Immaginate di trovarvi per strada di notte e di vedere in cielo delle enormi fiamme di un colore verdastro o rossastro talmente luminose che vi permetterebbero di leggere il vostro libro preferito, immersi in un’atmosfera surreale e romantica. Strano, vero? Forse per noi poveri sfortunati che viviamo in prossimità della fascia equatoriale della Terra, ma non per coloro che si trovano a latitudini maggiori, i quali possono assistere al meraviglioso fenomeno delle aurore. Le aurore si manifestano nelle regioni polari e sono dette perciò “Northern (Southern)Lights”; tipicamente sono visibili in luoghi quali Alaska, Danimarca, Scozia, Groenlandia, Islanda, Finlandia, Norvegia, Russia, mentre le aurore australi sono osservabili in regioni opposte quali Antartide, Sud America, Nuova Zelanda ed Australia. Questi fenomeni sono stati spiegati nell’antichità con racconti mitologici, a volte anche terribili, da parte delle popolazioni nordiche: i Vichinghi sostenevano che quelle luci derivassero dalle abbaglianti armature delle guerriere Valchirie, quando di notte solcavano i cieli scandinavi; gli Inuit, popolo originario della Groenlandia, attribuivano una spiegazione più macabra, ritenendo che le aurore fossero gli spiriti dei bambini che avevano perso la vita in maniera molto violenta oppure che fossero deceduti proprio il giorno del loro compleanno. Oggi sappiamo che le Valchirie e gli spiriti dei bambini in realtà non c’entrano nulla con un fenomeno la cui origine è strettamente e puramente di natura fisica: questi bagliori luminosi si verificano quando le particelle cariche provenienti dal vento solare vengono intrappolate nella magnetosfera terrestre e che in seguito interagiscono con gli atomi che si trovano nella parte superiore della nostra atmosfera.
Procediamo in dettaglio e con ordine: il Sole è una stella composta essenzialmente da Idrogeno (H) ed Elio (He) ed è inoltre dotata di un’atmosfera propria, la cui parte più esterna, la corona, raggiunge una temperatura (cinetica) di circa 2 milioni di gradi centigradi. La corona emette in tutte le direzioni un gas di elettroni liberi e particelle cariche positivamente (ioni) che può essere inteso come un plasma molto caldo. Questo gas viaggia nello spazio interplanetario con una velocità media di 400 Km/s e trasportando una densità di particelle pari a circa 5 ioni per cm3 di volume, raggiunge la Terra sotto forma di vento solare.
La Terra è un pianeta dotato di un campo magnetico di intensità media pari a 0.3 Gauss. La componente principale (circa il 97%) è originata dalla rotazione della Terra attorno al proprio asse che permette alle particelle cariche nello strato di ferro liquido che circonda il nucleo, di generare correnti elettriche e queste, grazie al loro moto, generano il campo nucleare. In più le rocce della crosta terrestre vengono magnetizzate dal campo nucleare e forniscono esse stesse un campo magnetico secondario (seppur in percentuale molto minore) noto come campo crostale.
Le linee di forza del campo magnetico terrestre, che definiscono la magnetosfera, sembrerebbero essere quelle generate da un dipolo magnetico, ossia linee simmetriche rispetto all’asse geomagnetico del campo che decorrono dal polo sud al polo nord. In realtà la forza esercitata dal vento solare sulla magnetosfera provoca una compressione e deformazione tale da determinarne la forma a goccia.
La magnetosfera, che è sostanzialmente costituita da particelle cariche, funge da ottimo scudo per la Terra, dato che estendendosi per diversi Km, impedisce alla maggior parte dei raggi cosmici e particelle cariche nocive per la vita umana di raggiungere la superficie terrestre. Questa protezione, però è assente ai poli. Mentre alcune particelle vengono deviate ed allontanate dalla magnetosfera terrestre, altre un po’ più energetiche riescono a penetrarla. Secondo ciò che viene chiamata riconnessione magnetica, le linee di forza di due corpi magnetici, direzionate in senso opposto possono distruggersi e ricombinarsi con altre linee di forza e di conseguenza liberare energia. In questo modo, quando le linee di forza del campo magnetico solare (di intensità pari ad 1 Gauss) interagiscono con quelle della Terra, le particelle cariche provenienti dal Sole riescono ad immettersi nella magnetosfera. Giunte all’interno della magnetosfera, una buona parte delle particelle viene intrappolata in particolari zone dette Fasce di Van Allen: vi è una fascia esterna a 40000 Km di distanza dalla Terra costituita da elettroni, ed una più interna a 6300 Km, ricca di protoni ed elettroni. Che fine hanno fatto le particelle rimanenti? Queste collidono con le particelle della magnetosfera e tramite le collisioni riescono a liberarsi dalla trappola innescata dallo scudo che circonda la Terra, subiscono un’accelerazione da parte del campo magnetico terrestre e raggiungono i poli. Questi, come già accennato, sono gli unici punti della Terra che non sono circondati dalla magnetosfera, pertanto le particelle del vento solare possono interagire con gli atomi che sono presenti nella parte superiore dell’atmosfera terrestre, la cosiddetta ionosfera. Queste interazioni generano un’ulteriore componente del campo magnetico terrestre (campo esterno). La ionosfera è uno strato atmosferico che si estende dagli 85 Km ai 600 Km dal suolo e l’origine del nome proviene proprio dal fatto che gli atomi in questo strato interagiscono con la radiazione solare e vengono ionizzati, perdendo o acquisendo elettroni. Come si nota dall’immagine seguente, la ionosfera appartiene a tre fasce dell’atmosfera, che sono mesosfera, termosfera ed esosfera.
Dunque come quelle antiche armate alla ricerca di nuovi territori da conquistare, che dopo aver percorso un lungo tragitto ed aver individuato la fortezza da espugnare, riescono a vincerne le difese ed innescare una battaglia interna, così alcune particelle del vento solare, dopo aver attraversato circa 150 milioni di Km ed essere riuscite a svincolarsi dalla protezione della magnetosfera terrestre, interagiscono e collidono con gli atomi dell’alta atmosfera. Questi ultimi vengono eccitati, quindi raggiungono un livello di energia superiore ma instabile e di conseguenza decadono, ritornando nello stato stabile ed emettendo radiazione elettromagnetica al seguito della transizione avvenuta. Le aurore sono i fotoni di luce emessi dagli atomi diseccitati che giacciono nella ionosfera. Le aurore terrestri si manifestano per qualche ora e possono avere forme, colore ed intensità variabili. Il colore è associato alla presenza di atomi diversi nell’atmosfera; al di sopra dei 100 Km dal suolo vi è principalmente abbondanza di Azoto (che costituisce il 78% dell’atmosfera terrestre) ed Ossigeno (20%). L’Azoto predomina sull’Ossigeno fino a 100 Km, mentre si ha maggior abbondanza di Ossigeno al di sopra dei 200 Km, come si evince dal grafico seguente.
L’Ossigeno eccitato decade dopo circa 1 secondo ed emette radiazione di colore verde quando si trova ad altitudini inferiori, mentre produce, ad altezze più elevate, luce rossa corrispondente ad una lunghezza d’onda λ pari a 6300 Ǻ (Angstrom). Quest’ultima componente determina la “auroral red line” ed è spesso difficile da individuare per la bassa sensibilità del nostro occhio al colore rosso e per la ridotta presenza di atomi di Ossigeno nell’atmosfera.
L’Azoto, inoltre, decade istantaneamente dallo stato eccitato ed emette radiazione di colore rosso, blu e violetto, le cui lunghezze d’onda sono indicate con gli stessi colori nella Figura 4, che descrive lo spettro di emissione dell’Azoto molecolare.
Di conseguenza, l’emissione di luce da parte di Azoto ed Ossigeno e la loro diversa combinazione alle differenti quote, determina la colorazione dell’aurora, complessivamente verdastra ad altitudini più basse e di un tenue colore rossastro alle quote superiori.
In più le molecole di Azoto eccitate possono interagire con l’Ossigeno atomico e determinare un’ulteriore emissione di luce verde (auroral green line), corrispondente alla lunghezza d’onda di 5570 Ǻ e visibile al di sotto dei 100 Km di altitudine.
Le emissioni di luce di cui abbiamo appena accennato, la auroral green line che corrisponde ad una riga di emissione con λ=5570 Ǻ e la auroral red line con λ=6300 Ǻ sono quelle che principalmente dominano le aurore e per questo sono chiamate righe aurorali. Le si può individuare nello spettro di emissione dell’Ossigeno Atomico riportato di seguito.
Le righe aurorali sono radiazioni emesse al seguito di particolari transizioni che avvengono tra i livelli energetici del’Ossigeno neutro, rispettivamente tra i livelli 1S0 →1D2 e 1D2→3P2. L’apice è dato dall’espressione 2S+1, dove S è il momento totale di spin degli elettroni coinvolti (il valore 1 suggerisce che S è 0, ossia gli elettroni ruotano attorno al proprio asse in sensi opposti e per questo sono detti antiparalleli, il valore 3 suggerisce S pari ad 1, quindi gli elettroni coinvolti hanno spin paralleli). Il pedice invece è definito dal valore J, la somma del momento angolare totale L (il quale descrive la rotazione delle particelle nello spazio) e del momento totale di spin S, individuato come termine di accoppiamento spin-orbita. Le lettere dei livelli S, P e D corrispondono a dei particolari valori del momento angolare totale L pari a 0, 1, 2, che permettono di individuare i diversi livelli energetici che un atomo può raggiungere.
Nei casi in cui le particelle del vento solare sono altamente energetiche si manifestano aurore fortemente intense e brillanti in cui il colore verdastro giace su di un sottile strato rosso.
Le Aurore possono essere distinte in diffuse e discrete. Le prime sono debolmente percettibili, anche in una notte buia, mentre le altre sono facilmente visibili all’interno di quelle diffuse, variando da bagliori deboli a quelli così intensi da poter riuscire a leggere un foglio di giornale.
Le emissioni aurorali assumono forme diverse, somigliando a degli archi oppure a delle corone, fino ad apparire come dei drappeggi fissi o “danzanti” nel cielo, richiamando alla mente il movimento di una tenda quando è sfiorata da una mano. Queste “tende” sono composte da raggi paralleli, ciascuno in allineamento con le linee di forza del campo magnetico terrestre, dimostrando che l’aurora è un fenomeno modellato proprio da quest’ultimo. Osservazioni mediante i satelliti hanno in effetti dato prova di come gli elettroni catturati dalla magnetosfera si dirigano verso i poli spiraleggiando attorno alle linee di forza del campo magnetico.
Il mozzafiato gioco di luci e forme che decora i cieli polari ed australi può essere apprezzato totalmente un’ora prima della mezzanotte quando l’osservatore, il polo magnetico ed il Sole sono perfettamente allineati, ossia nel momento in cui scatta la “mezzanotte magnetica”.
Le collisioni che originano le aurore avvengono in zone ovali asimmetriche attorno ai poli, cosiddette “ovali aurorali” e le loro proiezioni sulla terra determinano le “zone aurorali”, regioni dove si ha la massima osservabilità di aurore, localizzate ad una latitudine di 67°N e 67°S e con un’estensione di circa 6 gradi. Gli ovali aurorali possono variare le proprie dimensioni ed estendersi anche fino all’equatore al seguito di un’attività solare fortemente intensa. A tal proposito, si deve considerare che, come si è già osservato, le aurore sono legate al plasma emesso dal Sole e di conseguenza la loro intensità dipende dalla quantità di particelle cariche che lo costituisce, il quale a sua volta è strettamente connesso con la comparsa della macchie solari. Queste ultime sono delle piccole regioni irregolari sulla superficie del Sole, dal colore più scuro rispetto alle zone circostanti perché relativamente più fredde. Si ritiene che queste siano dovute a dei flussi magnetici in salita verso la superficie e il picco massimo di intensità si raggiunge ogni undici anni, determinando il ciclo solare. Durante il picco massimo del ciclo solare o negli anni immediatamente successivi la quantità di materiale espulsa dal Sole è così elevata che si scatenano delle forti tempeste geomagnetiche, allargando l’ovale aurorale fino alle zone temperate. E’ in queste rare occasioni che gli abitanti delle regioni vicine all’equatore possono avere qualche probabilità di assistere al fenomeno delle aurore. Pare che l’ultimo picco massimo sia stato raggiunto nel Febbraio 2012, in cui sono state registrate circa 67 macchie solari; attualmente siamo ancora nella fase attiva del ciclo, con circa 63-65 macchie solari e tutto ciò spiegherebbe la recente comparsa di aurore in una regione insolita della Terra, come quella che ospita il sud della Gran Bretagna.
Nella notte tra il 27 e il 28 Febbraio scorso le aurore boreali hanno colorato i cieli di Norfolk, Essex, Galles e Scozia, affascinando gli abitanti per un paio d’ore con i loro colori tendenti al rosso, verde e giallo. Gli scienziati che monitorano l’attività solare avevano registrato il 7 Gennaio 2014 un’espulsione di massa solare molto intensa. Di seguito, i ricercatori dello Space Weather Prediction Centre in Boulder (Colorado) avevano predetto un’imminente tempesta solare. L’intensità di luce visibile al seguito di tempeste geomagnetiche viene misurata tramite l’indice KP che può assumere valori compresi tra 0 e 9. In quell’occasione l’indice KP variò dal valore 1 (il quale indica che la luce aurorale si manifesta nel Nord della Scandinavia) al valore 7 suggerendo che le aurore potevano essere avvistate anche nel Sud del Galles e nel Sud dell’Inghilterra. Ci si aspettava dunque di riuscire a vedere le “Northern Lights” in tali zone il 9 Gennaio, ma anche se questo fenomeno si è fatto attendere, il risultato è stato comunque strabiliante.
Sembra, inoltre, che le aurore non siano dei fenomeni silenziosi: infatti come la precedente armata espugna la fortezza facendo echeggiare le proprie urla, così questi fenomeni generano dei suoni. Alcuni viaggiatori sostengono di aver udito, in concomitanza con la manifestazione aurorale, dei suoni somiglianti a degli applausi o crepitii, deboli e istantanei, giurando che provenissero dalle aurore stesse. Per molto tempo gli scienziati sono stati scettici a tal proposito, sostenendo che lo strato alto dell’atmosfera in cui si formano le aurore è così sottile che non può permettere la propagazione di onde sonore. Ma nel 2012 un gruppo di ricercatori appartenenti alla Aalto University in Finlandia ha pubblicato un articolo nella quale affermava di aver registrato un suono, prodotto a 70 m di altezza dal suolo, simile a degli applausi e in contemporanea con la manifestazione delle aurore. Secondo il parere di questi ricercatori i suoni provengono da particelle del vento solare che sono responsabili delle luci aurorali, proprio come sostenuto dai viaggiatori “fortunati”. Infatti non possiamo aspettarci di sentire un suono paragonabile a quello che fuoriesce dalle casse musicali durante un concerto, ma tutt’altro: udire questi particolari segnali acustici è molto difficile, innanzitutto perché si manifestano durante periodi di massima attività aurorale e in secondo luogo si presentano in notti prive di vento e di qualsiasi altra fonte di rumore. Ascoltare i suoni dell’aurora è un evento così raro che può capitare una sola volta nella vita.
Pare che le aurore più intense fino ad ora registrate siano state quelle avvenute il 28 Agosto e il 2 Settembre del 1859. In particolar modo l’aurora del 2 Settembre si è manifestata a distanza di un giorno dal rilascio di un’enorme quantità di energia (flare solare) da parte del Sole, l’espulsione di massa coronale più intensa mai registrata. Il flare solare ha raggiunto la Terra ed ha prodotto aurore così intense e brillanti da venir ammirate anche negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone ed in Australia. Tempeste geomagnetiche talmente forti, oltre a provocare fenomeni così luminosi possono interrompere le comunicazioni radio, ma quella volta due operatori dell’”American Telegraph Line” riuscirono a comunicare tra loro dalle due diverse sedi, Boston e Portland per circa due ore. Ciò può essere spiegato supponendo che le antenne di alcuni telegrafi avessero il giusto orientamento perché il campo elettromagnetico formatosi da quella tempesta inducesse una corrente geomagnetica, permettendo ai due operatori di comunicare a grandi distanze senza alimentatore.
Non cerchiamo, però di essere egocentrici e pensare che noi terrestri siamo gli unici ad ospitare il fenomeno delle aurore: luci aurorali, anche abbastanza spettacolari, sono state osservate su Venere, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.
Venere non è dotato di un campo magnetico nucleare quindi è priva di magnetosfera, pertanto le particelle provenienti dal vento solare impattano contro l’atmosfera venusiana e danno luogo ad aurore che si diffondono su tutto il disco planetario come delle macchie con luminosità e forma diverse, visibili sul lato del pianeta non illuminato dal Sole.
La manifestazione di aurore su Marte è stata una scoperta abbastanza recente: il 14 Agosto 2004 lo strumento SPICAM a bordo della sonda Mars Express dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) ha rivelato un’aurora nell’emisfero sud del pianeta, nella regione denominata “Terra Cimmeria”. L’emissione aurorale presentava un diametro di 30 Km ed un’estensione in altitudine di 8 Km. I ricercatori hanno notato come la regione in cui si è manifestata l’aurora presenti un campo magnetico fortemente localizzato. Così l’origine del fenomeno può essere attribuita ad un flusso di elettroni che muovendosi lungo le linee di forza del campo magnetico crostale generato da rocce magnetizzate (Marte, come Venere non è dotato di un campo magnetico principale nel nucleo) eccitano gli atomi della parte superiore dell’atmosfera marziana.
Il gigante gassoso del nostro Sistema Solare, Giove, dà luogo ad aurore che hanno un’intensità 100 volte maggiori rispetto a quelle terrestri poiché presenta un campo magnetico molto più forte di quello della Terra, pari a 4.3 Gauss. Le aurore su Giove sono state osservate per la prima volta nel 1979, ad opera della missione Voyager 1. L’Hubble Space Telescope (HST) ha catturato un’immagine di un’aurora che, ondeggiando come una tenda, colora il polo nord del pianeta, visibile nella parte ultravioletta (UV) dello spettro elettromagnetico. Si ritiene che le cause di questo fenomeno siano dovute non solo all’interazione del vento solare con l’atmosfera di Giove ma anche, e forse soprattutto, al proprio satellite Io.
Io presenta un’intensa attività vulcanica ed emette nello spazio circostante elementi come Zolfo ed Ossigeno, i quali sfuggono al suo campo gravitazionale, si dispongono in una regione a forma di “ciambella” nella regione circostante il pianeta gigante e interagiscono con il campo magnetico di Giove. In questo modo vengono generate delle aurore visibili nella regione X dello spettro elettromagnetico. Come prova che gli atomi emessi dai vulcani di Io siano in grado di influenzare il fenomeno aurorale che si manifesta su Giove i ricercatori hanno tenuto sotto controllo un particolare elemento prodotto dal satellite, il Sodio. Nel 2007 i dati hanno registrato un aumento di Sodio nella regione che circonda Giove al seguito di un’attività vulcanica di Io particolarmente forte; ma come conseguenza di questa emissione, è stato rilevato un basso segnale radio, indice che sono state prodotte poche aurore sul pianeta gigante. Infatti prima di raggiungere l’atmosfera, le particelle cariche possono emettere onde radio. In conclusione, Io ha un’enorme influenza sulla manifestazione di aurore sul pianeta Giove, ma così come può creare il fenomeno, è anche in grado di ridurlo.
Su Saturno hanno origine spettacolari ed intense aurore che durano per giorni, visibili però, anch’esse, nell’UV. Furono osservate per la prima volta ai poli nel 1979, dalla sonda Pioneer 11 di appartenenza della NASA. Le aurore di Saturno si estendono per diversi Km dai poli e l’emissione di radiazione ultravioletta è dovuta alla presenza di atomi di Idrogeno nell’atmosfera. Le prime immagini che raffiguravano questi fenomeni nelle regioni settentrionali di Saturno sono state ottenute nel 1994/1995 dall’HST, mentre recentemente la sonda Cassini ha fornito una più vasta gamma di manifestazioni aurorali, indagando nelle regioni dello spettro elettromagnetico corrispondenti all’IR (infrarosso), UV e Visibile. Le osservazioni comprendono sia le regioni settentrionali complementari che quelle meridionali e la sonda ha inoltre ripreso le aurore sulla faccia del pianeta non visibile dalla Terra.
La prima volta che venne osservata un’aurora su Urano fu nel 1986, quando la sonda della NASA Voyager 2 vi orbitò attorno e una recente foto di manifestazioni aurorali è stata ottenuta dall’HST nel 2011. Urano è un pianeta particolare per l’inclinazione del proprio asse di rotazione, quasi giacente sul piano orbitale: ciascuna regione polare è illuminata dal Sole per 40 anni e rimane in ombra per altrettanti anni. Ha inoltre un asse di campo magnetico inclinato di circa 60° rispetto all’asse di rotazione. A causa della particolare inclinazione dell’asse rotazionale l’aurora vista da Voyager 2 è diversa rispetto a quella fotografata dall’HST. Nel 1986 l’asse di rotazione puntava in direzione del Sole (solstizio) e la sonda, orbitandogli attorno, ha potuto notare le aurore formatesi sul lato in ombra del pianeta. Nel 2011, invece, l’asse di rotazione era perpendicolare al Sole (punto equinoziale) e in più la visibilità dell’HST era ridotta poiché questo telescopio spaziale osserva il Sistema Solare rimanendo in orbita attorno alla Terra. HST è riuscito, nonostante tutto, a catturare dei deboli bagliori luminosi (visibili nella seguente Figura 11) della durata di pochi minuti, nella regione destra del pianeta, corrispondente al polo nord magnetico di Urano.
Anche su Nettuno sono state individuate delle aurore, con una potenza pari a 50 milioni di Watt, molto minore rispetto ai 100 miliardi di Watt delle aurore terrestri. Il campo magnetico di Nettuno però è molto complesso e questo dà origine a fenomeni aurorali altrettanto difficili da studiare, dislocati in diverse regioni del pianeta e non solo ai poli.
Infine, varcando i confini del nostro quartiere ed uscendo dal Sistema Solare, ritroviamo nuovamente le aurore che animano le pseudo-stelle di massa molto piccola, minore di 0.08Mּ (Mּ indica la massa solare che equivale a 2×1033g), le “nane brune”. Un gruppo di ricercatori capeggiato da Jonathan Nichols ha dimostrato che l’emissione di onde radio da parte di alcune nane ultrafredde potrebbe essere spiegata tramite fenomeni simili a quelli che originano le aurore. In questo modo si potrebbe riuscire ad individuare pianeti di cui altrimenti non si verrebbe mai a conoscenza. In più tale meccanismo può essere sfruttato per conoscere il campo magnetico di altri pianeti ed avere informazioni sulle interazioni con le loro stelle e i propri satelliti.
Le transizioni che generano le aurore terrestri sono state individuate anche in ammassi di gas rarefatto e pulviscolo cosmico, note come nebulose gassose. Queste si suddividono in: nebulose diffuse (luminose ed oscure), nebulose planetarie e nebulose extragalattiche. Le nebulose planetarie sono il risultato di una stella di massa pari alla massa del nostro Sole, che cessata la reazione nucleare che converte Idrogeno (H) in Elio (He) nel proprio nucleo (core) e quindi uscita dalla fase di sequenza principale, si presenta con un nucleo di He e con l’H nelle regioni circostanti. In più, attorno al nucleo vi è una fascia di He in combustione che avanzando verso l’esterno, libera un’energia tale da far espellere il materiale circostante lasciando a nudo il nucleo di He: in questo modo si forma la nebulosa planetaria. Agli inizi dello scorso secolo erano state individuate, nello spettro delle nebulose, delle righe di emissione insolite, la cui origine era sconosciuta. In un primo momento si ipotizzò l’esistenza di un nuovo elemento, il “Nebulio” che decadendo da livelli energetici di energia superiore emetteva radiazione a lunghezze d’onda anomale, specialmente a λ=4959 Ǻ e a λ=5007 Ǻ. Successivamente si intuì che tali righe venivano emesse da materiali noti che si trovavano però in particolari condizioni ed in effetti ciò venne confermato nel 1928 dal fisico statunitense Ira Bowen. Infatti Bowen analizzò i livelli energetici dell’Ossigeno O++ notando che le due righe spettrali sopra citate corrispondevano alle rispettive transizioni: 1D2→3P1 e 1D2→3P2. Un’altra insolita riga veniva generata dalla transizione 1S0→1D2, la transizione che sulla Terra genera l’auroral green line e per questo nominata, come già detto, “transizione aurorale”. All’interno delle nebulose avvengono anche processi di foto-ionizzazione ossia un fotone interagendo con un atomo od uno ione, lo priva di uno o più elettroni. Questi ultimi sono così energetici che collidendo con l’O++ nella sua configurazione fondamentale, lo eccitano e gli permettono di raggiungere livelli più energetici ed instabilie favorire di conseguenza i decadimenti sopra descritti. Si può stimare il rapporto tra l’energia emessa durante la transizione aurorale (1S→1D) e quella emessa durante la transizione nebulare (1D→3P) e in questo modo i ricercatori potrebbero riuscire a conoscere la temperatura degli elettroni coinvolti nel processo e la loro densità. In questo modo si possono comprendere meglio le modalità in cui si verificano questi processi proibiti, la cui esistenza viola una delle regole che permettono la transizione tra livelli energetici. Il motivo sostanziale del perché queste transizioni si notano nelle nebulose risiede nelle grandi dimensioni dell’oggetto considerato, il quale possiede un’elevata densità di particelle che possono dar luogo ad un gran numero di collisioni. Da questi rapporti di energia si può tra l’altro venire a conoscenza della sezione d’urto delle collisioni tra elettroni ed atomi, ossia determinare la probabile area attorno all’atomo nella quale avviene la collisione ad opera dell’elettrone.
Le aurore sono dei fenomeni che suscitano sorpresa e stupore ma i meccanismi che sono alla base della loro origine sono un importante oggetto di studio. Ammirandole e studiandole, possiamo permettere al nostro occhio di contemplarne la bellezza e fornire alla nostra mente i mezzi per comprendere fenomeni che avvengono in tutto l’Universo.
Anna Galiano – 2014