti scienziati e fotografi subacquei sono affascinati da queste creature delicate e graziose, non a caso definite le farfalle del mare.

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

Cratena peregrina alla ricerca di colonie di Eudendrium di cui si nutre

I nudibranchi sono molluschi gasteropodi, appartengono cioè allo stesso phylum che comprende molte conchiglie che si possono rinvenire lungo le spiaggie dopo una mareggiata. Contrariamente a queste, però, i nudibranchi hanno evoluto un aspetto del corpo molto diverso in quanto il loro stile di vita non richiede più di circondarsi di un guscio protettivo, come vedremo più avanti. Il corpo è morbido e carnoso, si muovono facendo leva su un lungo piede muscolare (in modo simile alle lumache di terra) ed hanno delle appendici cefaliche dette rinofori che usano con funzione tattile e per percepire segnali chimici dall’ambiente circostante.

 Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Felimare picta o doride dipinto, un colosso tra i nudibranchi potendo raggiungere i 20cm di lunghezza

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Esemplare di discrete dimensioni di Felimida purpurea

Alcuni nudibranchi hanno sulla schiena, verso la zona posteriore del corpo, un folto gruppo di branchie che usano per la respirazione e che possono essere ritratte (Doridini). Altri hanno strutture tentacolari su tutto il corpo, sempre esposte, dette cerata, che sono utilizzate sia per la respirazione che per la difesa e che contengono anche rami del tratto digestivo (Aeolidini).

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Juvenile di Felimare picta con in primo piano il ciuffo branchiale

Coppia di Coryphella pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium

Coppia di Flabellina pedata intente a cibarsi di idrozoi del genere Eudendrium. Gli evidenti cerata terminano con le punte bianche

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Splendido esemplare di Dondice banyulensis in atteggiamento difensivo con i cerata sollevati

Bell'esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e lapertura genitale

Bell’esemplare di Felimare tricolor. Sono evidenti i rinofori, il ciuffo branchiale e l’apertura genitale

Vivono sui fondali di tutto il mondo sotto la zona intertidale, da pochi centimetri dalla superficie fino a 15-20 metri ed oltre. Scivolano usando il loro piede muscolare su sedimenti, alghe, rocce, spugne, coralli e altri substrati, spesso adottando colorazioni e textures simili a quelle di tali substrati al fine di ottenere una mimetizzazione molto efficace. Se si tiene conto poi che per quasi tutte le specie mediterranee le dimensioni sono dell’ordine del cm, è evidente che si richiede al fotografo ed al naturalista che li cercano un grande spirito di osservazione ed una pazienza infinita.

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

Platydoris argo ben mimetizzati sul fondale

I nudibranchi sono carnivori e si nutrono di ogni sorta di creature (idroidi, tunicati, spugne, anemoni, solo per citarne alcuni) e talvolta anche di altri nudibranchi. All’interno dell’apparato boccale hanno una particolare struttura dentata, chiamata radula, specializzata per un certo tipo di alimento, che ne costituisce un importante elemento di differenziazione (anche se a volte non sufficiente per una corretta classificazione tassonomica).

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Flabellina ischitana intenta a predare i polipi di un idroide del genere Eudendrium (Eudendrium racemosum)

Poiché i nudibranchi non hanno guscio protettivo, hanno bisogno di altri tipi di protezione dai potenziali predatori. Essi adottano varie strategie: alcuni si mimetizzano perfettamente con il substrato, altri al contrario esibiscono colori molto vivaci e ben visibili ai predatori per avvertirli della loro tossicità (colorazione aposematica). Quest’ultima è così efficiente che viene adottata anche da molti vermi piatti come i Platelminti che, ad una prima occhiata, possono essere scambiati per nudibranchi (la forma del corpo però svela immediatamente che si tratta di un travestimento).

 Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Cuthona caerulea, un gioiello concentrato in pochi millimetri

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Prostheceraeus giesbrechtii, appartenente al phylum dei platelminti, o vermi piatti. Sono un ottimo esempio di mimetismo batesiano, nel senso che imitano le colorazioni dei tossici nudibranchi per evitare di essere predati

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco sacoglosso

Thuridilla hopei. Anche se potrebbe sembrare a prima vista un nudibranco in realtà è un opistobranco che appartiene all’ordine dei sacoglossi

Alcuni nudibranchi possono anche secernere sostanze chimiche tossiche o acide quando sono disturbati. Gli Aeolidini poi, che si nutrono di cnidari, un gruppo che comprende anemoni, coralli e idroidi, hanno sviluppato un’altra incredibile abilità. Gli cnidari posseggono speciali cellule urticanti a forma di arpione, dette nematocisti, che utilizzano a scopo difensivo. I nudibranchi Aeolidini riescono a cibarsene senza causare l’attivazione delle nematocisti per poi trasferirle fino alle punte dei cerata dove, conservandole in apposite strutture dette cnidosacchi, diventano un efficace meccanismo di difesa acquisito.

I nudibranchi sono tutti ermafroditi simultanei, possiedono cioè sia gli organi riproduttivi maschili che femminili, con le aperture genitali sul lato destro. In certi periodi non è raro assistere a fecondazioni incrociate che portano al rilascio di masse di uova, di solito a forma di spirale o di nastri arrotolati, generalmente deposte in prossimità o direttamente sull’animale di cui si nutrono.

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

Felimida krohni in fase riproduttiva. Le dimensioni dei due esemplari sono inferiori al cm

I loro cicli vitali sono legati a vari fattori ambientali tra cui la temperatura dell’acqua e, ovviamente, la disponibilità del loro alimento preferito ma, seppur con una grande variabilità, è possibile incontrare qualche esemplare delle varie specie durante tutto l’anno. II titolo di presenzialista spetta alla Peltodoris atromaculata o vacchetta di mare, facilmente visibile sulla spugna Petrosia ficiformis di cui si nutre avidamente. Nel coralligeno, in grotta e in tutti gli ambienti in cui vi è la spugna ospite, questo nudibranco è una presenza pressochè costante.

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell'ovopositura

Coppia di Peltodoris atromaculata, dette anche vacchette di mare, intente nell’ovopositura. Notare la superficie biancastra della spugna Petrosia ficiformis messa a nudo dai nudibranchi con la loro radula

Per individuare buona parte degli altri nudibranchi è indispensabile adottare una filosofia di immersione da naturalisti, in cui l’osservazione minuziosa di ogni centimetro quadrato di fondale è il modus operandi più consono ed efficace. Il premio che si riceve, però, è l’osservazione nel loro habitat di alcune delle più spettacolari ed intriganti creature del mare, che non mancheranno di affascinare il subacqueo attento. E anche quando il manometro  imperiosamente lo costringerà a risalire in superficie, non vedrà l’ora di tornare sott’acqua per godere ancora una volta di una delle più splendide manifestazioni del bello, per dirla con le parole del grande Salvatore Trinchese.

Domenico Licchelli, Livio Ruggiero – 2014

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